I “piedi neri” italiani estinti pochi decenni fa

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ABITANTI DELLA PIANAConosciamo dai fumetti i Piedi neri nativi americani, più di quanto non sia raccontato da una storiografia reticente sulla loro decimazione avvenuta per mano dei bianchi; conosciamo i Pieds noirs, ex coloni francesi espulsi dall’Algeria; ma anche in Italia abbiamo avuto i piedi neri, con la “p” minuscola, specie rurale estinta presente in vaste zone italiane: contadini, che viaggiavano scalzi durante un paio di stagioni ogni anno (primavera estate), in vaste aeree del centro-sud, a causa di misere condizioni economiche e del clima favorevole a camminare senza calzature.
L’immagine in calce – degli anni Trenta del Novecento, gentilmente prestatami da Vinicio Sonnati e inserita nel libro Chj lavora fa la gobba chj ‘n lavora fa la robba – n’è un’evidente testimonianza. Nel paese della Piana (comune di Castiglione del Lago), in occasione della visita di amici e parenti fiorentini, fu scattata questa foto in cui i residenti sono distinguibili dagli ospiti, perché tutti scalzi… non certo per snobismo. E’ probabile che il piacere di un ricordo fotografico sia sorto improvviso e spontaneo, cosicché le persone furono colte nella loro quotidianità.
Adulti, vecchi, bambini e donne sicuramente avranno posseduto calzari, ma, di norma, nelle campagne del centro sud Italia nelle stagioni miti o calde si stava scalzi, per non sciupare la modesta dotazione di scarpe. Che ovviamente era diversa: in qualità e quantità variabili secondo le condizioni economiche familiari. Nelle famiglie più misere, il lusso era rappresentato dagli zoccoli, che ciabattini ambulanti producevano al domicilio dei clienti in cambio di modeste quantità di prodotti dell’orto del pollaio della cantina…Su un plantare di legno veniva inchiodata a bollette o chiodini una striscia di cuoio o di pelle in grado di avvolgere il piede; e sotto la pianta lignea, come antiscivolo, s’usava infiggere file di bollette (sul terreno il passo risultava quasi felpato, ma, in un qualsiasi pavimento, la camminata dello zoccolo produceva un gran fracasso che gridava a ogni vento la miseria del suo portatore) o, se disponibile, gomma recuperata da copertoni dismessi. Salendo sulla scala della povertà e della propensione al risparmio (mentalità contadina diffusa dalla necessità: disponendo le famiglie di pochi soldi, erano destinati a esigenze vitali, quali magiare, vestire, spese mediche, …) ai bambini, oltre gli zoccoletti, si comprava un calzare per mandarlo a scuola (nel mio caso, furono stivaletti di gomma) e un calzare più elegante come i sandolini per la prima comunione o per cerimonie familiari importanti come il matrimonio d’un parente. Anche le donne, oltre agli zoccoli, avevano un par di scarpe buone per andare a messa o alle funzioni religiose o partecipare a cerimonie familiari. Erano uno o due paia, non tante di più. Adulti e anziani, solo nel secondo dopoguerra iniziarono ad acquistare scarpe della domenica, quelle cromate marroni o nere, altrimenti si facevano fare dal calzolaio scarponcini di cuoio da usare nelle occasioni in cui si teneva a essere “in ordine”, ad esempio andando al mercato, in visita al padrone, in fattoria, … Nelle famiglie un tantino più agiate, gli uomini acquistavano o si facevano fare solidi sandali da lavoro, usati in alternativa agli zoccoli, specie in estate, dal momento che uomini donne e bambini avevano una suola naturale indotta andando scalzi (“s’è fatto il callo!” non era solo un modo di dire), tanto da non temere suoli sassosi, brozzolosi o le stecce da sfalci, ma c’erano lavorazioni in cui era necessario proteggere meglio la pianta del piede: come nel pigiare per ore e ore il vangiglio della vanga nell’affondarla sul terreno. Nei lavori sudici, quali accudire stalle di animali o lavorare sul letame delle concimaie, gradualmente nel Novecento, invalse l’uso degli stivali di gomma, ma non c’era da meravigliarsi di vedere contadini scalzi intenti a tali incombenze. E’ perciò intuitivo figurarsi – nella scarsa se non assoluta mancanza di igiene e prevenzione infortunistica, tra i lavoratori della terra, dovute a ristrettezze economiche – come saranno stati i piedi in una famiglia contadina? Neri! Senza dubbio.
A proposito di piedi neri, mi fu raccontata la storia di Giovanni delle Capanne. Le Capanne era uno sperduto casolare (uno dei tanti oggi diroccati) quasi in vetta alla montagna del sant’Egidio, in cui Giovanni conduceva un podere poverissimo – in proprio o a mezzadria non ricordo – la cui la terra avara per produrre qualche ortaggio richiedeva tanta fatica di braccia sulla zappa. In una di quelle giornate a zappare dure zolle erbose, quando Giovanni notò qualcosa di nero che si muoveva confuso tra la terra smossa, gridando: “Porca paletta… è un topo!”, menò un gran fendente di zappa…era l’alluce che gli si staccò definitivamente da un piede!
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John Keoe, protagonista a Cortona d’una start up straordinaria: culturale economica e di costume

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jack 1La morte del prof. John Kehoe, Jack per gli amici, è occasione di ricordi carichi di gratitudine (non retorica) per un caro amico cortonese-statunitense: a Cortona ebbe la cittadinanza onoraria e vi acquistò un’abitazione. Grazie a Jack, come direttore, al suo staff e alla prof.ssa Aurelia Ghezzi, dal ’69 fu scelta Cortona a sede dei corsi estivi d’arte dalla prestigiosa UGA di Athens in Georgia. Università pubblica, per qualità di insegnamenti (artistici, architettonici, letterari, medico-veterinari, ecc.,) competitiva con l’altrettanto prestigiosa e vicina Università di Atlanta. L’arrivo, in estate, di consistenti allegre brigate studentesche statunitensi suscitò un processo economico nuovo e importante: il turismo culturale dalle caratteristiche stanziali, diverso dal mordi e fuggi, rappresentando anche una ‘rivoluzione’ culturale e di costume per Cortona e il circondario tra Arezzo, Siena e Perugia. Senza dimenticare che Kehoe fu precursore per altre università nordamericane, insediatesi in città vicine, e che, nella sua lungimiranza, Jack donò al Comune uno studio per la realizzazione di scale mobili… Il successo della summer school fu tale che, poco dopo, l’Università di Athens acquistò una sede permanente, allargando l’accoglienza a docenti e studenti, realizzando a Cortona una sua prestigiosa succursale. Finestra aperta sull’arte, l’architettura, la storia, in definitiva, sulla cultura italiana. Jack, insegnante, artista plastico (una sua opera bronzea donata a Cortona fu collocata nella Rotonda del Parterre) e d’indubbie qualità manageriali, dal nulla riuscì allestire un’efficiente sede formativa nella città ben disposta a collaborare, se pur limitata nelle disponibilità finanziarie e priva di strutture adeguate alla bisogna. Eppure, l’amalgama tra il pragmatismo americano di Kehoe e il suo staff e la generosa improvvisazione cortonese, superarono le difficoltà iniziali, complici insegnanti e studenti che trovarono gradevole la calorosa accoglienza, come fu benaccetta la location in una Città storica straordinaria. Nel frattempo, tra gli effetti benefici secondari, insieme all’economia cittadina crebbe un diffuso interesse per la lingua inglese tra i giovani residenti…e non nacquero solo episodiche relazioni tra giovani del Vecchio e del Nuovo mondo, ma anche durature amicizie tra persone d’ogni età. Di amicizie Jack fu generosissimo, ricevendo molti concittadini persino a casa sua, come n’ebbi occasione negli anni Ottanta. Jack, nella sua ampia residenza tipica del sud statunitense, accoglieva gli amici con calore, oserei dire all’italiana, mettendo a suo agio l’ospite, non abbandonandolo mai un attimo, anzi, creando nella giornata visite e incontri sempre interessanti. Persona stimata e dalle buone relazioni, che condivideva volentieri, ricordo la visita in Comune dove ricevetti la cittadinanza onoraria di Athens (e conobbi la vigenza di soli due mandati del sindaco, che da noi venne dopo), stesso onore attribuito al mio predecessore, Tito Barbini, che per giunta, grazie a Jack, dalla UGA fu nominato dottore honoris causa, titolo che, mio malgrado, ho dovuto guadagnare studiando… Incontrai con Jack, al ricevimento ufficiale, tutta la poderosa organizzazione della UGA, in testa il Preside e la sua predecessora, Miss Trotter, che aveva assecondato Kehoe nella scelta di Cortona. Visitammo il grande stadio di football americano (da circa ottantamila posti), proprietà universitaria, dove giocano i Bulldogs, squadra studentesca d’alta classifica. Jack organizzò pure un party privato, presente la delegazione cortonese (mia moglie Carla, Ivan Accordi, sua moglie Adriana, la figlia Antonella e il marito Paolo Spiganti, la sorella di Ivan e suo marito Zio Brunello) e una rappresentanza di docenti colleghi di Jack e Aurelia Ghezzi, accompagnata dal marito Bob, chimico simpaticissimo, ch’ebbe tanti amici cortonesi nel gioco delle bocce a Porta Colonia, e gran bevitore. In realtà, quella sera furono molti i bevitori, trascinati in interminabili gare di resistenza dal nostro campione, Zio Brunello, che uno ad uno costrinse alla resa ogni volenteroso concorrente… Ci mascherammo, alla loro moda, nella notte di Hallowin, mescolati a studenti e familiari di Jack, la moglie Marilyn e quei loro figli che ancora non avevano preso il volo da casa (già a diciotto anni negli USA, i figli, per studio o lavoro, si spostavano da un capo all’altro dell’immenso paese). Fu, in breve, un’immersione totale nella vita e nelle abitudini americane, per quanto concentrata in pochi giorni, della quale ho ricordi nitidi d’aver assistito in anticipo a fenomeni che, in seguito, avremmo visti insorgere anche qui da noi. Perciò, per un’infinità di aspetti, resto grato dell’ospitalità a Jack, con Aurelia Ghezzi impegnata a farci da interprete, avendo noi cortonesi poca dimestichezza d’inglese. Grazie alla duttile praticità di Jack e a un’esperta organizzatrice di viaggi, sua moglie Marilyn, avemmo tempo di visitare pure la capitale georgiana, l’iper-tecnologica Atlanta, e in Florida la città di Orlando e lo strambo mondo di Disneyworld, e la metropoli per eccellenza, New York, sentendoci sicuri per la vigile assistenza, pur remota, dei coniugi Kehoe. Anche in Italia, Jack, Marilyn e i loro figli han dimostrato amicizie generose e allegre. Ho avuto modo di raccontare l’episodio di Jack insignito d’una medaglia del Pci, durante una sera alla Festa dell’Unità. Complice un fresco bianchetto, ci volle del buono per convincere l’entusiasta Jack a non fregiarsi in America di quella ‘pericolosa’ medaglia…Come c’è da dire che, grazie alla UGA, due sindaci comunisti dal consolato di Firenze ebbero sul passaporto il nulla osta d’ingresso negli USA, quando di norma era proibito. La storia delle relazioni umane a volte è capace di aggirare certi tabù di Stato, grazie alla fiducia tra le persone e amicizie sincere. E con Jack e la sua famiglia, la nostra pur breve frequentazione personale è stata di tale intensità ch’è perdurata fino a ieri, con messaggi augurali di Buone Feste che ogni anno Jack m’inviava, e, purtroppo, d’ora in poi non riavrò. www.ferrucciofabilli.it jack 3jack 2

ILIO STANGANINI, politico di razza scelse d’esser primo in Selva che secondo in Città

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Bruno Borgogni – tra i maggiori dirigenti sindacali e politici provinciali aretini del Pci e della Cgil – sosteneva che, se Ilio Stanganini fosse vissuto in una grande città, sarebbe salito ad alti livelli, ritenendolo politico di razza intelligente e capace. Ma Ilio è vissuto sempre nei luoghi natii, dove non ha mancato di mostrar talento pur senza aver seguito scuole alte e svolgendo il mestiere di pollaiolo. Scherzosamente, lo chiamavano “sindaco” di Montecchio. Titolo che non sdegnava, né era campato in aria. Per anni, Presidente di Circoscrizione che, oltre Montecchio, raccoglieva buona fetta del Chiuso cortonese: San Lorenzo, Farneta, Chianacce, Cignano,…In quella carica, Ilio ebbe il merito di risolvere problemi con equanimità, lungimiranza e tempismo, dal più sperduto casolare alle frazioni maggiori. Agli inizi dell’esperienza circoscrizionale, non mancò la diffidenza dei vari campanili verso un montecchiese, dubitando che si sarebbe comportato equanimemente, anche a causa del mito dell’epoca sullo strapotere montecchiese, persino si diceva che i montecchiesi comandassero l’amministrazione comunale. In effetti Montecchio, detta la Piccola Russia per la forte organizzazione comunista, fu crogiolo di politici che coprirono rilevanti incarichi amministrativi e sindacali a vario livello. Tra loro emerse anche Ilio, organizzatore capace e dalle qualità di leader. Eletto segretario comunale dei giovani comunisti, raccolse oltre 1100 iscritti. L’elevata incidenza tra popolazione giovanile e iscritti alla Fgci e il dinamismo impresso da Stanganini, portò a Cortona Enrico Berlinguer (segretario nazionale dei giovani comunisti) a conoscere quella esperienza. L’incontro tra Ilio ed Enrico rimase nella memoria dei due. Tanto che Berlinguer, divenuto segretario nazionale del PCI, in visita a Cortona nei primi anni ottanta, chiedendo notizie su Ilio, raccontò un divertente aneddoto al loro primo incontro. Dopo pranzo, Ilio prese la parola per il discorso di circostanza, e nell’enfasi oratoria gli piacque inserire senza carestia la parola “purtroppo”, ritenendola assertiva di cose positive: “Cari compagni purtroppo abbiamo ospite il segretario nazionale… Caro compagno Berlinguer, purtroppo siamo una forte organizzazione…” e così via discorrendo, co sto “purtroppo” messo in mezzo come il cavolo a merenda. Berlinguer, presa la parola, non volle esser da meno, palleggiando anch’egli quel curioso intercalare: “Cari compagni, e caro Ilio, purtroppo la pastasciutta era buona!…” (Agli interessati alle vicende di Ilio, protagonista indiscusso in battaglie di emancipazione contadina nelle campagne cortonesi, rimando alla lettura d’un suo ampio racconto contenuto nel mio libro “I Mezzadri”, tuttora reperibile presso la Cgil o la libreria Le Storie di Camucia). Per la stima acquisita, Ilio avrebbe potuto ambire a incarichi rilevanti e remunerati, politici e sindacali, e svolgerli con tenacia e competenza, mentre invece seguitò a svolgere la laboriosa attività di pollaiolo, conquistando clienti anche in città grandi come Firenze. Dove il ceto medio apprezzava gli animali da cortile ruspanti portati dai pollaioli cortonesi, agli esordi in valigie di cartone, già spennati o pelati. Ilio si motorizzò con un furgoncino, per consolidare la rete commerciale, mantenendo una dimensione aziendale familiare. Anche perché seguitò a destinare copioso tempo alla politica e all’amministrazione della cosa pubblica, in Circoscrizione. A chi gli chiedeva perché non ambisse a incarichi di assessore comunale, ammoniva: “Meglio esser primo in Selva che secondo in Città!…”. Ricordare in poche parole iniziative e opere realizzate, sotto l’impulso di Ilio, dal consiglio circoscrizionale sarebbe lungo e fuori luogo. Basti dire che in quel periodo tutte le frazioni concordarono efficaci programmi di edilizia mense e trasporti scolastici, migliorò lo stato della viabilità anche secondaria, fu estesa la rete degli acquedotti, dell’illuminazione pubblica e degli impianti sportivi… Ilio, pur temperato da saggio realismo politico, era come un mastino che s’attacca agli stinchi finchè non gli si molla l’osso!.. In un caso, ebbe la sfortuna di sposare una causa perdente: la realizzazione delle Terme di Manzano, nel momento in cui il termalismo entrò in crisi e lo Stato non l’incentivò più sotto forma di permessi retribuiti ai dipendenti. A onor di Ilio, però, gli va riconosciuta una fede incrollabile sull’acqua di Manzano, avendo in testa anche uno slogan, chiosando “Chianciano fegato sano” in “ Manzano c…o sano”, avendone riscontrate – lui diceva – proprietà afrodisiache. Un’altra vicenda, invece, testimonia la prontezza e lucidità di Ilio. In occasione del pronunciamento del PCI cortonese per dar il via al progetto del nuovo ospedale della Fratta. Di fronte alla spaccatura del partito, tra chi riteneva prematura tale decisione e chi invece era per iniziarne subito l’iter, Ilio pose il suo indubbio prestigio a favore dell’avvio immediato delle procedure, finchè non la si spuntò sui resistenti. Bell’uomo, dal carattere forte e deciso, s’imponeva sulla scena in qualsiasi discussione per eloquio spigliato ed essenziale, dotato pure di una struttura fisica massiccia che sicuramente non dispiaceva al gentil sesso, dando origine al mito di Ilio gran seduttore, su cui si è molto favoleggiato.
In questi giorni, Ilio se n’è andato. Lasciando un vuoto a Montecchio e tra i tanti che l’hanno conosciuto e apprezzato per vitalità, un tempo prorompente, lealtà e franchezza, che, se aveva qualcosa da dire, non la mandava a dire, così com’era fedele alla parola data… appartenuto a una generazione che s’è battuta per ideali essenziali: quali la partecipazione alla vita collettiva e l’attenzione ai bisogni delle persone, non aspettandosi in cambio alcun utile personale.
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Brani del libro della cortonese Fiorella Casucci Camerini citati da Pierre Carniti in un discorso davanti al Presidente della Repubblica

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Importanti e solidi sono i legami tra Cortona e Pierre Carniti, che nell’autunno 2015 ha donato il suo archivio personale all’Accademia Etrusca, tramite il prof. Ivo Camerini collaboratore di Carniti negli anni ottanta del novecento. Il 6 dicembre, alla grande festa organizzata in Roma dalla Cisl nazionale per omaggiare gli ottant’anni di questo amato e stimato sindacalista, presenti il Presidente della Repubblica e una piccola delegazione cortonese ch’ha portato a Carniti un libro su Cortona, dono del sindaco Francesca Basanieri. La gremita assise romana ha visto intervenire i professori universitari Leonardo Becchetti, Romano Prodi, Raffaele Morese e la segretaria generale della Cisl, Annamaria Furlan.
Il discorso di Carniti è stato molto interessante, echeggiante la sua lunga militanza di sindacalista cattolico sempre in prima linea in difesa del lavoro e dei lavoratori. Nonostante l’età, lucido e appassionato, ha tenuto una “lezione” di stringente attualità ai suoi successori nel sindacato. Nell’epoca della globalizzazione, ha ammonito di tener fede alla missione in difesa della dignità dei lavoratori. Senza tregua, di fronte allo strapotere e all’arroganza d’un capitalismo che pretende per sé il massimo profitto, erodendo diritti e salari, se non addirittura tagliando posti di lavoro o delocalizzando in aree a minori costi salariali e fiscalità compiacenti. Nell’impeto oratorio e nello svolgimento delle argomentazioni forse a qualche presente sarà parso un discorso datato, da “vecchio”, come un’aneddotica politica recente usa liquidare chi non la pensa allo stesso modo dei sedicenti innovatori, ma, invito ad ascoltarlo su YuoTube, è di notevole spessore.
Agli argomenti appassionanti di Carniti aggiungiamo – pur assenti all’assemblea, ma in coerenza con lo spirito del festeggiato – che ci sono pure imprenditori che, per lealtà verso i propri dipendenti, si sono sacrificati persino indebitandosi fino al suicidio, esempi estremi d’una Italia in gran sofferenza. La cui condizione è sotto gli occhi di tutti. Le statistiche dicono che ogni famiglia italiana ha un problema di lavoro: licenziamenti, disoccupazione giovanile, salari ridotti, voucher usati impropriamente, precarietà,… per non dire dell’insalubrità nei luoghi di lavoro e la scarsa cura nelle misure di sicurezza che produce ogni anno tanti morti e infortunati.
Carniti, nella sua conclusione, ha invitato a una nuova stagione unitaria della politica sindacale italiana che sia guida di cambiamento, di futuro positivo, di concreta speranza d’una nuova Italia che esca velocemente dalla crisi materiale e culturale odierna, dando lavoro a tutti. Nel far quest’invito, ha citato una frase: “nessun uomo è un isola… ogni uomo è un pezzo di continente, è una parte del tutto…. io sono parte della comunità… e quindi non chiedere mai per chi suona la campana…la campana suona per te” del poeta inglese seicentesco Donne, ripresa – ha voluto sottolinearlo con scrupolo – dalle pagine conclusive del libro “ Il futuro è nel nostro passato” dell’autrice cortonese Fiorella Casucci; richiamando anche le parole della stessa autrice nella parte conclusiva: “e oggi in questo tempo di individualismo sfrenato, di odio, di violenza, del sonno della ragione, in cui il suono della campana per ciascuno di noi è sommerso da un frastuono assordante, è essenziale recuperare il senso di solidarietà e di fraternità, di unione pena la dissoluzione della comunità alle quale apparteniamo”.
Come cortonesi apprezziamo molto Carniti che ha concluso il discorso, davanti a una platea qualificata e istituzionalmente importante col presidente Mattarella, citando brani dal libro della nostra concittadina, che poco tempo fa ho recensito con piacere e ammirazione. Ricordo a tutti che il libro sarà presentato al pubblico il 16 dicembre alle ore 18 presso la libreria Le Storie di Camucia.
Al Teatro Antonianum di Roma è stato distribuito ai presenti il libro di Edizioni Lavoro: “Pensiero, azione, autonomia. Saggi e testimonianze per pierre Carniti”, che contiene un contributo di ricerca storica ed iconografica dell’amico Ivo Ulisse Camerini, dedicatosi con passione per tanti anni alla ricerca e conservazione del patrimonio storico e culturale del sindacato Cisl.
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Alcune parole sull’esito del referendum costituzionale

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Prima di tutto lo faccio per me, cercar di capire l’essenza del momento politico caratterizzato dalla bocciatura d’una riforma costituzionale improntata al più sfrenato neoliberismo. Queste prime due cose sono certe. E sono convinto che il Rignanese si stia proiettando alla rivincita: avrà ancora i mezzi per farlo (ergo poteri nazionali e internazionali che contano su lui), e una base elettorale che gli darà ancora fiducia, e, in base all’Italicum, potrebbe risalire al Governo immediatamente. Il PD gli ha aperto l’autostrada per il potere a cui non rinuncerà, né accetterà dal partito adeguamenti di linea: quel riallineamento politico che la parte del NO al referendum vorrebbe più spostato a “sinistra”. Tardivamente, nel partito si sono accorti che qualcuno ha usurpato il nido del cuculo (il partito più organizzato e fidelizzato d’Italia) da cui non intende scansarsi. So vaghe nozioni di alchimie di partito, che leggo anche in questi giorni, ma i segnali vanno in direzione di un braccio di ferro all’interno del PD nel quale, al momento, non vedo compromessi, mentre i rapporti di forza sono chiaramente a favore di Renzi. Altra cosa m’è chiara, il vantaggio politico di quest’ultimo è notevole, Renzi è avviato senza alcuna remora verso un modello di società neoliberista con piccoli correttivi tipo mancette da 80 euro ai più svantaggiati, giusto per tenersi margini di consenso, mentre è disinteressato alla forbice tra ricchezza e povertà e soprattutto sul lavoro subordinato e la disoccupazione adotta la politica più cinica: la cancellazione di diritti e aspettative. Per la sinistra interna al PD e in generale per quel che resta della sinistra in Italia e in Europa, non c’è speranza di riaversi né d’una ripartenza, dopo i segnali forti d’aver perso consensi nella sua tradizionale base elettorale, dagli USA al Regno Unito all’Italia,… serie di debacle che non finiranno qui. Perché la sinistra possa mai tornare a sviluppare politiche sociali efficaci ci vogliono almeno due severe condizioni: una seria considerazione sui bisogni a cui intende dar voce e un rapporto col potere che vada oltre il Franza e Spagna purché se magna… dando un colpo di reni politico, attingendo a prospettive socio-economiche messe a disposizione dalle scienze sociali più favorevoli alla tutela di un welfare inclusivo verso milioni di vittime della globalizzazione.
Se ciò corrisponde alla realtà, risulta chiaro il martellamento politico e mediatico sull’uso spregiativo del termine populismo, rivolto a movimenti che, anche quel fantasma di sinistra sopravvissuta insieme all’establishment mondiale sedicente democratico, intende forzatamente collocare a destra. Per definizione, sarebbero tutti xenofobi, parafascisti, antidemocratici, ecc. ecc.. mentre è respinto o sottaciuto che politiche “democratiche” sarebbero al servizio delle banche e delle multinazionali, seminando nel mondo povertà e guerre senza fine. Salvo alcuni opinionisti, mosche bianche, alla Cacciari che cercano di distinguere il grano dal loglio. Vedendo come parti consistenti delle società occidentali si siano organizzate andando oltre i partiti, nell’intento per lo meno di correggere macroscopiche disfunzioni nel funzionamento dello Stato, cercando di liberarlo dalle ruberie, dai privilegi sfacciati e dare segnali di speranza a quella parte di società (giovani, disoccupati, poveri, …) ad oggi esclusa da ogni disegno politico, a partire dalla Comunità europea in giù.
Non dimentico d’esser cresciuto all’interno d’una cultura di sinistra, sono meravigliato dal pregiudizio verso nuove aggregazioni come il movimento cinque stelle, in particolare da chi milita nel PD o in formazioni di sinistra minori. Pregiudizi puntati sull’estemporaneità di un capo, che, vedi caso, è un comico che invoca a ogni piè sospinto un’etica politica e regole che dovrebbero costringere chiunque impegnato in politica a seguirle. Un lascito, quello dell’onestà politica, che trova le sue origini repubblicane in esponenti passati del calibro di De Gasperi, Berlinguer, non a caso, tanto per ricordarne due rappresentanti di partiti popolari, purtroppo inascoltati allora come ora. E ci si scandalizza quando il M5S seleziona i suoi candidati attraverso i (pochi?) militanti in rete, dando per scontato che siano migliori le procedure di altri partiti basati sulla nomina dei più fedeli ai leaders, non esistendo più una vita di partito e una naturale selezione delle classi diligenti a stretto contatto cogli elettori. Ciò, è innegabile, ha dato luogo a fenomeni inquietanti di trasformismo non solo nel passaggio da un partito a un altro, ma a spostamenti in corso di legislatura da una corrente di partito a un’altra al cambio di segretario. Legislatura per tanti versi bislacca pendendo su essa l’invalidità costituzionale di una legge che premia oltre ogni limite di decenza il partito uscito primo alle elezioni con uno scarto di voti modesto, e, nella quale, a gran parte degli eletti è stato chiesto un contributo finanziario importante, nonostante fosse in vigore il finanziamento pubblico ai partiti: come in antico si comprava il titolo di conte o marchese… A chi saranno fedeli questi eletti? Alla Nazione? Non credo. Bene. A questa e tante altre anomalie istituzionali si è pensato di porre rimedio accentuando ancor più l’elemento fidelizzazione dell’eletto ai leaders, a cui per fortuna hanno detto No i cittadini.
Concludendo, voglio dire che c’è ancora tanto da riflettere per modificare le strategie politiche dei partiti, che dovrebbero fin dalla campagna elettorale annunciare i punti del loro impegno, e non scoprire le carte a legislatura avviata, com’è capitato nell’intesa tra Napolitano e Renzi, paralizzando di fatto la legislatura su una riforma costituzionale la cui bocciatura giusta grava più dei costi che, nelle intenzioni, si sarebbero dovuti risparmiare. Senza dire poi che politica dovrebbe significare confronto e mediazione per lo meno nel decidere le regole del gioco. Ma, che questo metodo sarà d’ora in poi seguito, dubito molto. Prevarranno ancora prove muscolari, in cui gli elettori seguiranno da spettatori sperando che dal caos attuale escano fuori anche idee utili a salvare la traballante barca del paese.

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IL FUTURO E’ NEL NOSTRO PASSATO – Frammenti di saggezza antica per un nuovo umanesimo, di Fiorella Casucci Camerini

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casucci fiorePer paradosso, definirei il libro di Fiorella un testo preparatorio alla vita. Pur nella necessaria genericità, titolo e sottotitolo ne svelano i contenuti: una rilettura di frammenti scelti (un centinaio) tra i migliori autori dell’antichità greco-romana, rilettura svolta però in maniera originale rispetto ad altre antologie. Innanzi tutto é di facile lettura: a ogni frammento (parola o frase) è anteposto uno slogan, sintesi papale papale d’un concetto (moda invalsa anche nei social network), trattato in meno d’una cartella dattiloscritta; il che consente al lettore di mantenersi concentrato, apprezzando rinvii letterari (pregevoli, raffinati ed efficaci) e digressioni dell’Autrice. Testo concepito per provocare il piacere della lettura e una sorta di intimo dialogo-meditazione sul vissuto o sulle idee del lettore riguardo gli argomenti trattati. Inoltre, è da sottolinearne l’attualità, o meglio l’utilità pratica d’un libro che mette di fronte a temi fondamentali: l’amore, la morte, gli affetti, i sogni, l’amicizia, la poesia, la natura, la sofferenza, la cattiveria e la bontà, l’universo, la natura umana, la politica, il tempo della vita, la conoscenza, la guerra, l’onore, l’odio, il divino, il corpo, la sorte, la noia, la democrazia, i miti, la scrittura, la parola, le lettere dell’alfabeto, la responsabilità, ecc. ecc.; l’elenco è lungo, ma incompleto, tuttavia sufficiente a dimostrare il coraggio dell’Autrice che non scansa temi anche spinosi. Altra peculiarità di Fiorella è come affronta gli argomenti. Da docente di materie classiche, com’è stata per quaranta anni? Anche. Se pure non di quelle palloccolose, a cui interessa solo fissare nozioni, categorie, date, autori, … Fiorella va al nocciolo delle questioni, usando un enorme sapere con leggerezza, donando al lettore anche sue personali riflessioni e persino esprimendo sentimenti. Operazione culturale non fine a se stessa, ma coerente con l’obiettivo dichiarato nel titolo del libro: dimostrare che il nostro futuro è (gran parte) iscritto nel nostro passato. Quindi, Fiorella è innanzi tutto una lettrice, dotata d’una invidiabile vastità di conoscenze classiche, in grado di esporre le sue idee in un confronto alla pari con autori del passato. Così come collega tra loro, sullo stesso argomento, autorevoli personaggi del pensiero umano. Un po’ come l’ape che cerca il nettare migliore volando di fiore in fiore, ci consegna una sorta di breviario laico utile a farci compagnia, a consolarci, a stimolarci a viver meglio, ad approfondire… e pure a rassegnarci al destino quando sia inevitabile. Le 140 pagine del libro si possono leggere in tre/quattro pomeriggi, ma non per forza richiedono d’esser bevute d’un fiato, né obbligano a una lettura sistematica. Volendo, si può scorrere il libro scegliendo a piacere gli argomenti dall’indice. E, giunti al termine della lettura, avremo la prova concreta “che ogni progresso della conoscenza è debitore del passato”; come affermava Bernardo di Chartres: “Tutti noi siamo nani sulle spalle dei giganti”. Fiorella non è una classicista parruccona, ma donna che vive intensamente e laicamente usando filtri culturali per star meglio. A dimostrarlo, bastano pochi esempi tratti dal libro. Come il confronto tra gli splendidi versi di Alcmane e di Lucio Battisti, ambedue impegnati in un volo immaginario. Notturno di Alcmane: “Dormono le cime dei monti e le valli,/ le balze e i burroni/ e le selve e gli animali, quanti ne nutre la nera terra/ le fiere montane e la stirpe delle api/ e i mostri negli abissi del mare purpureo;/ dormono le schiere degli uccelli dalle ali spiegate”. A cui fa eco Battisti: “ Come può uno scoglio/ arginare il mare/ anche se non voglio/ torno già a volare./ Le distese azzurre/ e le verdi terre/ le discese ardite/ e le risalite/ su nel cielo aperto/ e poi giù il deserto/ e poi ancora in alto/ con un grande salto./ Dove vai quando poi resti sola/ senza ali tu lo sai non si vola…(Io vorrei…non vorrei…ma se vuoi…)” Fiorella spiega i motivi di tale accostamento, che invito a leggere nel coinvolgente libro (forse l’autore del testo non è Battisti, ma Mogol… ciò è ininfluente sul nostro ragionamento). Sempre riferita ai poeti, Fiorella mette, sotto il titolo Un rivoluzionario programma di vita, la poesia La cosa più bella di Saffo: “Alcuni una schiera di cavalieri, altri di fanti, / altri di navi dicono che sulla nera terra/ sia la cosa più bella, io ciò che/ uno ama…” a cui segue un commento non paludato, accentuando l’impronta rivoluzionaria della poetessa in un mondo fermamente maschilista: “Programma di vita e di poesia è per Saffo l’amore. L’ode inizia in modo deciso, contrapponendo la concezione di vita degli altri alla sua. Questi altri, ben individuati, sono gli uomini, perché il maschilismo già dominava nella vita pubblica e sociale, oltre che nella poesia, che era fino ad allora sostanzialmente omerica”. Stessa discriminazione di genere, Fiorella, l’imputa alla democrazia ateniese. Pur nata sotto buone intenzioni (…è chiamata democrazia perché amministrata non per pochi, ma per la maggioranza…, scriveva Tucidide nelle Storie ), ma ancor oggi incerta nel suo inverarsi, dopo venticinque secoli dalla sua teorizzazione, e, fin dagli inizi, ricettacolo di corruzione, demagogia, cattivo governo, descritti da Luciano Canfora ne Il mondo di Atene. A quei vizi, della imperfetta democrazia ateniese, Fiorella aggiunge: “la schiavitù, la condizione della donna e, non ultimo, l’imperialismo ateniese esercitato nei confronti degli alleati della lega delio-attica, collegato con la necessità storico-politica di esportare la libertà e la democrazia all’esterno!” Perbacco! certi corsi e ricorsi storici sono impressionanti se accostati anche ad altre riflessioni sulla democrazia, l’imperialismo, il potere dei tiranni,… gli effetti del Potere nei destini di una comunità, o in una persona singola… argomenti trattati da Fiorella con chiarezza, avendo attinto a sorgenti preziose – nella loro perenne scansione di fonti rare a noi pervenute – in Erodoto, Tucidide, Sofocle, Euripide, Seneca, Marco Aurelio, Livio, Polibio, Plutarco, Tacito,…
Tra le epigrafi memorabili scelte, vado a segnalarne alcune allusive della condizione umana, prese da Fiorella a sostegno del suo obiettivo: “il futuro è nel nostro passato”, quando ci propone: “La vita degli uomini mi sembra simile ad un lungo corteo e la Fortuna guida la processione e dispone ogni cosa, applicando le maschere, diverse e varie, ai partecipanti…” e come alla fine di ogni rappresentazione teatrale “ciascuno si toglie la veste, depone la maschera insieme al corpo, e torna ad essere com’era prima, non differendo per nulla dal vicino” (Luciano, Menippo, 16). Finchè si è in marcia, grazie alla mutevole Fortuna, i ruoli possono invertirsi da re a schiavo e viceversa, sotto quel non so che di grottesco e bizzarro datoci dalla maschera di cui ci copriamo, ma finito lo spettacolo della vita la morte livella, riconducendo “tutto a uno stato di pre-esistenza: come se la vita fosse un puntino insignificante schiacciato tra il prima e il dopo, entrambi immersi nella loro eternità” spiega Fiorella, ai duri di comprendonio. E, in virtù del suo elegante sapere, ci regala pure un proverbio aborigeno australiano: “Siamo tutti dei visitatori di questo tempo e di questo luogo. Noi non facciamo altro che attraversarli. Il nostro compito qui è di osservare, imparare, crescere e amare. Dopo di che torneremo a casa”, intendendo qui la morte come ritorno a casa. Meglio sarebbe senza ritorno indietro, come, invece, in antico si riteneva possibile nel mito di Er – descritto nella Repubblica di Platone – in cui gli “esseri, destinati alla trasmigrazione, paragonati a stelle cadenti, che cadono in su, invece che in giù da questo non luogo, dove giungono le anime dei defunti per essere giudicate. E la speranza della rinascita, di una prova d’appello, di più vite da vivere finisce, al contrario, per diventare angoscia: la paura di morire che si trasforma in paura di non morire mai”. Il mito di Er è meraviglioso, scrive Fiorella, aggiungendo però il suo interrogativo, ma “Chi vuol vivere per sempre? Wo Wants to Live Forever?” come secoli più tardi canteranno i Qeens. A superare la paura dell’eterno ritorno ci sovviene Lucrezio, nel De Rerum Natura: “Nulla, dunque, per noi è la morte e non ci riguarda affatto, dal momento che la natura dell’anima è ritenuta mortale”, cioè: “quando ci siamo noi, non c’è la morte, quando c’è la morte, allora non ci siamo più noi”. Non ci resta perciò che seguire il consiglio: “il sommo bene consiste nel vivere secondo natura”, sostiene Fiorella parafrasando Seneca (De otio): “La natura ci ha dato un ingegno desideroso di conoscenza e conscia della propria abilità e bellezza, ci ha generato spettatori di tante meraviglie, perché perderebbe il frutto del suo operato, se mostrasse opere così grandi e splendide…al deserto.” E così via procedendo… la lettura del libro di Fiorella Casucci Camerini, trasportandoci nel pensiero del passato, è capace di soddisfare gran parte degli interrogativi postici dal nostro presente. Risposta implicita a quanti, dubitando sull’utilità del sapere classico nelle scuole, vorrebbero togliergli spazio!
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FULVIO CASTELLANI, “PUNZINO”, ciabattino cortese e longevo

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tutti-dormono-sulla-collina-di-dardano-di-ferruccio-fabilliIntravidi Fulvio, la prima volta, nella penombra – illuminato solo il desco da lavoro – nella botteguccia da ciabattino, odorosa di vernici e mastice, attigua alla bibliotechina pubblica, dove prendevo a prestito ingiallite letture per ragazzi. I due locali erano sul lato posteriore di villa Sandrelli a Camucia – lungo la trafficata strada nazionale, dirimpetto all’allora caserma dei carabinieri. Poco a che vedere col fronte elegante della dimora nobiliare – affacciata sull’ampio e curato parco – che ospitò pure un papa in transito: Pio VII. Il retro-villa ha l’aspetto lineare delle residenze popolari. Dove, in un locale seminterrato e angusto, il ciabattino trascorse i giorni d’una lunga vita. Visse 97 anni. E finchè fu sorretto dalle forze, anche per far quattro chiacchiere con gli amici, scendeva in bottega. Fulvio era stato apprendista da Orlando Ciculi – che, a due passi da lì, aprì un fortunato negozio di scarpe. Morto il babbo si caricò sulle spalle la famiglia, con due sorelle da crescere, nello storico rione popolare camuciese della Bicheca. Per tutti, Fulvio era Punzino. Come il nonno e il babbo, fino al più giovane maschio di famiglia Massimo, si sono tramandati quell’appellativo: Punzino. Mentre le sorelle di Fulvio, maritate, presero altri soprannomi: Margherita era la Bambara, e Augusta la Bigheri. (Superfluo ricordare che i soprannomi, una volta appioppati, si ereditassero per linea retta padre/figlio, e le mogli si chiamassero come i mariti). Il mestiere di ciabattino, umile e gravoso, aveva un vantaggio: di non far mai la fame. Specie se svolto con diligenza e laboriosità, come Fulvio. Che, nei momenti di calma in bottega, saliva in bicicletta girando nelle campagne a far zoccoli ai contadini; usando anche materiali di recupero come i vecchi copertoni, sottratti a relitti bellici, trasformati in sopratacchi e soprasuole resistenti e antiscivolo. La penuria di soldi costringeva intere famiglie contadine a usare zoccoli come calzari, poco costosi e molto resistenti. In cambio, essi davano al ciabattino prodotti della terra, del pollaio, vino e olio, che certo non l’arricchivano ma tanto bastava per non far la fame. A proposito di fame, Massimo ricorda un episodio drammatico capitato al babbo, durante la ritirata tedesca in quel di San Lorenzo, mentre trasportava farina in compagnia del coetaneo Mèchena (Primo Capoduri), mugnaio di professione. I militari tedeschi arrestarono i due compari, minacciando di fucilarli per contrabbando di farina! Fattosi buio, i familiari erano preoccupati sulla sorte dei due giovani. Ma, grazie alle doti affabulatorie del Mèchena, finì che i tedeschi offrirono loro una cena a base di carne di pecora. Tornato a casa a notte fonda, meravigliò i familiari un Fulvio ubriaco… mai capitato!… però lo spavento di quella notte si risolse con un’orticaria, diffusa sul corpo, da carne di pecora… Punzino ne era allergico.
Socievole, umile, cortese, rispettoso e gran lavoratore dalle sette di mattina, quando scendeva in bottega, fino a tarda sera, allorché la moglie andava in ansia per i ritardi del marito. Il lavoro metodico e paziente richiedeva tempo per contentare la crescente clientela e metter da parte soldi per farsi una casa, che realizzò negli anni Sessanta. Di Punzino, cinquantenne, il figlio, decenne, ricorda quel momento di grande soddisfazione: l’obbiettivo d’una casa propria! seppure a costo di sacrifici. E per Massimo era giunto il momento di avere qualche soldino in tasca, e, per procurarseli, s’ingegnò come lustrascarpe, in cambio di mancette. Al babbo sarebbe piaciuto che avesse seguitato il suo mestiere, invece Massimo, alla prima occasione che gli si presentò di squagliarsela, scappò via a Firenze, Milano, …verso altri interessi. Chissà se, da quella fuga, Cortona perse un impresario calzaturiero pari ai Della Valle?…
L’angusta bottega di Fulvio, stracolma di attrezzi, tomaie, sopratacchi, scarpe riparate e da riparare,…era un simpatico luogo di ritrovo. Dove, come dal barbiere, si andava a pettegolare, parlare di politica, di attualità (con la presenza anche di gente colta come il farmacista Edo Bianchi), o a sbirciare riviste osè, tra lo scollacciato e il politico, come ABC. Magari accostando l’unica imposta: la porta finestra che dava sulla statale rumorosa e puzzolente. Il pacato Punzino era stato attivista politico, compagno di idee di Ricciotti Valdarnini: primo sindaco comunista di Cortona, antifascista schedato e perseguitato dall’OVRA. E, nel dopoguerra, candidato senza successo al parlamento e dirigente cortonese del PCI finchè non cadde in disgrazia, accusato di titoismo. I titoisti furono espulsi dal partito, dopo che Togliatti li ebbe definiti i pidocchi sulla nobile criniera del cavallo. Il cavallo, inutile dirlo, era il partito. Espulso Valdarnini – deliberandone l’emarginazione e l’oblio di ogni merito, che da dirigente politico e sindaco non erano stati pochi -, anche Fulvio lo seguì (con pochi altri compagni: Crivelli, Rinaldi, Luciano Bambara, …) pur mantenendo convinzioni egualitarie e anticlericali. Punzino non partecipò più ai riti della chiesa comunista, né alla diffusione dell’Unità e del Pioniere, sui quali aveva letto nuove visioni del mondo. Legato com’era a Valdarnini da amicizia e riconoscenza, avendo pure ricevuto soldi in prestito per costruirsi casa. (Tempi in cui si poteva prestare soldi e riottenerli indietro senza rischi, anche solo sulla parola!). Punzino, comunista, che litigava di politica col Ghioghiolo, cugino fascista, era parte del folklore del rione popolare della Bicheca, quartiere che da solo meriterebbe un lungo racconto.
Per le abitudini del tempo – risuolare e fare sopratacchi rovinati finchè le scarpe non fossero da buttare – Punzino teneva il libretto dei debiti che la gente onorava entro un mese, se gli andava bene… anche se era un altruista generoso. Basti ricordare la sera che portò uno zingaro affamato a cena a casa, sconvolgendo i suoi familiari… così come riparava i palloni di calcio del Camucia portati da Codenna, magazziniere della squadra. Il fragile dei vecchi palloni di calcio era nel pellame e nella cucitura, dalla quale, per gonfiarli, ogni volta si estraeva il picciolo di gomma della camera d’aria.
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ANGIOLO FANICCHI deluso dal diritto dei potenti avendo creduto nella giustizia

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In una delle ultime note scritte sul suo profilo Facebook, Angiolo evidenziava la data di collocamento a riposo: il primo settembre di quest’anno. Nonostante la coscienza che non se la sarebbe goduta a lungo, già provato dalla malattia che da lì a due mesi l’avrebbe sopraffatto. Gli ultimi anni spesso ci siamo incontrati alla stazione di Terontola all’alba, l’ora in cui prendeva il treno per recarsi al lavoro in Valdarno e, tra le battute consentite negli attimi di attesa, ripeteva la sua indignazione per la legge che gli aveva allungato oltremisura la data di pensionamento: la Fornero. Da dirigente amministrativo scolastico, esperto di diritto, non si capacitava sulla ingiustizia di esser trattenuto al lavoro ben oltre i quaranta anni di servizio, mentre, come sappiamo, i legislatori per sé largheggiano in fatto di benefici pensionistici e su un sacco di altri privilegi, nonostante continue spudorate richieste ai cittadini di sacrifici. L’idea di giustizia, in Angiolo, era in rivolta non solo per fatto personale, da uno che aveva speso parte importante della sua vita nel perseguire il cosiddetto bene comune (sul cui destino, in Italia, c’è incertezza e divergenze di opinioni profonde). A causa di quella sorta di combutta istituzionale (non dimentichiamola) per la quale i “diritti acquisiti” dei politici e degli alti papaveri statali erano definiti “intangibili”, mentre quelli della massa erano carta straccia. Fino a non molto tempo addietro, Angiolo s’era dedicato all’impegno civile in incarichi pubblici: in Circoscrizione a Terontola e in Comune, da assessore e presidente del Consiglio comunale. Stimato per diligenza nello svolgere gli incarichi avuti, pacato, sobrio, attento alle sollecitazioni e al senso di giustizia. Fino a chiudere quell’esperienza forzatamente. Angiolo, nel suo partito, subì gli effetti di quell’ “arroganza e subalternità” (resa visibilmente plastica pure da Bersani dirigente nazionale!) verso militanti non allineati col capobastone di turno…
Coetanei, ci conoscemmo frequentando il ginnasio-liceo di Cortona, pendolari nei bus che salivano da valle in città, e, soprattutto, godendoci magnifici pomeriggi insieme sulla spiaggetta del lido Rigutini in riva al Trasimeno. Dove lui giungeva, prima in bicicletta poi in motorino, insieme a un gruppetto affiatato di compagni di giochi (il Boscherini, il Cottini, …) provenienti da Pietraia, suo paese di origine. Il divertimento consisteva in quattro calci al pallone sulla sabbia, le prime gare di nuoto sulla fanghiglia lacustre, e mangiate di cocomeri procurati dai Pietraiesi.
Poco più che adolescenti ci ritrovammo nell’attivismo politico, come i quattro amici al bar di Gino Paoli che “volevano cambiare il mondo”…e, forse, qualcosa di buono siamo riusciti a fare. Ma non è di questo che mi vien di parlare in questo momento. Bensì riflettere sulla durezza della vita, che molto dà, però è spietata nel togliere… come nel caso di Angiolo, che, placate le tensioni del lavoro e degli impegni sociali, avrebbe desiderato donare infinite coccole al nipotino… Pochi mesi fa ci sentimmo al telefono, e tra le righe capii che gli incombeva un’angosciosa ansia sul suo stato di salute. Capito quello stato d’animo, la conversazione si chiuse presto. Il nostro legame seguitava sulla piattaforma virtuale dei social, dove tra tante banalità ognuno svela sentimenti, stati d’animo, interessi… tra questi, notai l’attenzione di Angiolo su un libro di Don Gallo, il cui titolo grosso modo dice che: al Padreterno non interessa se sei stato un credente, quanto se sei stato un uomo giusto. Esprimeva, non v’è dubbio, la sua convinzione riguardo la sfera religiosa.
Per quanto le amicizie siano profonde, ho sempre evitato, se non richiesto, di far visita a persone in lotta coi propri mali. Men che meno seguo i feretri, preferendo coltivare i ricordi di persone care non in luoghi convenzionalmente deputati, bensì in momenti intimi del pensiero. Fatalità ha voluto che un paio di settimane fa, durante un servizio notturno da volontario della Croce Rossa, ci incontrammo al Pronto soccorso dell’Ospedale s. Donato. Lui in barella in attesa di cure mediche, per complicazioni che, all’occhio di chi ha frequentato corsie ospedaliere, non danno speranze di vita. Ci abbracciammo e salutammo, parole e gesti affettuosi necessari anche a toglierci l’un l’altro d’imbarazzo. Era il pacato Angiolino di sempre, se pure in estrema sofferenza, avendo già affrontato prove molto dolorose, e trascorsi mesi tremendi nella consapevolezza della ineluttabilità della sorte capitatagli…
E così un altro pezzetto della nostra generazione se n’è andato precocemente. Non so se è giusto definirla generazione del “sogno italiano”, e se questo “sogno italiano” sia effettivamente esistito. Figli di operai e contadini, nei confronti dei nostri genitori abbiamo svoltato verso una vita più agiata, il posto fisso, nuovi diritti… tra noi però, concluso il ciclo lavorativo, è insorta la consapevolezza che i nostri figli saranno alle prese con un mondo più incerto e tribolato… Di sicuro, tra la nostra generazione e i figli una diversità c’è: nelle distanze dal potere. A noi pareva in qualche misura condizionabile, con l’impegno individuale nello studio e nel lavoro e con le lotte politiche e sindacali. Quasi scritte a carta carbone, le vite di Angelo e di migliaia di altri nati nel dopoguerra hanno percorsi simili… così come unanime è l’amarezza di quella generazione nel vedere una “declino” inarrestabile del Paese. Il Moloc del potere s’è rafforzato e reso più distante, mascherandosi da potere finanziario che ha il sopravvento sulla politica condizionandone l’azione, disponendo della potenza dei media che professano quasi all’unisono le stesse “verità” – il pensiero unico insediato al comando -: è il denaro a dominare il mondo! I figli del boom economico italiano, come Angiolo, pur tra mille contraddizioni, han cercato di migliorare le condizioni umane con qualche innegabile successo, lasciando ai figli un mondo in cui le inquietudini paiono prevalere sull’ottimismo…
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Lo spettacolo triste dei politici per il Ni al Referendum costituzionale

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Quando parlo di spettacolo triste certo non incolpo gli elettori indecisi (ancora tantissimi) che non sanno se votare SI o No e, forse, neppure andranno a votare. Anzi. Direi quasi che li capisco. Tanto son frastornati nelle loro pur flebili residuali convinzioni politiche, e presi da argomenti molto più prossimi alle loro esigenze: il lavoro precario quando c’è, lo stipendio e la pensione che non arriva a fine mese, una casa il cui mutuo in banca non ce la fanno più a pagarlo, quando addirittura non sono stati derubati dei loro risparmi dalla banca stessa!,…Cioè, la gente ha in testa problemi veri e seri, trascurati se non sbeffeggiati dall’ottimismo di facciata di chi parla ogni giorno della rimessa in cammino dell’Italia verso splendide mete che esistono solo nella fantasia di certi imbonitori di Palazzo. Ma veniamo più concretamente alla materia oggetto del referendum. Mi ci metto anche io tra questi cittadini disorientati e scoraggiati. Perché è finito il tempo della credulità alle favole e alle magnifiche sorti progressive. Pur avendo partecipato attivamente per un ventennio alla vita politica e studiato diritto pubblico nelle migliori scuole di specializzazione universitarie, sono a dir poco allibito per il modo con cui si è giunti a “mandare in vacca” la Carta costituzionale (l’espressione icastica è di Camilleri, ma, tra le tante chiacchiere sentite o lette, mi pare la più efficace nella sua essenzialità). Inutile ricordare lo scandalo di tale riforma approvata da un parlamento delegittimato dalla stessa Corte Costituzionale, perché eletto con una legge elettorale ultraillegittima e proposta da una maggioranza – costituitasi dopo la non vittoria del PD di Bersani – accozzo di eletti, presi dal miraggio di conservare la poltrona, dal centro dalla destra e dalla sinistra, tenuti coesi dall’unico cemento: il potere! Diciamolo francamente: la foglia di fico di questo sedicente “riformismo” necessario per far ripartire l’economia è una barzelletta a cui non credono neppure i suoi protagonisti. N’è testimone lo stesso Bersani che ha portato il suo PD a un passo della vittoria, e che, se non avesse dimostrato a Napolitano di voler far maggioranze di testa sua, forse oggi sarebbe lui al posto di un Renzi, che, al contrario, s’è dimostrato entusiasta nel seguire il cammino prospettatogli dall’allora capo dello Stato.
Ecco che il misto di pena e indignazione nasce vedendo ancora incerti politici di professione che stanno ai piani alti della politica fin dentro il parlamento. Ma come? La riforma costituzionale è arrivata al Referendum perché approvata con maggioranza semplice e non dei 2 terzi del parlamento dopo almeno 4 passaggi parlamentari. Dico, ben 4 passaggi! E ancora, tra deputati e senatori del PD, ci sono quelli che tutt’oggi pensano possibile votare a favore della nuova carta costituzionale Napolitano-Boschi-Verdini alla sola condizione che si modifichi la legge elettorale? (Sarebbe interessante trattare l’argomento dei numerosi contorti Ni nella storia del PD, da quando si trasformò da PCI a PDS, ma il ragionamento attualizzato in un partito di governo è ben più grave – perché coinvolge i destini di un intero Paese! – più di quanto lo fosse all’interno di un partito di sinistra che si avviava a trascurare la sua base elettorale di riferimento per farsi interclassista e post ideologico). Per favore, ditelo francamente che con questo giochino si pensa solo a una cosa: mantenersi in sella il più a lungo possibile! Sperando in un popolo bue che non abbia capito il loro declino morale, innanzi tutto, a cui aggiungere insipienza politica nel pieno di una crisi economica sconvolgente. Nella quale i temi centrali, per chiunque voglia interessarsi di politica seriamente, sono quelli connessi alla globalizzazione (i ricchi sfacciatamente ricchi e le classi medie e salariate abbandonate alla lotta per la sopravvivenza) e a flussi migratori incontrollati che, non sarà lontano il tempo, faranno esplodere contraddizioni sociali drammatiche. Basti pensare alla inversione ad U dello stesso Papa Bergoglio, che pareva il più disponibile all’accoglienza. Ultimamente è giunto a dire che una regolazione di flussi migratori si rende necessaria se non si vuol riempire l’Europa di ghetti! E, aggiungo io, l’esplosione di massa di sentimenti xenofobi il cui esito è quanto mai imprevedibile, questo sì, per la conservazione della convivenza civile pure nel contesto culturale millenario europeo.

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ANGELO VITI scienziato distolto dalla politica

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Primi anni Settanta. Nella colonia cortonese presso la Casa dello studente di Perugia. In prevalenza aspiranti medici (dirò solo i cognomi in quanto noti e apprezzati professionisti: Bigazzi, Milli, Lovari, Calzolari, Ruggiu, Nicoletti) che, per gioco, chiamavano Angelo: lo “Scienziato”… titolo non azzardato. In quanto aspirante biologo, quella materia lo stregava, facendogli trascorrere giorni felici nello studio e nelle pratiche di laboratorio, tra cavie, siringhe, provette, pipette, alambicchi… e apparecchi vari. Affascinato dall’insegnante di Fisiologia, il prof. Dolcini, di cui era l’allievo prediletto, e che volentieri avrebbe aperto ad Angelo la strada del dottorato di ricerca. Dolcini era l’iconica rappresentazione dello scienziato da fumetto, anche negli eccessi caricaturali: alto secco allampanato, sigaretta sempre accesa, capelli lunghi radi arruffati, occhi spiritati da amante del “cicchetto”, procedeva in ricerche d’avanguardia determinato come schiacciasassi. (Nell’occasione in cui Angelo m’invitò nel loro laboratorio “Bio-alchemico”, Dolcini stava raccogliendo una discreta quantità di pipistrelli, per studiarne, tra le altre qualità, la tipica sensibilità da radar notturno nelle strutture anatomiche e nei meccanismi fisiologici). Tra Angelo e Dolcini c’era empatia e qualche somiglianza, come la caduta e il diradamento dei capelli che, giorno dopo giorno, ogni ciocca caduta mortificava il giovane… E, su quel difetto, gli amici non persero l’occasione di mettere il dito nella piaga.
Di prima mattina, puntuale come una sveglia, dalla stanza di Angelo risuonava forte in tutta l’ala del collegio la pubblicità: “oh oh oh Orzoro!” era il segnale della prossimità del giornale radio, svelando rumorosamente la curiosità con cui lui seguisse l’attualità, in particolare la politica. Gli studenti burloni non tardarono ad affibbiargli anche quest’altro epiteto: “Orzoro!” che incassava sornione, paziente e un po’ombroso. Da tipo accigliato qual’ era, al primo impatto suscitava un certo timore reverenziale, però, tra amici, era una pasta d’uomo e giocherellone, per quanto lui stesso si divertisse a ribattere agli sfottò, botta su botta, con la stessa moneta ironica.
Durante gli studi liceali, Angelo fu segretario comunale dei giovani comunisti, i figgicciotti e, in quell’ambito, era conosciuto pure col soprannome del “Gamba”, di cui mi sfugge il motivo. Era l’epoca della fioritura di numerosi gruppi politici a destra e a sinistra del suo partito, il PCI. Resa drammatica da eventi terroristici di varia e, in tanti casi, oscura matrice: da destra a sinistra, e dai servizi segreti italiani a quelli stranieri… Anche nella quieta Cortona giunse qualche effetto di quelle vicende torbide: un attentato ferroviario a Terontola, la rocambolesca fuga del neofascista Augusto Cauchi, e l’uccisione del giovane universitario comunista Donello Gorgai. Donello era uscito dalla FGCI durante la segreteria politica del “Gamba”, per aderire al gruppo dei Bordighiani; fioriti (e presto sfioriti) quasi unicamente nel Cortonese. Vicende, di natura diversa tra loro, che riuscirono a turbare l’esuberanza spontanea di certa parte della gioventù, non solo locale, a causa del lungo perdurare di interrogativi irrisolti sulle cause e le responsabilità di numerosi drammatici accadimenti.
Laureato con merito in Biologia, per un attimo, Angelo fu incerto tra due scelte: proseguire la carriera accademica, avendone qualità e opportunità, o impiegarsi presso il Laboratorio Provinciale di Igiene e Profilassi. Preferì quest’ultima chance, che gli consentiva di combinare lavoro e militanza politica. Potendo anche ricoprire cariche amministrative importanti: Assessore alla Sanità in Comune, e Presidente e Consigliere in una delle neonate Unità Sanitarie Locali, la n. 21, Valdichiana Est. Gli impegni politici in quegli anni erano intensi, seguiti alla Riforma Sanitaria che, la prima volta in Italia, rese gratuito e universale l’accesso alle prestazioni sanitarie. E, a seguito della costituzione delle Regioni delegate a queste materie, fu avviato un vasto decentramento amministrativo. Fino a ridursi nel giro di poco tempo – come se si fosse trattato d’un elastico. Angelo era capace di elaborare programmi e strategie sanitarie, sia di adottare provvedimenti innovativi. Rispettoso degli interlocutori, però era uno deciso e schietto. Peculiarità che ripagano solo a lungo andare, visto che al primo impatto son preferiti politici condiscendenti (piacioni) anche se insinceri e incapaci. Tra le numerose iniziative di Angelo, ricordo la diretta assunzione dal Comune della Casa di Riposo Sernini, sottratta a una gestione poco dignitosa verso gli ospiti, e il Regolamento comunale sugli allevamenti suini, per mettere uno stop alla loro proliferazione caotica, e allo sversamento dei liquami animali ovunque capitasse; avviando un processo, non facile, di risanamento ambientale ancor oggi da completare. L’elenco degli interventi di Angelo – determinanti e validi nel tempo – in materia ambientale e sanitaria richiederebbe spazi qui non disponibili. Allo stesso modo ne fu apprezzato il ruolo dirigenziale presso il Laboratorio Provinciale di Igiene e Profilassi, che ebbe il tempo di veder trasformato in ARPAT: agenzia toscana di prevenzione ambientale. Preceduto nei ruoli dirigenziali del Laboratorio Provinciale da un altrettanto valoroso cortonese il dottor Emilio Farina, Angelo forse aspirava e meritava maggiori responsabilità, nell’ambito della neonata ARPAT, che non gli furono concesse dalla politica. Fattasi acchiappa tutto. Meno attenta ai meriti professionali e dirigenziali, quanto invece all’appartenenza partitica e alla prossimità ai “cerchi magici” del potere. Anche spinto da tali amarezze, scelse di ritirarsi in pensione, dando spazio alle sue passioni: la bicicletta, i viaggi, le letture, le passeggiate nei boschi sopra i Cappuccini dove c’incontravamo spesso. Poco dopo la pensione, un male terribile l’ha sottratto agli affetti: due figli impegnati con successo negli studi, la bella moglie, gli amici e gli amati cagnoloni; che, scesi dal fuoristrada, scorrazzavano pacifici nei prati rispondendo solleciti al fischio risoluto di Angelo. E’ l’ultima sua immagine che mi resta.
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