Enrico Monacchini, Righetto, lavoratore onesto e mite, bolscevico convinto

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Montanelli si definiva conservatore progressista e nessuno lo biasimò. Ho conosciuto tanta gente comune che fattasi un’idea sull’affermazione della giustizia nel mondo – per lo meno nel racconto – l’hanno conservata per tutta la vita. E coerenti, allo stesso modo, sono vissuti simpatizzanti fascisti, democristiani, comunisti, socialisti, radicali, anarchici, … Certi considerano questa una posa da cretini: “Solo i cretini non cambiano idea!”. A mio parere è un giudizio offensivo e superficiale; usato, spesso, per difendere giravolte opportunistiche. Quando è in buona fede, la coerenza ideale rappresenta una qualità morale, e una difesa da chi nega il diritto di ciascuno a coltivare ideali e valori. Enrico Monacchini, Righetto, fu uno “coerente”. Iscrittosi al Partito comunista nel 1945 – nato nel 1913 e morto nel 2003- professò fino alla sua morte la “fede” rivoluzionaria bolscevica. Nonostante che, in Italia, quegli ideali avessero perso le adesioni di massa del dopoguerra, essendone sopravvissuti gli “ultimi moicani” tra il popolo; mentre parlamentari sedicenti comunisti uscivano o restavano in scena ben pasciuti per sé e i loro eredi. Righetto non rinunciò alle sue idee, senza calcolarne vantaggi o svantaggi personali. Lavorava sodo, metodico, ispirato all’onestà e al rispetto altrui. Anche in momenti problematici per un militante, come durante l’invasione Cecoslovacca del ’68, rifiutava le critiche agli invasori sovietici; contrastando pure il figlio Italo – dirigente politico di spicco – contrario all’atto liberticida. Così come, in occasione dei campionati mondiali di calcio a Seul, durante la partita Italia – Russia, Righetto tifava per la Russia!… In realtà, fu quel pericoloso comunista che si potrebbe supporre? E’ vero che partecipò con altri al recupero di vecchie armi, residuati bellici, pronti a usarle dopo l’attentato a Togliatti, nell’estate del ‘48. L’episodio turbò parecchio sua moglie, che invano tentò di dissuaderlo. Ma l’ipotesi insurrezionale si spense sul nascere. Ricordiamolo: in seguito all’appello alla calma fatta dal letto d’ospedale dallo stesso Togliatti, e alle vittorie di Bartali nella Grand Boucle. Ma Righetto, in tutto il resto della sua vita fu un lavoratore onesto, pacato, e ragionevole; e nell’esser comunista esprimeva la convinzione sulla bontà dei principi egualitari e di giustizia sociale rappresentati dalla rivoluzione d’Ottobre. Maturò quest’idee verso i trent’anni. Dopo un obbligo militare di leva infinito: ben sette anni! Di famiglia numerosa – con dieci, tra fratelli e sorelle – aveva beneficiato di una certa agiatezza economica dovuta al commercio dei cavalli. Portato al successo da un Monacchini, tal Beppana, così noto da figurare sulle mappe catastali nel toponimo: “Toppo del Beppana”, sulla piana cortonese. Successo dovuto a scaltrezza e dinamismo nei mercati e nelle fiere principali di Acquapendente, Bolsena, Senigallia. Beppana trafficava anche cavalli pregevoli, come dimostrarono le vittorie dei suoi puledri in due palii a Siena e in uno a Valiano. E’ possibile che la sagacia commerciale (indispensabile nel mercato) fosse stata trasmessa a Severino, dedito allo spennamento di polli al gioco delle carte. Righetto non era fiero di quell’attività del fratello, contrario a vite spregiudicate. A causa della crisi nel commercio dei cavalli, soppiantati dai trattori, Righetto fu costretto nel dopoguerra a ingegnarsi in lavori manuali, in prevalenza edili. Fino agli anni Sessanta, quando fu assunto in Provincia come cantoniere. Costretto a rimanervi in servizio fino a settanta anni, per condotte truffaldine dei precedenti datori di lavoro riguardo ai contributi previdenziali. Oggi si è arrivati al pensionamento a 67 anni. Righetto rimase fino a 70 anni a spargere risetta, affondare fossi, ordinare la segnaletica stradale, tagliare l’erba sulle banchine e nei fossi,… sulla strada bianca tra Riccio e Barullo di sua competenza. Del protrarsi di quelle fatiche, era difficile che si lagnasse. Dopo il duro lavoro nei cantieri edili, malpagato e da mattina e sera, visse la nuova occupazione di sei ore al giorno con dedizione e senso del dovere. Il nipote Daniele ricorda lo sfogo del nonno con la nonna, per il disastro provocato da un tremendo acquazzone sulla strada bianca, lisciata a mo’di biliardo da Righetto, e ridotta in un pantano di buche!… Inoltre, quel lavoro gli consentiva di seguire con agio la sua passione principale: la politica. Che significava: partecipare a riunioni di partito e sindacali, contatti tra iscritti, diffusione dell’Unità e partecipazione alle Feste,… attività che, unite alla lettura, egli considerava fondamentali per l’emancipazione collettiva e individuale. In breve, visse intensamente ciò che si teorizzava: il Partito intellettuale collettivo, educatore, luogo di analisi confronto e crescita culturale: scuola di vita sui generis. Partito autoritario e centralistico, ma talmente aggregante nelle “zone rosse” da fidelizzare i suoi elettori in modo tenace e durevole, nonostante le recenti vorticose divisioni e cambi di nomi e simboli di partito. Righetto innanzi tutto spronava sé stesso all’impegno, consapevole dei limiti della sua formazione politico-culturale: sudata e arrangiata. Fiero del figlio Italo laureato in Filosofia. Raccomandava ai nipoti, Daniele e Alessio, altrettanto impegno negli studi, con cui anche figli di classi meno abbienti si elevano al pari d’ogni altro, conquistando libertà di giudizio e di scelta. Padre di tre figli – Italo Ersilia e Rossana -, ebbe una vita tranquilla, senza sussulti. Salvo le tribolate vicende militari in Albania, dove assistette a un terremoto, e corse come un pazzo tra i campi a gambe levate vedendo muoversi pure gli ulivi; e l’avventura, al ritorno dal servizio militare, a fianco d’un tizio che poi si scoprì esser ricercato dai carabinieri per un delitto clamoroso nel Cortonese. Righetto, conservatore negli affetti familiari, ma di idee radicali sulla evoluzione socialista della società, attento agli impatti negativi delle attività umane sugli equilibri ambientali, alle sue esequie civili chiese la presenza del sindaco, Emanuele Rachini, che gli tenne il discorso commemorativo.
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Guerriero Nocentini, fondatore Coldiretti cortonese, salutava col sorriso

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Con Guerriero Nocentini gli incontri eran diradati, ma, ogni volta, iniziava il saluto col sorriso. Scrutando in faccia l’umore, se buono, non attaccava “Ciao come stai!” – sottinteso –, ma raccontava l’ultima facezia per far una risata insieme, o riflettere con amara ironia se qualcosa non fosse andata pel verso giusto. Approccio amichevole, da un bello sguardo sorridente, che teneva con tutti. Personaggio – senza darsene arie – conosciuto, e conoscente un sacco di persone. Primo dirigente della Coldiretti cortonese (1953), nel risparmiare i soldi della benzina, girava in motocicletta col sindacalista della CGIL, svolgendo funzioni equivalenti: incontrare mezzadri e coltivatori diretti, sparsi nel vastissimo territorio. Oltre la cura d’interessi contadini simili, i due erano uniti dagli stipendi: che non riscuotevano tutti i mesi!
Apparentemente flemmatico, seguiva svariate passioni, impegni, relazioni, fino a tarda età; riscuotendo fiducia negli ambienti più disparati, non importa se di bianchi rossi o neri, religiosi o miscredenti, moralisti o trasgressivi, impegnati o oziosi. Dirigente e attivista DC, consigliere comunale e provinciale, interessato non solo all’agricoltura, dov’era ferratissimo, ma d’ogni aspetto della vita cittadina e rurale, compresa la caccia, sulla quale era prodigo d’iniziative e tavolate, riunendo ecumene politiche. Generoso e ospitale senza secondi fini, le proposte sindacali o amministrative – quasi sempre sensate – come le accennava, erano accolte o sostenute. Equilibrato e logico nel valutar le cose – qualità non tutte riscontrabili tra politici e sindacalisti –, se insisteva, non era su questioni balzane. Legava facile con le persone. Intelligente, concreto, ironico, condivideva con amici e conoscenti la gioia di vivere, con spirito da eterno ragazzo.
Nel gennaio 1990, mi concesse una lunga intervista sulla sua storia, intrecciata a quella delle campagne cortonesi, che inserii nel libro I Mezzadri – lavoro, conflitti sociali, trasformazioni economiche, politiche e culturali dal 1900 ad oggi – ancor oggi disponibile presso la CGIL, che l’aveva editato. Sindacalista esordiente, affrontò, dalla parte mezzadrile, numerosissimi contenziosi coi proprietari agrari, che non avevano adempiuto al dovere dei saldi colonici annuali per decenni, perfino da vent’anni e oltre. Il difficile era far ricordare al contadino acquisti e vendite in così lunghi lassi di tempo. Mentre l’amministrazione padronale sapeva benissimo gli affari pregressi d’un podere. Quei serrati complicati contenziosi si protrassero ben oltre la soppressione della mezzadria (1965). Dal 1953 al ’90, aveva portato gli associati alla Coldiretti cortonese da 117 a 1718; dei quali, il 30 per cento comunisti. Iniziata l’avventura da solo e senza mezzi, stava andando in pensione con l’ufficio aperto tutti i giorni da 9 impiegati. Coldiretti col patronato EPACA, e CGIL col patronato INCA, nel ’90, coprivano il 90% del fabbisogno assistenziale di pratiche amministrative sociali (pensioni, invalidità, …). Dunque, a Cortona e in Italia, CGIL e Bonomiana erano accomunate da iniziali obiettivi: dare finalmente ai mezzadri quanto gli era stato negato da sempre, in termini economici e di sfruttamento, dignità e giustizia. Ma le due organizzazioni erano divise sugli sbocchi economici agrari. CGIL Federmezzadri intendeva ottenere gratuitamente la terra ai contadini, e gestirla magari in forme colcosiane; mentre, più concretamente, Coldiretti aiutava mezzadri e piccoli proprietari a beneficiare dei finanziamenti agevolati (Piano Verde 1° e 2°) per acquistare poderi e attrezzature, costruire case e annessi; gestendo semmai in forma cooperativa la trasformazione e commercializzazione dei prodotti (tabacchificii, cantine sociali, frantoi, molini, conservifici, …). Col tempo, anche CGIL Federmezzadri si convinse della bontà della linea Coldiretti, avendo perso occasioni e iscritti; molti comunisti e socialisti, interessati alla proprietà, erano entrati nella sfera Coldiretti. Intanto, gran parte dei mezzadri locali erano fuggiti, e Coldiretti e il sistema collegato (DC, parrocchie, …) attrassero in Valdichiana numerose famiglie immigrate dal sud Italia, cercando di coprire la voragine lasciata dall’emigrazione. Operazione criticata a sinistra, ma anche questa ebbe successo.
Quando con Guerriero ripercorrevamo le tappe del movimento sindacale contadino cortonese, in lui non c’era la spocchia di chi era stato dalla parte della ragione; mentre guardava al presente e al futuro incerto dei coltivatori, minacciati dal globalismo e da grandi concentrazioni fondiarie che gonfiarono i prezzi dei terreni: era l’epoca dei Gardini e Gabellieri, accaparratori di terre, gran parte lasciate incolte o mal coltivate; ma ormai la frittata era fatta: la lievitazione assurda delle terre. Guerriero guardava avanti, come far sopravvivere i nuovi imprenditori agricoli: valorizzando le tipicità, migliorando standard produttivi, vedendo integrazioni del reddito nel commercio diretto dei prodotti, con gli agriturismi che nel frattempo fiorivano… Guerriero aveva assistito al fallimento di carrozzoni come i Consorzi Agrari, lo Zuccherificio Castiglionese,… ultimi mastodonti burocratici e produttivi tenuti in piedi dallo Stato; alla fine d’un lungo ciclo economico, iniziato durante il fascismo, caratterizzato dall’interventismo sistematico statale: inteso a controllare tutto, compresi i prezzi al consumo. E assisté pure alla riduzione epocale della forza lavoro agricola nel cortonese: scesa da oltre il 70% degli anni Cinquanta, alle odierne percentuali a una cifra. Ma non gli era venuta meno la fiducia nel futuro, consapevole della ricchezza per l’uomo rappresentata dalla terra.
Per godere la vicinanza alla terra, lo ricordo nella sua casetta del Torreone, dove mi invitò a dissetarmi, avendo compiuto la follia (per me non allenato) di salire in bicicletta da Teccognano a Cortona. In quell’angolo era felice, raffigurandogli le cose basilari della vita: la natura e la libertà… in compagnia del mezzo sigaro toscano.
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Racconto intrigante su “Amore e Sesso al tempo degli Etruschi” di Claudio Lattanzi

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Facile e scorrevole, il libro Amore e sesso al tempo degli Etruschi – maschile e femminile nella civiltà dei Tirreni, dei Greci e dei Romani sviluppa un argomento intrigante: la sessualità praticata circa due secoli e mezzo fa nei nostri paraggi. L’excursus storico, con baricentro nell’antica Etruria, passa in rassegna anche approcci ai costumi sessuali di civiltà coeve e successive (Greci e Romani), fino ai dottori della Chiesa, che, per secoli, imposero un punto di vista religioso, relegando il sesso tra le azioni peccaminose, negandogli così quella naturalezza e gioiosità appartenuta, invece, alle civiltà primitive. Claudio Lattanzi rielabora una varietà di fonti, segnalando pure ricostruzioni fantasiose, se non maliziose e fuorvianti fiorite in materia, già in antico. Sia per ignoranza – è luogo comune: i misteri che circondano la civiltà etrusca –, e sia in mala fede: denigrando i costumi sessuali degli Etruschi, tra le maggiori civiltà italiche prima d’essere assorbiti, con le buone e le cattive, dai romani. I cui primi re, viene giustamente ricordato, furono etruschi. I miei remoti approcci con testimonianze lasciate dai nostri avi, mi hanno rimandato ragazzino quando giocavamo a nascondino nel “melone” di Camucia, – i cui scavi risalgono ad Alessandro François (1842) -; spogliato delle suppellettili funerarie e all’epoca semi abbandonato, presumo fosse usato anche per altri scopi giocosi dai più grandi, dei quali lascio immaginare l’attinenza al titolo del libro. E a un altro ricordo, al rito praticato dalle donne di casa una volta infornato a cuocere il pane. Piccolino, le donne mi invitavano a scansarmi, ciò non mi impedì di assistere, di nascosto, a quanto stessero facendo: alzavano gambe e sottane davanti alla bocca del forno. Chiaro gesto allusivo erotico scaramantico, affinché il pane venisse ben cotto, nella credenza di ingraziarsi divinità protettrici della panificazione. Pratica, certo non confessata al prete, che presumo derivasse da antiche superstizioni, e che le donne l’eseguissero più per gioco che convinte dell’efficacia. Ma ora torno al libro. Convincente e suggestiva è l’interpretazione sulle abitudini sessuali dei primitivi, e, successivamente, fatte proprie anche dagli Etruschi. L’uomo e la donna, considerandosi tutt’uno con la natura, senza gerarchie precostituite nelle relazioni reciproche, praticavano il sesso come piacere e come rito, con cui gli umani si fondevano al mondo fenomenico naturale e sovrannaturale, con cui s’intendeva vivere in armonia. Studi, svolti in carie parti del pianeta, confermerebbero abitudini simili tra i primitivi cacciatori e beneficiari dei frutti della terra, dapprima spontanei e poi coltivati. Quelle remote comunità avrebbero condiviso tutto: ricoveri, provviste, e, nella promiscuità sessuale, pure i figli sarebbero appartenuti al villaggio, che ne curava la crescita senza distinzioni nei ruoli: di madre, né, tantomeno, di padre. Il bambino era di tutti. E basta… Dunque il sesso, nella visione del mondo primigenio, era un dono naturale di cui si poteva e doveva godere. E, come risulta da ricerche storiche e antropologiche, gli Etruschi non furono l’unica civiltà post neolitica a considerare la pratica sessuale momento desiderabile della vita, scevra da pensieri moralistici; così com’è riprodotta in figure e posizioni varie negli affreschi tombali e in vasi fittili. Suscitando nei ricercatori interpretazioni non sempre tra loro concordi. (Beati noi ignoranti, per i quali un trenino è un trenino e basta!). La libertà sessuale praticata, non impedì a quella civiltà di coltivare sentimenti e organizzazioni familiari efficaci, entro cui uomini e donne godevano sostanzialmente di pari diritti. Le donne si curavano del proprio corpo, del trucco, dell’acconciatura dei capelli, dell’igiene, del vestiario, ereditavano beni familiari,…, e partecipavano alla vita sociale, compresi i banchetti, alla stregua degli uomini. Pur in presenza già di un’organizzazione sociale molto gerarchizzata, uomini e donne dello stesso stato sociale condividevano relazioni paritarie. Al vertice stavano i principi, i ricchi, e la casta sacerdotale (aruspici), anch’essi membri di famiglie agiate, e, alla cui base, stava il popolo di coltivatori, assimilabili agli odierni coltivatori diretti. Prima i Greci, poi i Romani, imposero ben diverse gerarchie nella società e nelle famiglie, riservando ruoli marginali e subalterni alle donne. In Grecia le donne erano escluse dalla vita pubblica; dignità non molto diversa riservarono loro i romani: i cosiddetti pater familias (corrispondenti a capi tribù assoluti, più che al concetto recente di padre di famiglia) esercitavano perfino potere di vita o di morte sulle donne, in certe circostanze. Sebbene alle origini del culto cristiano la figura femminile fosse considerata pari all’uomo, in certi documenti si descrivono persino figure di donne apostoli di Cristo, e nel vangelo fosse loro riservato grande rispetto, certi dottori della Chiesa imposero alla religione una visione maschilista delle gerarchie ecclesiastiche, e una sessuofobia peccaminosa nei riguardi dei rapporti sessuali, su cui confessori d’ogni tempo hanno indugiato prevalentemente in attenzioni morbose. Perciò il libro di Claudio Lattanzi invita il lettore con levità e competenza a un importante ripasso storico in materia di amore e sessualità, partendo dai costumi etruschi. Ne consegue che il lettore è indotto riflettere sul lungo cammino della liberazione dell’umanità da tante superfetazioni morali e giuridiche gravanti sulla sessualità e sui rapporti uomo/donna. Un’etica, non è sbagliato considerarla moralistica, che ha stravolto la storia delle pratiche sessuali umane, riducendole a strumento di controllo sulle coscienze da parte delle Religioni, e terreno di norme giuridiche da parte degli Stati, che non hanno esitato a intromettersi nella gioiosa intimità dei talami, discriminando diritti tra uomo e donna, e causando nell’umanità infelicità e amori malati fonte di tanti drammi “passionali”. www.ferrucciofabilli.it prima_AMORE E SESSO ETRUSCHI

Un’allegra brigata ai “giochi senza frontiere” a Diest

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Letto l’articolo di Enzo Lucente sull’avventura ai “giochi senza frontiere”, gli ho chiesto di raccontare la mia fugace e spassosa gita di un giorno a Diest. Era fine estate e la nuova Giunta comunale, da me presieduta, si era appena insediata. Trovammo tutto, o quasi, preordinato, tra la precedente Giunta del sindaco Tito Barbini e il presidente dell’Azienda di Soggiorno Giuseppe Favilli, che, tra tutti, si era speso di più per il successo di quella presenza in eurovisione, notevole spot pubblicitario per Cortona. E, a quel che risultava, i nostri giovani e baldi concorrenti si erano ben preparati a gareggiare in abilità atletiche, sotto la guida del professore di ginnastica Pasquini. Dovendo la Giunta indicare i rappresentanti della Città, vista la rinuncia spontanea del meritevole Favilli, furono scelti la vice sindaco Maria Emanuela Vesci e l’assessore Viti Angelo, in perfetto equilibrio nella parità di genere. Di sua iniziativa, li avrebbe raggiunti l’assessore Fosco Berti, marito di Denise, originaria della bella città di Gand non lontana dai giochi. Per me, decisi di partecipare al tifo la giornata della gara, a mie spese, con l’amico Ademaro Borgni alla guida della sua vettura; in due giorni, da solo, andare e tornare da Diest sarebbe risultato troppo impegnativo.
Inaspettata, alla vigilia delle prove, mi giunse in ufficio una telefonata affannosa e preoccupata di Berti: qualcuno doveva salire in una carrozza in rappresentanza di Cortona… il corteo si stava formando e della delegazione ufficiale non c’era traccia. Berti chiese: “Che faccio?… Salgo io?… Mi nomini rappresentante di Cortona seduta stante?…” Assecondai, senza esitazione, il volenteroso novello alfiere cittadino.
Il giorno della prova preliminare, con Borgni, facemmo la sgroppata, da Cortona a Diest, giungendo al calar del giorno, stanchi ma sereni, senza contrattempi. Affamati, il pensiero fu dove cenare. Trovammo allettante il nome del ristorante: “Grotta di Capri” o simile…c’era un Capri nell’intestazione. Anche nell’idea di trovare suggerimenti dove dormire la notte. L’impatto fu subito negativo: in città e dintorni, gli alberghi erano tutti occupati dai partecipanti ai giochi…finchè un commensale, capito il disagio, parlottando col ristoratore si incaricò di risolverci il problema. Avremmo seguito la sua vettura fino a una destinazione a lui nota. Sulla strada, verso l’auto in sosta, incontrammo l’allegra brigata cortonese, euforica per il successo dei ragazzi: vincitori delle prove!…ottimo auspicio per la gara ufficiale. Giusto il tempo di saluti fugaci, ci demmo appuntamento l’indomani mattina, obbligati a non trattenerci per non disturbare la nostra guida all’albergo. Buio pesto e nebbia. Dopo una breve escursione su strade di campagna, giungemmo a una palazzina illuminata da vetrate velate al pian terreno. L’accompagnatore neppure scese, salutandoci fece intendere che eravamo attesi. In effetti, una signora era sulla porta, in elegante lunga vestaglia da camera (compatibile con l’ora tarda), e ci accompagnò in stanze al piano superiore: ampie e ben arredate. Non poteva capitar meglio a una cifra non esagerata. Raggiunte le camere, le luci al pian terreno aumentarono i riflessi esterni. Pronti, com’eravamo, a coricarci, al dettaglio non demmo importanza. Poche decine di minuti dopo, già accucciati a letto, dal basso salirono strani rumori. Effusioni amorose e un bidè finale. Sarà stata una coppia caliente e frettolosa, pensammo. Alla secondo e alla terza effusione con bidè finale, capimmo che eravamo ospiti d’un elegante bordello! La mattina facemmo una buona colazione, e del bordello non c’erano più tracce, tranne un paio di assonnate signorine che in disparte prendevano il caffè. All’ora convenuta, fummo tra i primi all’adunata cortonese. Finché giunsero i membri della delegazione ufficiale, il Vice Sindaco e l’Assessore e un accigliato Natale Bracci, con cui era evidente una disputa in atto sulle traversie notturne per raggiungere l’albergo: chi guidava l’auto si era trasformato in occasionale pilota di Formula 1… Nella nebbia e non pratico delle strade, il guidatore aveva trascorso un paio d’ore girando al tondo nel circuito automobilistico che una volta all’anno era la pista del gran premio del Belgio… Il tardo pomeriggio fu deludente. La squadra cortonese, che alle prove era risultata prima, nella gara finale aveva perso sprint, forse appagata dalla prova generale: i ragazzi – pensammo – nella notte avranno smarrito la concentrazione…e, da battute raccolte qua e là, si capiva che c’era stata una distrazione di massa, salvo me e Borgni che, invece, ci sorbimmo il fracasso notturno delle altrui distrazioni. Non solo, a causa di tal friccicorio erotico, era stato sfiorato lo sputtanamento cortonese in eurovisione: Milly Carlucci, indispettita, aveva minacciato di non presentare la trasmissione in TV, a causa di un concittadino che gliela aveva chiesta insistentemente e in modi ineleganti. C’erano volute scuse ufficiali e lunghe trattative per farla recedere dal suo astioso proposito!
Prima di rimetterci in strada diretti a casa, ci trattenemmo con altri cortonesi a cena, offerta da Ivan Accordi. La birra scorse a boccali, tanti quanti ne conteneva uno a fianco all’altro la superficie del tavolo a cui eravamo seduti. La questione iniziale era stata: il bianco vergine, portato in quantità dai cortonesi, aveva procurato mal di testa a mezza Diest, mentre la birra non dava il trip del giorno dopo, perciò tutti a darci dentro!… Finché, trip o non trip, qualcuno della delegazione fu notato essersi trasformato in una “cosa farfugliante”, che si ribellò persino all’offerente la cena, Ivan Accordi, gridandogli: “Se vuoi mangiar le vongole, ordinale!…” dal piatto gli era stata presa per assaggio la minuzia d’un mitile… Finito il banchetto e tracannati un bel po’ di boccali di birra, con Borgni decidemmo il rientro non più sobri né ubriachi, dal momento che ci alternammo tutta la notte alla guida, avendo pure imbarcato un terzo, “Ucellino”, Oliviero Bennati, preso in giro dai compagni di ventura che stava abbandonando: “Vai a casa perché hai paura che la moglie ti sgridi!”…e una sequela di battutacce simili verso il povero “Ucellino”, finché non prendemmo il largo dalla comitiva cortonese di resistenti… all’alcol. Non vincemmo i giochi, ma forse lasciammo di Cortona ricordi festosi nelle malinconiche brume di Diest.
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Lo sguardo di “Buio”, sovversivo campagnolo agli albori del Novecento

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sguardo di BUIORipenso alla storia singolare d’un vecchio anarchico conosciuto da bambino, che non era né aristocratico né intellettuale né operaio in settori industriali, bensì contadino e bracciante. Vissuto in zone isolate collinari tra Valdesse e Trasimeno: che fecero da nascondiglio nell’agguato di Annibale ai romani, durante la seconda guerra Punica.
Il mio vicino di casa, era noto a tutti come “Buio”. Altezza media, robusto, un po’curvo su spalle poderose, andamento caracollante, faccia scura, sopracciglia folte, sguardo triste e torvo che, incrociandolo, avrebbe inquietato. Un volto allarmante da tenere a distanza. In realtà, ricordo d’esser stato vezzeggiato da Buio, anche se in modi poco leziosi; che, d’altronde, erano gli stessi usati dagli adulti verso i piccoli campagnoli. Le coccole sdolcinate odierne, riservate a cuccioli bipedi o quadrupedi, era raro riceverle persino dai genitori.
Nella proprietà del Sor Giovanni detto il Valecchiese, alla Casa Bianca (toponimo mappale, niente affatto parente con le Casa Bianca dei potenti), vivevano nello stesso edificio due famiglie. La mia mezzadrile, nel lato a valle, composta da una decina di persone, con stalla, cantina e magazzino; e, a monte, la famiglia bracciantile di Buio, composta da tre o quattro persone, senza stalla né cantina né terreni da coltivare. Nella quiete collinare immersa tra ulivi e boschi cedui si godeva una splendida vista: sulla Valdesse sulla collina di Sepoltaglia sui monti di Ginezzo fino a Cortona. Certi giorni l’armonia tra le due famiglie era scossa dalle stranezze di Buio, a seguito del suo paio di sbornie ordinarie giornaliere: una mattutina e l’altra serale; quest’ultima, turbolenta, si concludeva a notte fonda. Con gli uomini della mia famiglia alla ricerca di Buio incespicato in anfratti – di ritorno dalla bottega del Passaggio a far provvista di vino -, o impegnati con pazienza a chetarlo in casa sua, soccorrendo le sue donne impaurite dalle minacce del vecchio, preda dei fumi alcolici. Maggiore agitazione era nelle gelide notti invernali, quando incombeva il pericolo di assideramento dell’anziano, caduto in forre e incapace a rialzarsi; o quando le minacce a moglie e figlie erano portate con utensili pericolosi. In quei frangenti, di norma, interveniva a rabbonirlo il nonno Beppe, coetaneo del bumbazziere. Non di rado, costretto pure ad andarci a letto…nudo; perché l’ubriaco temeva d’essere ammazzato dal nonno magari con un coltellaccio nascosto sottopanno… ubriaco e sospettoso… Nel resto del giorno, in cui il vino non faceva da padrone, Beppe e lo stralunato vicino divagavano in chiacchiere amichevoli, fumando accanitamente “Alfa” o sigarette arrangiate con tabacco ruspato nei campi. E storie da raccontarsi, i vecchi conoscenti, ne avevano in quantità. A quelle pause spesso assistevo anch’io, accucciato ai piedi del nonno, capendo poco o nulla dei loro colloqui. E qui finisce il racconto di cose certe, vissute in prima persona. La parte più intrigante la racconterò de relato, per sentito dire; più di tutti, dal nonno: intimo conoscitore di Buio, e dall’estro narrativo seducente. Unico. Senza escludere, tra i due, complicità e intese su vari aspetti della vita, comprese certe idee sovversive che Buio applicò con temeraria coerenza. Buio era coperto di tatuaggi di semplice fattura – disegni tratteggiati da qualche galeotto -, avendo subito il carcere militare (a Gaeta?) per aver tentato di uccidere un ufficiale. Non ricordo le ragioni della zuffa micidiale, mentre rammento il contesto. Chiamato in armi negli anni poco antecedenti la guerra ‘15-18, Buio mal sopportava la vita militare, tantomeno di andare in guerra. Per giunta, tempo addietro, aveva già mostrato la feroce avversione verso le autorità: sparando a un prete, in ossequio alla direttiva anarchica di accopparli tutti!… lui ci provò col suo. Per fortuna d’entrambi, la fucilata risparmiò la vita al religioso. Perciò, Buio, fu richiamato a casa dal rifugio francese dov’era riparato. (Agguato e fuga suscitano più che il sospetto sull’esistenza d’una rete organizzata). Ma torniamo agli sprazzi di memoria superstiti: sul tentato omicidio dell’ufficiale e quel che ne seguì. Nel turbine d’una volontà decisa a sottrarsi alla disciplina militare, la rabbia di Buio ebbe un violento epilogo: durante una rissa, tentò di uccidere (non ricordo l’esito: se l’aggredito sopravvisse) quel giovane ufficiale che, forse, gli era parso il peggiore tra chi usava impartire ordini. Subito dopo, Buio si finse pazzo, con determinazione. E subì stoicamente l’infissione di spilloni nelle sopracciglia – lui diceva, “senza batter ciglio!” – volendosi mostrare davvero pazzo. (In quella occasione gli fu praticato l’elettrochoc?). Durante il ricovero coatto in ambienti psichiatrici e in galera, accentuò il peggio del suo carattere: scontroso, attaccabrighe, capace di bizzarrie improvvise (da cui discendeva il nomignolo: Buio). Fino a escogitare l’ennesima stranezza. Quando caricò sulle spalle la pesante branda di ferro, con materasso, lenzuola, coperte, e il suo misero corredo, allontanandosi dalla camerata… trasportare quel peso non era da tutti. Anzi, era segno di forza bruta, rafforzata dal desiderio disperato d’esser lasciato in pace… pia illusione! in quel mondo di matti veri e finti e galeotti turbolenti… tanto che Buio portava vistose cicatrici sulle labbra, esito d’una rissa selvaggia nella quale i contendenti si erano presi a morsi in faccia, come animali in combattimento.
Trascorsi quegli anni terribili di storia patria – nei quali sul fronte di guerra morirono o furono mutilati centinaia di migliaia di soldati, in prevalenza di origini contadine – la vita di Buio, dagli anni Venti del Novecento, riprese il suo corso “normale”. Coi genitori, era stato contadino a Farnieto (da farnia: quercia gentile), dov’era nato negli anni Novanta dell’Ottocento. Più in alto di quel luogo remoto tra i boschi – all’epoca, raggiungibile per ripidi sentieri – c’era solo Volpaia; il cui nome dice tutto: covo di volpi! Possiamo ben immaginare disagi e misere condizioni nei casolari sperduti di Farnieto e Volpaia, dove a fatica si rimediava di che cibarsi. Tuttavia, le distanze dal mondo civile non impedirono a Buio d’entrare in contatto con idee, diffuse in Europa e in Italia, come quelle anarchiche, delle quali – secondo il nonno – Buio si sarebbe invaghito. Carattere ribelle e lucido, dimostrato raccontando le sue traversie con dovizia di dettagli, non paragonabile all’ingenuo Carrozza, suo vicino in quel di Volpaia, sul quale si tramanda una comica storiella. Carrozza, con ricetta medica, si recò in paese ad acquistare un farmaco per stimolare le “forze” alla moglie in travaglio. Spossato e ansioso di concludere al più presto l’incombenza, salendo l’erta verso Volpaia, si disse: “Se il farmaco è buono a stimolare le “forze” ad una partoriente, può ben servire anche a me!” e, convinto di ciò, ingurgitò parte del farmaco. Che, di lì a poco, gli procurò non pochi disturbi intestinali!… Si tramanda la storiella per il suo grottesco, ma anche per beffare la dabbenaggine di gente vissuta in paraggi sperduti. Tutt’altre avventure, invece, aveva affrontato Buio. Che, morto il babbo, ultra trentenne si sposò in rito civile con una “minorenne”, coi genitori di lei consenzienti; all’epoca, i vent’anni erano minore età. E, abbandonato il podere di Farnieto, da bracciante affittuario si accasò con mamma e moglie a Casa Bianca. Dove gli nacquero tre figlie, e vi rimase fino alla morte, ottantenne; vivendo a fianco dei mezzadri, che nel tempo si avvicendavano a condurre il podere del Sor Giovanni. Compresa la mia famiglia, che vi sostò quattro anni. Benché l’affitto di Buio fosse speciale: una lira all’anno! – già negli anni Cinquanta una lira era uno spicciolino – che il Sor Giovanni riscuoteva da Buio durante il pranzo annuale offerto dallo stesso padrone di casa! Pranzo a cui, a volte, era intervenuto il nonno Beppe che, senza essere cacciatore, era stato compagno di caccia del Sor Giovanni in età giovanile, in quanto suo mezzadro e fido guardaspalle. A commento dell’insolito affitto, sarebbe facile arguire il motivo per cui Buio non se la prese coi padroni (altra bestia nera degli anarchici), mentre si era scagliato decisamente contro un prete e un militare, autorità alle quali aveva dichiarato guerra a oltranza, perché da lui considerate tra i più malvagi burattinai manipolatori nella coscienza e nel comportamento dell’umanità subalterna. Coerente fino in fondo, sulla tomba di Buio non ci sono segni religiosi. Salvo due vasetti portafiori: crociati; forse perché in commercio non se ne trovarono altri.
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P.S. Da principio, speravo in una ricostruzione “storica” delle vicende di Buio, ma nell’archivio diocesano non c’è traccia dell’agguato al prete. Perciò, ho rinunciato a indagare le vicende successive, come il tentato omicidio dell’ufficiale, di cui senz’altro ci sarà traccia. Ma, concludendo, penso che Buio avrebbe apprezzato di lasciare la sua storia nel vago… intollerante d’ogni autorità, e deluso dalle vicende umane come testimoniava la sua cronica ubriachezza nel lungo tramonto della vita.
F.F.

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Quando il trattore sostituisce la forza motrice bovina

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bovini 4Nelle campagne italiane, dagli inizi del Novecento, l’introduzione della forza motrice meccanica, il trattore, in sostituzione del traino bovino è stato lento e graduale. Innanzi tutto per gli alti costi di acquisto e gestione; come per ogni nuova tecnologia, chi innova deve compensare ricerca, sperimentazione, fallimenti. Un fenomeno analogo accadeva per le automobili, i costi di acquisto erano proibitivi per la maggioranza dei potenziali utenti, tutta la popolazione adulta, fino all’innovazione fordista delle catene di produzione. Per il trattore, la standardizzazione produttiva seguì meno rapidamente i processi dell’auto, sulla quale, nel frattempo, i ricchi benestanti misero presto occhi e portafoglio, in Europa e negli Stati Uniti.
Nella mezzadria, gradualmente, fece accesso il trattore in grandi fattorie, mentre nelle piccole e medie aziende furono i cosiddetti terzisti a prestarsi occasionalmente con i loro trattori (Case, Orsi, Landini, Bubba, Lamborghini, Fiat, Fordson, …) e relativi accessori meccanici (nelle trebbiature, semine, trasporti di ingenti quantitativi, lavori di scasso profondi, ecc.). Nel secondo dopoguerra, periodo di cambiamenti profondi e di nuove aspettative tra i mezzadri, di maggiori profitti e minor fatica, a Cortona si ebbe almeno un’esperienza di trattore cooperativo, nella zona di Manzano, destinata ben presto al fallimento. Nelle intenzioni, raccontatemi da uno dei promotori, Settimio Mencacci, il trattore cooperativo sarebbe dovuto intervenire a favore dei soci, riducendone costi e fatiche. Ma non funzionò. Mentre la meccanizzazione, dagli anni Sessanta, fece la sua escalation per iniziativa dei coltivatori diretti, in virtù d’una legislazione incentivante l’accesso al credito a bassi interessi e lunghe rateizzazioni, criteri simili all’acquisto di unità poderali e alla costruzione di annessi.
A introdurre i primi trattori in Valdichiana furono le grandi proprietà terriere a conduzione capitalistica, che, disponendo delle necessarie ingenti risorse finanziarie, col trattore videro accelerati i cicli lavorativi, aumentate le produzioni, e annullati o ridotti rischi e costi derivanti da incognite quali la salute degli animali e il minor impiego di manodopera. Uno dei primi trattori acquistati e usati nella piana delle Bonifiche Leopoldine fu un Case, che vedete nella foto. bovini 4
Un prodigio tecnologico, per l’epoca, prodotto da una casa costruttrice ancor oggi sul mercato in tutti i continenti. La possente struttura di quel proto trattore da il senso della forza che è in grado di sprigionare, dovendo sostituire con efficacia altrettanti robusti traini bovini.
Nel mio archivio ho raccolto una serie di fotografie nelle quali sono documentati fino a quattro coppie bovine aggiogate allo stesso aratro, che la meccanica aveva già reso potente con l’applicazione delle ruote. Già a fine Ottocento abbiamo esempi di aratri, tra i cui inventori ricordiamo un Ridolfi, descritto anche dall’agronomo Cappannelli nella sua storia agricola cortonese. Così, nel giro di pochi decenni, spariranno dalle campagne quelle infilzate monumentali di bovi e vacche di razza chianina e maremmana, composte da quattro, tre, due, una coppia. Per secoli, docili compagni di lavoro del contadino, che aveva addomesticato al traino pure i maschi, castrandoli. bovini 3bovini 2bovini 1bovini 5
Il destino di quegli animali come forza da traino, con l’avvento del trattore, era segnato, ma non la loro scomparsa. Grazie alla iniziativa della Associazione degli allevatori aretini, negli anni Trenta del Novecento, iniziò la selezione della razza chianina, vedendone le potenzialità eccellenti come carne da macello. Ma questa è un’altra storia che racconteremo in seguito.
Per vedere i trattori delle prime generazioni dovremmo andare in un museo, tra i quali ricordo l’eccellente collezione al Museo dei Borghi a Centoia, mentre vacche e vitelloni di razza chianina sono allevati in stalle o, in certe zone più adatte al pascolo, allo stato brado per la gioia delle nostre mense.
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L’esotismo erotico, gusto borghese reso popolare dalla fotografia

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esotismo erotico - 5Con l’affermarsi della fotografia, l’esotismo erotico da gusto pittorico borghese si diffuse in ogni ceto attraverso le cartoline postali. Nel mio archivio – assemblato senza criterio come un bricabrac – ho una carte postale parigina, presentata al Salon del 1903, di L. A. Giradot, intitolata: ‘Le bain maure’”, edita dello studio Raphael Tuck & Fils. (La qualità della immagine è bassa, trattandosi di riproduzione seriale in larga scala, limiti riproduttivi che permasero a lungo in tale tipo di editoria). Nella composizione fatta in studio, il nudo di donna dai capelli scuri potrebbe essere di qualsivoglia modella parigina o nordafricana, a causa dei caratteri somatici somiglianti; perciò, essendo dedicata al “bagno moresco”, era necessario enfatizzare l’esotismo attraverso la scenografia: servi vestiti alla moresca, e, sullo sfondo, sono evidenti sia l’arco a ferro di cavallo sia le decorazioni murarie arabesche. Quel gusto – rinvenibile anche in dipinti coevi, tra i più belli presenti nel Museo Quai d’Orsay – incrementò la sua diffusione in seguito all’espansione coloniale francese nella regione africana corrispondente alle attuali Algeria e Tunisia; affacciandosi pure nella moda parigina dei salons: esposizioni campionarie periodiche, riservate in origine alla pittura e in seguito estese alla fotografia, al suo diffondersi e perfezionarsi in arte e tecnica. Addirittura, in certe occasioni, tra pittura e fotografia il connubio tematico realistico dell’esotismo erotico previde anche la condivisione di comuni spazi espositivi. Ma qui non è il caso di dar fondo a conoscenze storiografiche che avrei scarse. Mentre racconterò in breve quel che mi capitò, decenni fa, alle prese con la passione del collezionismo di vecchie foto pescate in archivi privati, gentilmente prestatemi il tempo necessario a riprodurle. Un’amabile signora anziana, vedova d’un carabiniere, non esitò a mostrarmi la sua piccola raccolta familiare. (A quel tempo, anni ’70, era ancora comune trovare modeste collezioni di storie familiari per immagini). Nella quale mi colpì una fotografia stropicciata e sbrendolata di nudo femminile: una coppia di donne, l’una in piedi e l’altra accasciata a fianco d’una chitarrina, e, sullo sfondo grossolanamente naturalistico, un cielo dalle nubi chiare e scarsa vegetazione floreale di contorno. “Questa foto – disse la vedova –, mio marito la teneva nel portafoglio. E ci tengo che tu me la riporti!” esotismo erotico - 6Volontà che puntualmente rispettai, apprezzando la cura affettuosa della vedova, sorretta dalla complicità con lo scomparso; di cui le restavano altri ritratti: da solo e, più spesso, in compagnia di commilitoni o d’un cavallo, o in scene allegre statiche (a beneficio di fotografo) o animate, in mezzo a gente di stirpi diverse. Quel carabiniere, infatti, si trovava a svolgere il servizio militare nei territori del Corno d’Africa, occupati dagli italiani. Già avevo visto soffietti formati da cartoline illustrate attaccate tra loro e ripiegate l’una sull’altra, con immagini pittoresche di questa o quell’altra città. Ma non avevo ancora visto, in formato simile, rappresentazioni dei territori occupati dall’Italia: con monumenti, pure un testone del Duce (l’intonaco sbrecciato svelava una struttura in mattoni),esotismo erotico - 4 edifici pubblici, capanne, animali, abitanti in foggia indigena e numerosi ritratti femminili seminudi di ragazze di colore, alcune delle quali, d’una bellezza affascinante. esotismo erotico -2esotismo erotico -1esotismo erotico -3All’epoca c’era pure una canzone “Faccetta nera bell’Abissina” dedicata a quel tipo esotico di bellezza: dal profilo somatico simile alle persone di carnagione chiara ma di pelle scura. Le donne del Corno d’Africa erano tanto affascinanti e numerose da mettere in ridicolo la presunta superiorità della razza ariana. Non solo, quella naturalezza femminile scollacciata, la censura del regime non la considerò oltraggiosa del buon costume. Anzi, quelle foto di graziose nerette desnude erano disponibili al pubblico sui banchetti dei souvenir coram populo. Ma, nonostante che il buon carabiniere fosse circondato da tanto bendiddio, teneva nascoste nel portafoglio le sue stropicciate bellezze di pelle chiara, sebbene alla famiglia avesse riportato un documentato souvenir della sua missione in Abissinia, nudi esotici femminili inclusi. www.ferrucciofabilli.it

Vergogna e impotenza di fronte al dramma dei terremotati

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Seduti al caldo davanti alla televisione, non c’è accusa di sciacallaggio che tenga a impedirci di esprimere il disagio che ci pervade, da cittadini della stesso paese, vedendo quanto è accaduto e accade nel centro Italia devastato dal terremoto e dalle bufere di neve. E’ da agosto che, noi che siamo fuori dal sisma, trepidiamo – non è retorica – nella speranza che il sistema Italia soccorra, nel miglior modo possibile, le migliaia di cittadini che di punto in bianco si sono trovati letteralmente sul lastrico, senza più casa né lavoro né certezze sul futuro.
A monte di tutto c’è la devastazione sismica. Per quanto prevedibile in molte aeree del paese, ma a più alto rischio sulla dorsale appenninica, ha comunque colpito duro e con insistenza, trovando impreparato quel territorio, e anche dove era meglio attrezzato come a Norcia, già colpita, la reiterazione delle scosse ha distrutto o gravemente lesionato altri edifici, compresa la cattedrale della città benedettina.
Quel che abbiamo visto da lontano dopo il sisma, tramite stampa e televisione, solo in parte ci aveva convinto che si stava facendo tutto il necessario per aiutare quelle popolazioni, volenterose nel restare in quei luoghi: belli quanto insicuri dal punto di vista della stabilità tettonica. Poteva convincere la dislocazione delle persone in strutture stabili, come residence e alberghi, così come la riapertura delle scuole anche in strutture temporanee, ma alcuni segnali erano poco rassicuranti. Erano state scelte le casette di legno come ricovero temporaneo in attesa dei tempi lunghi della ricostruzione. Ebbene, quando a Natale sono state assegnate, con sorpresa, abbiamo visto – nel caso di Norcia, ma pensiamo sia successa la stessa cosa in altre località del cratere sismico – che a fronte di un fabbisogno di una ottantina di famiglie ne sono state soddisfatte solo trenta! Lasciando migliaia di persone in camper roulotte o in prefabbricati da cantiere, la cui scarsa resistenza al freddo è ben nota. Per non parlare degli allevatori che, con disperata insistenza, hanno invocato ricoveri per i loro animali che sembravano lì lì per essere portati e invece non sono arrivati.
Non è concepibile aver assistito, da agosto a Natale, a tanto lassismo. Come sia stato possibile, a fronte di dichiarate ampie disponibilità finanziarie, che non si sia provveduto a dotare di casette di legno tutti i richiedenti e di ricoveri per gli animali? Che in uno dei paesi più industrializzati al mondo, dove certo non mancano industrie di prefabbricati, siano state fornite casette col contagocce trascurando del tutto gli allevatori, è ammissibile?
La tormenta di neve ha amplificato all’ennesima potenza i disagi, ma soprattutto ha messo a nudo l’estemporaneità e il lassismo con cui si era approntato il sistema di difesa da un inverno prevedibilmente rigido, da parte della Protezione civile, sul cui conto corrente si invita a ogni piè sospinto a inviare donazioni volontarie. E’ caduto sotto il peso della neve pure un tendone che fungeva da poliambulatorio…(Qualcuno malignamente ha scritto che i 20 miliardi stanziati in 48 ore per le banche andavano destinati alle vittime del terremoto, mentre il conto aperto per la sottoscrizione volontaria andava destinato alle banche: è un’amara spiritosaggine, però il sentimento popolare non può essere altro che di scoramento e indignazione). Tra i tanti interrogativi da porsi c’è anche questo: ma i soldi dichiarati stanziati ci sono o è tutto un bluff? E sapendo da tempo i disagi, che sarebbero arrivati dalle precipitazioni nevose, non era possibile prevedere una maggiore efficienza nel sistema di spalamento della neve e maggiore tempestività nel ripristino dell’elettricità?
Sì, tanti sono gli interrogativi a cui non avremo risposte, lasciandoci nella vergogna e nell’impotenza come cittadini più fortunati. Ai primi accenni del dramma di questi giorni, tutti abbiamo pensato all’esercito che sarebbe dovuto intervenire in forze con il genio… certo è intervenuto, ma con una incidenza sui disagi quasi irrilevante. Forse perché i loro mezzi sono più adatti alla guerra che al soccorso di popolazioni in difficoltà? Ci può stare, visto che mezzi e personale sono dati col contagocce agli stessi pompieri: unico serio presidio contro ogni calamità.
Certo il nostro paese difetta di piani e programmi di prevenzione (da sismi, frane, inondazioni,…) perciò è facile incappare in catastrofi naturali, ma l’indignazione nasce nel momento del bisogno, quando è necessario essere tempestivi e non trascurare nessuno, persone e animali, avendo a disposizione uno degli apparati statali e industriali tra i più attrezzati al mondo…che tutto dipenda dal capo o dai capi…?
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Luigi Lamentini e Alfonso Sciarri (Gigi e Fonzio) paparazzi nella “dolce vita” cortonese

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cortona-immagini-di-ieri Avevo tracciato Lineamenti di storia fotografica cortonese in Cortona Immagini di Ieri (1857-1930), Grafica “L’Etruria”, 1990. Libro remainder. Dei contemporanei, a Cortona, accennavo a Luigi Lamentini, Gigi, e Alfonso Sciarri, Fonzio. Fotografi capaci, personalità spiccate e concorrenti, gelosi del mestiere. Prima che la diffusione di fotocamere e cineprese maneggevoli e a buon mercato e l’avvento dell’elettronica favorisse la crescita di stuoli di fotoamatori, ci fu, nel secondo dopoguerra, un lungo periodo di richieste di foto-prestazioni per cerimonie, fototessere, foto da studio, che pochi erano in grado di fornire, insieme ai prodotti e servizi ad uso e consumo del crescente dilettantismo. Dal primo dagherrotipo cortonese del 1857 (che rappresenta la facciata della Chiesa di S. Margherita di Giovanni Pisano, col portico del XVI secolo) al 1990, la fotografia, da costoso hobby elitario, era evoluta in passione di massa. Col cellulare oggi è possibile a chiunque far belle foto, però resta la differenza tra dilettanti e maestri fotografi, e tra i maestri del passato (in cui le differenze erano più marcate) ricordiamo Gigi e Fonzio, dai cui archivi sarebbe possibile trarre una fantastica cronistoria del loro tempo. Gigi morettino tracagnotto, passo felpato e vivaci occhi scuri, stava a metà Rugapiana; Fonzio capelli e occhi più chiari, diritto ed elegante portamento da lord inglese, aveva il negozio al principio della Ruga, a fianco del biciclettaio Giusti. All’apparenza non facili alla confidenza, in realtà gioviali e spiritosi depositari di segreti personali scovati sviluppando pellicole e trasformati in pettegolezzi da condividere in pochi; scrupolosi nel preservare la loro immagine di persone affidabili. Gigi, ad esempio, raccontava d’aver distrutto molte foto e negativi di concittadini in divisa fascista passati ad altra sponda, o nudi “artistici” di vanitose ragazze poi pentitesi dello… sbracamento. Gigi e Fonzio, quasi coetanei, si rispettavano ma competevano in ogni occasione adatta a dimostrare la propria bravura: in manifestazioni, o all’arrivo in città di personaggi famosi. E, l’indomani, esponevano orgogliosi i loro scatti in vetrina, disposti a farne commercio. Usavano Hasselblad, se non ricordo male, ma di gran lunga la più usata in studio e in campo aperto era stata la Rolleiflex. Non l’attuale automatica elettronica dalle performanti ottiche intercambiabili Zeiss, bensì la bi ottica dall’esposimetro a lancetta e il flash non incorporato a forma d’uovo affrittellato con la vistosa batteria a tracolla, i cui scatti risuonavano solenni nei silenzi cerimoniali: ciak!… quell’apparecchio, che dopo ogni scatto obbligava a girare la manovella del rullino, in mano a Gigi e Fonzio rendeva immagini luminose e nitide. Negli eventi pubblici sfruttavano esperienza e colpo d’occhio, appostandosi nei migliori angoli visuali, ma in feste private (matrimoni, comunioni, ecc.) prendevano il comando da protagonisti: ordinando il fermo azione e persino la ripetizione di gesti cruciali, scegliendo chi far stare in scena e chi scansare… ne dipendeva il gradimento del cliente, perciò si mutavano in accigliati registi. Gigi aveva una lunga storia professionale, iniziata da commesso del tabaccaio Giovanni Polvani, con cui condivise la passione fotografica in uno studiolo nel quale sviluppavano proprie fotografie e di altri fotoamatori, ai quali fornivano il materiale di consumo. Era la stagione delle lastre di vetro e dei pesanti apparecchi di legno, dagli chassis poggiati sul treppiedi, fino all’avvento della celluloide. Gigi, dispiaciuto, raccontava d’un gran numero di lastre di vetro martellate con le sue mani, troppo ingombranti, per recuperare spazi e poca polvere d’argento; consapevole d’aver distrutto parti di storia locale. Degli svariati professionisti antecedenti a Gigi e Fonzio, per brevità, ne riporto un elenco succinto. Girolamo Mancini, in una delle prime guide di Cortona, usò fotografie dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, della Regia Galleria Uffizi, degli Alinari, dei Brogi, Domini, Rivani, Felice Fierli, Cané, Luci; ancor’oggi, documenti eccellenti. Degli altri, rammentavo nel libro citato, i fotoamatori evoluti: Carlo Lovari, Giovanni Carloni, Felice Fierli, Cristoforo Marri; senza dimenticare gli editori ch’emisero serie di cartoline, riproduzioni di paesaggi e opere d’arte d’ambito locale: Annunziata Polvani, Abaco Ristori, Maria Tavanti Lorenzini. Altri ancora, da considerare bordeggianti tra professione e dilettantismo: Umberto Fieri Fierli, Felice Fierli e il figlio Lorenzo (“possidenti” dediti al costoso hobby, come Carlo Lovari rimproverato in famiglia d’aver speso per apparecchi fotografici l’equivalente costo d’un podere!), insieme a professionisti quali: Francesco Pais, Nino Rebizi, Alfredo Bracali (all’anagrafe, segnatosi modestamente “bracciante”), Aladino Crocioni, Virgilio Fedi, Lino Carrara, Rinaldo Ricci, Giuseppe Tribbioli, Angiolo Tariffi. Qualcuno sfuggì senz’altro a quella lista, come quel Quintiglio Del Buttigli che faceva “arsumgli” alla Pietraia, ricordato da don Sante Felici. Tutti quanti documentatori di storie personali, familiari e collettive, e loro stessi protagonisti di spiritose scenette. Nel primo Novecento prese piede la moda di mettere una foto del defunto sulla lapide cimiteriale, e quando il morto non aveva ritratti da vivo glielo si faceva sul letto di morte. Si racconta che, in una di tali circostanze, il fotografo Giuseppe Tribbioli, convocato al capezzale, riprodusse non l’immagine del morto bensì le palle della lettiera!…alle rimostranze dei parenti, si disse che il Tribbioli avesse risposto: “Il morto… s’è mosso!” Questa e altre storie spassose raccontavano Gigi e Fonzio, senza cattiveria, semplicemente per il gusto della facezia arguta. Testimoni disincantati del loro tempo, avevano scelto un mestiere che consentiva loro d’intromettersi nell’intimità dei cortonesi – per la durata d’una cerimonia o d’un ritratto in studio o d’un nudo “artistico”,…- conquistandone l’affetto, e condividendo il piacere di lasciare ricordi perenni di sé e dei concittadini, superando per immagini la caducità della vita. www.ferrucciofabilli.it

Far la balia, babysitter del passato, o andar per serva: destino di molte ragazze rurali

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Nelle famiglie numerose, bracciantili e mezzadrili, quando le bocche da sfamare erano tante e non si trovava lavoro sufficiente nel vicinato, le giovani donne avevano poca scelta sul proprio futuro,  condizionate dalla famiglia e dal padrone, se di famiglie mezzadrili. C’era il matrimonio che, però, di rado garantiva alla donna la possibilità di scegliersi un lavoro, in genere finivano ancora tra braccianti e mezzadri; oppure – fino al decennio successivo al secondo dopoguerra – le ragazze, per scelta o per obbligo, erano destinate a far le balie o le donne di servizio di gente agiata, persino a centinaia di chilometri di distanza, nelle grandi città del centro nord Italia; oppure, come usava dire onestamente, andavano per serva. Che significava essere nella totale disponibilità di un padrone e della rispettiva famiglia, per lavori domestici o rurali ventiquattro ore al giorno, senza escludere, tra gente senza scrupoli, d’essere pure sessualmente abusate da una o più persone. Con l’obbligo “d’obbedir tacendo”. Ignoro l’esistenza di studi psicologici sulla miserabile condizione delle donne rese in quella schiavitù, per scelta propria o più facilmente per scelta della famiglia naturale, anche se c’è da dire che tale occupazione poteva essere più o meno odiosa o sopportabile o finanche gradita (viste le situazioni di partenza) secondo il livello di civiltà con cui erano accolte e trattate. Tra le donne di servizio meglio considerate dalle famiglie adottive, presumo fossero le balie. Delle quali ho posto in calce a questa nota un ritratto a mezzo busto e uno intero, della stessa donna col solito bambino in braccio, ambedue negli stessi abiti. Dunque si tratta di due scatti contemporanei. Se non ricordo male, la balia era originaria della Valdesse, nei pressi di Montanare, la cui foto mi fu gentilmente prestata per la riproduzione da un parente rimasto nei luoghi d’origine. E il motivo per cui sostengo che le balie fossero ben tenute è, seppure superficiale, nell’abito elegante molto curato, con trine, veletta in testa, e l’ampio grembiale candido su cui poggia il paffuto pupo; altrettanto elegantemente vestito e con ampio copricapo. Ricordo la fierezza del mio prestatore di foto, nel mostrarmi la sua lontana parente in quella posa ben riuscita somigliante a una figura aristocratica, che trasmetteva impegno e soddisfazione al suo lavoro, meno faticoso di quello contadino da cui era fuggita. Le balie, si sa, erano di due tipi: le balie asciutte, che non allattavano, e le balie allattatrici che invece davano latte dal proprio seno. Non necessariamente le donne che prestavano ai figli di altre il proprio latte erano balie, ma, a volte, coincidevano. E qui potremmo divagare da chi le balie fossero messe incinte. In genere le donne di servizio giovani erano preferite nubili, alle quali, di norma, era impedito sposarsi presto, e non uno della famiglia datrice di lavoro; se pure, sui rapporti sessuali tra padrone di casa (o altro di famiglia) e la serva, non si menava scandalo. Poteva capitare, meglio lei che, invece, rimanesse incinta una figlia nubile della famiglia benestante…

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