Paternopoli ricorda ancora Cortona, a trentasette anni dal sismain Irpinia

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Paternopoli oggiLa distanza di Paternopoli – un migliaio di chilometri tra andata e ritorno – e il tempo trascorso – circa trentasette anni dal primo soccorso di Cortona ai terremotati Irpini – hanno reso labile l’antico legame gemellare tra le due comunità. Oltretutto, molti di quanti si conobbero in quella circostanza sono scomparsi. Tra tutti, ricordo il sindaco Angelo Caporizzo. Di quei momenti mi sono rimaste alcune amicizie. Una, con Pietro Palermo, coltivata grazie ai social network: il primo Paternese che incontrammo a Grottaminarda, dove era allestito l’ufficio informazioni sul cratere del sisma. Pietro, atletico giovanotto assessore del suo Comune, si era spinto a Grottaminarda a una settimana dal terremoto in cerca di aiuto. Il suo paese non era tra i più disastrati, anche se aveva avuto vittime, e lo stesso Pietro, per la casa inagibile, dormiva in macchina con moglie e figlia di pochi mesi. La maggior parte dei soccorsi, nel marasma iniziale, correvano a Lioni, s. Angelo dei Lombardi, Conza, Teora,… località riprese dalla televisione per le devastazioni subite. Anche se capitava che troppo materiale di soccorso venisse ammassato incautamente nei pressi di macerie. Mentre in comunità come Paternopoli nessuno si era fatto vivo, dove scarseggiavano persino generi di prima necessità, nella caos logistico generale.
In un minuto e mezzo erano stati rasi al suolo interi paesi della Campania e della Basilicata, con epicentro in Irpinia, provocando 3000 morti, 9000 feriti, 300 mila senza tetto e 150 mila abitazioni distrutte, interi paesi isolati per giorni.
Il carico di vettovaglie cortonesi, a cui si aggiunse S. Gimignano, nell’immediato fu sufficiente a dare sollievo agli stremati Paternesi. Un contatto positivo e memorabile per entrambi: soccorritori e soccorsi. Ma, qui, non interessa ricordare i tempi andati, di cui per fortuna fisicamente non restano evidenti tracce. L’intenso verde del paesaggio Irpino, e gli abitati arroccati su alture e valli ondulate, sono tornati a splendere. Le città tutte quante ristrutturate, sono circondate da una fertile agricoltura: frutteti (non dico lo spettacolo di filari di ciliegi stracarichi!), ortaggi (è ricercato il broccolo Igp di Paternopoli, presidio Slow Food), oliveti, e vigneti che producono rossi eccellenti, come l’Aglianico che invecchiando diventa Taurasi, e bianchi di antica storia come il Fiano di Avellino e il Greco di Tufo… Infatti, era per soddisfare la gola che avevo messo in agenda un pellegrinaggio enogastronomico, oltre a rivedere i pochi vecchi conoscenti: Pietro, Luigi, …, amici e compagni superstiti. Ai quali, inaspettatamente, si sono aggiunte, nel breve spazio di poche ore, nuove amicizie allertate dalla Misericordia di Paternopoli.
Mentre, nel tempo, tra Cortona e Paternopoli è andato scemando l’interesse per il gemellaggio tra le Città, ho scoperto legami vecchi e nuovi tra le due Misericordie. Giovanni Tecce, governatore della Misericordia Paternese, ha raccontato di aver conosciuto – ad Assisi all’assemblea elettiva nazionale – il governatore Cortonese Luciano Bernardini, ambedue memori del gemellaggio di una ventina di anni fa instaurato tra le rispettive Confraternite, documentato in zeppi raccoglitori di foto. Dove spiccano le candide chiome dell’allora governatore Cortonese Silvio Santiccioli e del segretario Francesco Nunziato Moré.
Nella sede della Confraternita – al cui pian terreno un giovane volontario stava allestendo il centro Fratres per donatori di sangue – ci siamo scambiati i saluti con volontari, consiglieri e amministratori, dei quali ricordo volentieri i nomi: Alvidio Zoena, Fabio Ciampi, Maria Teresa Gambinovi (vice governatrice), Veronica Vecchia (segretaria), Maria Rosa Raschiatore (amministratrice), Andrea Zugaro, Antonio Teccia, Mauro Lapio, e il responsabile sanitario Andrea Forgione, scrittore con altri di una bella guida illustrata “Irpinia la Storia negata”. Una Misericordia giovane – paragonata alla storia secolare della gemellata Cortonese – che opera nel territorio con persone e mezzi di Soccorso sanitario e di Protezione civile, intervenuta nelle alluvioni di Asti e di Quindici, nel terremoto dell’Aquila, e raccolto fondi per il recente terremoto in Centro Italia. Nella stessa sede, è gestita la distribuzione periodica per conto del Banco alimentare a 36 famiglie.
Al breve incontro è intervenuto il sindaco Giuseppe Forgione, anch’egli memore di Cortona avendola visitata da scolaro ospite delle scuole elementari Cortonesi in occasione del gemellaggio. Sindaco dal 2014, racconta di aver visto crescere la popolazione fino a cinquemila abitanti subito dopo il terremoto, dimezzatasi nel tempo, finiti gli effetti degli investimenti per la ricostruzione. Fenomeno analogo è capitato in quasi tutti i comuni Irpini. L’economia portante era, ed è rimasta, l’agricoltura: con la nascita di nuove cantine dedicate ai vini DOC che hanno buon mercato, una discreta produzione olearia di qualità, frutta, e ortaggi come il broccolo Paternese. Alle provviste da viaggiatore, ho aggiunto un’eccellente leccornia, la “sopersata”, salamino magro fatto col coscio di maiale.
Fervevano i preparativi per la festa Patronale (basta guardare “Paternesi nel mondo” su Facebook). A tutti è nota l’adesione di popolo alle manifestazioni religiose delle genti del Sud. Così come impressionano i riti legati al matrimonio, dove sono previste ben tre feste dispendiose e affollate di commensali: la serenata alla sposa, la promessa, e il matrimonio vero e proprio, che radunano decine, centinaia di amici e parenti giunti da ogni dove, finendo, ogni occasione, in pappatorie luculliane!
Ho salutato l’Irpinia visitando e pranzando a Nusco – antica sede vescovile e patria dell’immarcescibile politico Ciriaco De Mita – da cui si gode un panorama naturale spettacolare. Il gran patriarca politico non l’ho incontrato, ma della sua influenza se ne sente tuttora parlare di frequente e in ogni dove, nonostante l’età venerabile.
L’Irpinia – garantito – è una regione che varrebbe molto più di un weekend!
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L’assassino di Casalegno, tra raccondati, innocenti e farabutti. Ricordi della naia nel 225 Battaglione Fanteria di Arezzo negli “anni di piombo”

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Leggendo Andrea Casalegno, su “Domenica” de “Il Sole 24 Ore” del 21 maggio 2017, mi sono accorto dello scorrer del tempo, a quaranta anni dalla naia, riaffiorandomi incontri nell’anno trascorso nel 225 Battaglione Fanteria di Arezzo. Casalegno ricordava l’assassinio del padre, il giornalista Carlo, da un commando Brigatista, nel novembre del 1977. Durante un permesso, al commando partecipò un commilitone con cui condividevo la consuetudine di scambiare il giornale. Io leggevo L’Unità e lui La Stampa. Ambedue militari “ammessi al ritardo” per ragioni di studio. Assegnato all’infermeria, potevo procurare i giornali (uscendo con l’ambulanza), che fornivo anche al brigatista. Lui, per me, era un soldato di origini sarde, laureato in ingegneria a Torino, addetto alla cucina. Dove lavorava con tal diligenza da essere additato agli ufficiali, dal comandante Brialdi, come esempio di buon soldato. Dopo l’arresto del Brigatista, quel discorso costò a Brialdi la rimozione dal comando. Personaggio grigio. Del quale la truppa salvava solo le grazie d’una figlia, nel grigiore della caserma, unica presenza femminile intrigante.
Com’ero finito nel CAR (addestramento reclute) di truppe che, in caso di guerra, sarebbero finite in prima linea? Ero un “raccomandato di Fanfani”, come la maggior parte della prima compagnia, in cui prevalevano aretini e cortonesi. Il buon Fanfani non era il noto politico ma un dirigente ministeriale che aveva casa a Cortona. Non era necessario conoscerlo, bastavano amicizie comuni. Senza voler nulla in cambio, destinava i militari a loro piacimento. Sul Battaglione aretino, circolava la diceria che fosse “punitivo”, a causa dell’indegna fuga lungo il torrente Vingone dei soldati in presidio alla caserma Cadorna, durante la seconda guerra mondiale. Avevano abbandonato pure la bandiera del corpo. Il senso di “Battaglione punitivo” fu ben presto chiaro. A eccezione dei “raccomandati”, d’ogni estrazione sociale e ideale, molti commilitoni erano segnati da dure esperienze di vita: camorristi, pregiudicati, …, o marchiati politicamente da esperienze politiche extraparlamentari, sospetti brigatisti e di Prima Linea, o di altre sigle nell’arcipelago comunista. Compresi i militanti del PCI e della FGCI. Militanza che mi fu rinfacciata in via diretta e indiretta, anche se ritenevo la parentesi militare libera da impegni politici, non vedendo l’ora di togliermi quel dente!… Divertente fu la convocazione nell’ufficio del comandante Pecchi, che m’avviò una ramanzina: “Qui non voglio attivisti politici comunisti…” eccetera eccetera. Finito il pistolotto, mi chiese di fornirgli il siero antiofidico, salutandomi affabilmente. L’indomani andava a funghi!… In anticamera, un simpatizzante di Prima Linea m’aveva inquietato, piagnucolando timori di punizioni o trasferimenti in remote caserme. Non seppi l’esito di quella storia. Riemerse, ancora, il mio stigma politico per bocca del tenente di compagnia, al quale, come ad altri ufficiali e graduati, prestavo assistenza, fidandosi della mia esperienza paramedica. Il tenente si scusò: non poteva promuovermi caporale a causa delle simpatie politiche. Ma la carriera militare non era nelle mie mire… mentre, felice, in compenso ricevetti un congedo lungo e un premio in denaro. Ebbi pure un mese di congedo straordinario per rientrare al lavoro. Era necessario risanare le sorgenti inquinate dell’acquedotto comunale, dove intervenni. In caserma, immagino ebbi il sostegno del cortonese maresciallo Galletti, con cui non ho mai verificato quel favore, né, meritandoselo, l’ho ringraziato.
Agli inizi della naia, in camerata e nell’addestramento alle marce e alle armi, entrai in contatto con una di corte dei miracoli di burbe quasi tutte più giovani, salvo pochi commilitoni miei coetanei (ritardatari per motivi di studio) catapultati in quel girone dantesco di gavettoni, dentifrici spremuti sulle lenzuola, scherzi vari, nonnismo,… compreso un rompicoglioni, sospetto camorrista e pappone, che, farneticando ad alta voce, la notte simulava incubi guastandoci il sonno. Voleva l’esonero militare. Riuscì a spacciare sigarette e droga, e, durante le libere uscite, forniva alla truppa veneri a pagamento… Al mio compagno di branda, un timido ragazzo torinese, spiegai cos’era la bagnacauda…, a scusante, aveva la famiglia d’origini siciliane. Nella branda di fronte, Pau simpatico borgataro parlava un romanesco stretto, come i ragazzi di vita di Pasolini, un trottolino sempre pronto a fare e ricevere scherzi… Ogni tanto, gli anzianotti par mio li portavo a cena dai miei genitori, a compensare un rancio disgustoso, compreso il vino fatto di cartine che dava tremendi mal di testa. Nel grigiore delle giornate, lo svago mentale era giocare a flipper nel bar. In libera uscita, oltre a pasti ristoratori, era necessario procurarsi tascate di monetine per curare l’alienazione… Pur sobbarcando caterve di turni di vigilanza notturna – gli ufficiali medici cortonesi (Pulcinella e Tenani) tornavano a nanna dalla moglie -, la vita in infermeria era decente. Osservatorio privilegiato di furbizie: nell’inventare scuse a non marciare, a non fare servizi, a sgamare la naia,… Alla fine, sostenevo i bricconi suggerendo scuse plausibili per raggiungere i loro obiettivi. Come accadde con uno scafista napoletano, accompagnato in infermeria afasico… all’improvviso s’era ammutolito!… Fu lasciato in ambulatorio. Finchè, noi due soli, gli tornò la parola. Doveva tornare a casa. L’aspettava uno “scafo blu” per il contrabbando di sigarette, a dir suo, unica fonte di reddito familiare… Da vicino, siamo tutti uguali, delinquenti e non. La mia idea del mondo è che tutti siamo membri di una grande famiglia.
Oltre allo sconcerto, seguito all’uccisione di Casalegno, l’altro momento drammatico fu la consegna dell’intera caserma dopo il rapimento di Moro. Ricordo la mestizia dell’ufficiale medico, un democristiano con amicizie romane politiche altolocate, subito, fece intendere che Moro era difficile salvasse la vita…
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Quintilio Bruschi, ex contadino, geniale scultore creativo del legno

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Quintilio Bruschi, originario di Cignano, dimostrò genialità non avendo studiato disegno né frequentato accademie artistiche, né musei e gallerie d’arte, riconosciuto dalla critica come notevole scultore del Novecento avendo realizzato numerose opere lignee di varia grandezza.
Ex contadino, a cinquantanove anni s’alzò con l’impellente desiderio di scolpire: “altrimenti morivo”. Se n’andò a comprare cinque scalpelli, e da quel giorno dette sfogo alla nuova passione. Artista per caso. Dalla critica la sua opera fu iscritta alla categoria “art brut” (arte rozza), codificata in Francia dal pittore Jean Dubuffet nel secondo dopoguerra, in contrasto con le accademie; in Inghilterra, definita arte “outsider” dallo storico Roger Cardinal (1972): “sono grosso modo le persone che hanno fatto in modo da tenersi distanti dalle disinformazioni della cultura e che malgrado un certo debito con la folk art riescono ad esprimere uno stile personale. Sono dei portatori sani di una creatività che scorre al di fuori del mondo ufficiale e delle gallerie”. A dimostrazione del rilievo d’una simile arte innovativa viene ricordata la battuta di Picasso: “Quando ero bambino dipingevo come Michelangelo. Mi ci sono voluti anni per imparare a disegnare come un bambino”. Insomma, Quintilio, da scultore, cantava come un uccello senza aver studiato alcuno spartito.
Come tanti altri, ne visitai lo studio laboratorio sul rettilineo che da Valiano va ad Acquaviva, ricevuto da un Quintilio amichevole e gentile (m’invitò pure a cena). Già ultrasettantenne, era in buona forma fisica. Longilineo, spalle robuste lievemente ricurve, pizzetto chiaro, sguardo attento. Con un occhio lievemente più socchiuso dell’altro, in perenne movimento, puntava tra l’ospite e le sue creature lignee tirate a lucido profumate con cera d’api. Mentre le carezzava, ne ricordava la denominazione, il legno usato, il significato,…in poco tempo si era avvinti nel suo mondo fantastico.
Su quello spontaneismo artistico giunsi alla stessa conclusione di Stefano Malatesta (La Repubblica del 7 luglio 1977): le opere di Bruschi “dimostrano anche che la teoria del bambino o del selvaggio è ingannevole, perché, come a suo tempo Rousseau, le fonti [di ispirazione] ci sono e numerose, anche se irrintracciabili oggi, in quanto effimere al momento della composizione”. Quintilio alcune ispirazioni le suggeriva da solo: dalla struttura del legno: venature, nodi, dimensioni spaziali; dai volti di persone che l’avevano colpito; da figure mitiche nell’immaginario contadino e della tradizione religiosa (Cristi Madonne) ,… Nel suo tumultuoso spontaneismo, erano nati pure oggetti somiglianti a maschere e figure presenti nell’arte pre colombiana, adornate con collane ricavate concatenando piccole radici sferoidali di scopa d’erica, levigate e cerate.
Aveva il pallino della qualità e stagionatura del legno, presso un grossista delle Chianacce, che glielo invecchiava artificialmente in modo da impedire che, nel tempo, si “muovesse” e fratturasse.
Fra i numerosi acquirenti, ammiratori e promotori artistici, Quintilio ricordava con particolare simpatia il giornalista Rai Ettore Masina, al quale pare si attribuisse l’affermazione della somiglianza tra alcune sue statue e l’arte precolombiana: figure sciamaniche anche a più teste sovrapposte. Su quelle analogie, Quintilio si stava documentando su cataloghi di mostre in tema. Come a dire: ci sono arrivato per caso a scolpire come i nativi amerindi, con risultati non male. Che ti pare? Era la sua domanda per sincerarsi sulla condivisione e apprezzamento dell’ospite, in quel brulicante laboratorio di fantastiche creazioni. Misto di verosimiglianze e astrazioni (per gli estranei, perché per lui era tutta creazione verosimigliante).
Scolpiva anche superfici piatte, dalla dimensione di una formella o circolari come le basi d’un tronco d’albero, su cui incideva, fregandosene di prospettiva e proporzioni, eleganti figure femminili e maschili, maternità e soggetti mescolanze di sincretismi religiosi, superstizioni contadine e scene di vita agreste.
Quintilio aveva un fratello, Gino, anch’egli scultore del legno in stile ridotto, simili ai Moai dell’isola di Pasqua creava busti squadrati appena sgrossati; figure maschili oblunghe ornate d’un cappelluccio in testa, non calato, bensì appoggiato a formare un tutt’uno: busto, testa, cappello. Strani funghi, alti meno di mezzo metro. Gliene acquistai uno. Per Gino, raffigurava Rogo delle Chianacce.
Quintilio, in vita, ebbe numerosi riconoscimenti commerciali ed esposizioni delle sue opere, tra cui ne ricordava una nel suo comune di residenza (Montepulciano), una a Cortona, un’altra persino in Vaticano e una nei Cantieri Culturali della Zizza di Palermo (1977). Di cui resta il bel catalogo Mazzotta, curato da Alessandra Ottieri, e il resoconto sull’evento del critico Stefano Malatesta (già citato) su La Repubblica.
Alla sua morte le numerose opere residue furono spartite tra gli eredi, perciò vennero disperse.
Quindi non è possibile indicare una collezione dove poter ammirare, anche in piccola parte, l’opera di Quintilio Bruschi, che resterà per sempre il geniale artista di origini contadine cortonesi. Dall’espressività potente, fantastica, profumata di cera e di amore per la natura, l’uomo, i suoi miti e i suoi sogni. Persona umile che si è fatta grande con la creatività, di cui ognuno è portatore avendo il coraggio d’esprimerla.
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Più indizi fanno una prova: la Fornero miete vittime anche tra le nostre amicizie

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Ho molti amici e sapere, sempre più spesso, che questo o quel coetaneo se n’è andato è naturale. Infatti, secondo le statistiche OMS, la forchetta d’età tra i 55 e 65 anni è definita la “campana della morte”. Cioè, in quel range, si muore non in progressione geometrica ma con un’impennata statistica (la “campana della morte”, appunto), che dopo i 65 anni torna a progredire linearmente come prima dei 55. Però se, nel giro di pochi mesi, muoiono due coetanei, Angiolo Fanicchi e Giorgio Forchetti, sei costretto a riflettere. I due in comune avevano più cose: persone sobrie, competenti nel loro lavoro, sessantenni, di Terontola, pendolari, e un comune sentire: la rabbia (non trovo parola più adatta) di non poter ritirarsi dal lavoro pur essendosi fatti il mazzo per 40 anni. Persone comuni, non dedite a stravizi, praticavano sport: in bicicletta e sgambando. Certo, a pendolari che partono la mattina al buio e tornano a casa nel pomeriggio, tanto salutismo non è facile pretenderlo. Anzi, la combinazione tra pendolarismo, età avanzata e stanchezza – a mio avviso – hanno prodotto una miscela letale: la depressione! che spalanca le porte a ogni sorta di malattia.
Nei nostri fugaci incontri al bar della stazione a Terontola alle prime luci del giorno, senza nominarla, tornava in ballo quel cazzo di legge (Fornero) fatta a dispetto, dalla mattina alla sera, per aggiustare i conti pescando non sui privilegi di pochi ma sui diritti di molti, costringendo le persone a soffrire fino al punto di pregiudicare la propria salute e finanche la vita, com’è capitato ad Angiolo e Giorgio. Ossessionati com’erano dal vedere allontanarsi ogni giorno di più l’età libera, fino a disperare di arrivarci… E che la questione non sia di lana caprina, potersi ritirare dal lavoro a un’età avanzata, lo dimostra platealmente l’altro obbrobrio giuridico messo in campo: l’APE! In virtù del quale ci si potrebbe ritirare (ma ancora mancano i decreti attuativi!) a 63 anni dal lavoro, accendendo un mutuo a favore dell’INPS…
Insomma la questione “pensioni” si è molto ingarbugliata, prevedendo il fine lavoro a 67 anni, con poche eccezioni introdotte dall’APE per lavori usuranti o per genitori con figli portatori di gravi handicap.
La domanda sorge spontanea: non meriterebbe considerazione quale lavoro usurante qualsiasi altro non gratificante, ripetitivo, svolto da pendolari magari già in difetto di efficienza fisica, che si accresce intorno ai sessanta anni? O è giusto che il lavoro si trasformi in precoce agonia fino alla morte del lavoratore? Domande non peregrine. Anzi. La situazione minaccia di aggravarsi nel tempo. Allorché le classi di età più giovani, oggi al lavoro, saranno costrette a oltrepassare la soglia dei sessantasette anni a causa dell’allungamento dell’età pensionabile, e per colpa della riduzione graduale dei redditi da pensione.
Perché siamo in tale situazione? Per tenere in equilibrio i conti INPS. Ma non è stato il presidente INPS Boeri a dire che sarebbe indispensabile limitare pensioni a dir poco scandalose per tenere un equilibrio civile tra le massime e le minime?
Quella pensionistica è una riforma pretesa dall’Europa. Ma è vero o no che da quindici anni i tedeschi spingono gli altri a far riforme che loro non fanno? e che i loro pensionati hanno un sistema più giusto di quello italiano, sia in termini d’età pensionabile sia di reddito, distribuito con minori diseguaglianze?
Ecco che torna in ballo la responsabilità dei governanti italiani, ai quali spetta dimostrare equità e coraggio, non avendo margini espansivi di spesa e dovendo affrontare situazioni sociali pesanti e complesse, comuni a gran parte del mondo: incremento della disoccupazione e della povertà, … e, non ultime per importanza, sono peggiorate le condizioni di salute della gente: dovendo rinunciare, molti, alle cure essendo sprovvisti di denaro, e messi sotto scacco dal progredire di malattie sociali come la depressione e altre malattie mentali, quali prime cause di morte.
A quest’ultima affermazione qualcuno scrollerà il capo. Purtroppo, che le malattie mentali saranno la prima causa di morte, nel giro di pochi decenni e in tutto il mondo comprese le aree di sottosviluppo, è la OMS ad affermarlo.
Perciò il fenomeno meriterà sempre maggiore attenzione sia nel leggerne le cause sia nel trovarne i rimedi. Tema gigantesco. E’ presumibile, chiamerà in ballo i miraggi del consumismo e le ansie da inadeguatezza di risorse (economiche e mentali) per affrontare un mondo sempre più complicato e ostile a chi non si adatta velocemente ai cambiamenti. Come, in natura, spiega la legge di Darwin: sopravvivono solo i soggetti capaci di adattamento. Sempre che la politica non torni a leggere gli eventi e a tentare di governarli per il bene dell’umanità intera e non di ristrette oligarchie.

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Macron: Speranza…e illusioni in quel che resta della sinistra italiana

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L’elezione di Macron a presidente francese rappresenta uno spartiacque politico, in Francia e in Europa, per quanti ancora si dicono a sinistra. La sinistra infatti è divisa tra soddisfatti e delusi dalla virata secca verso il liberismo, senza se e senza ma, rappresentata da Macron. Prodotto di Holland – socialista (?!) che definì i proletari “i senza denti” – presidente dal più basso indice di popolarità dopo l’adozione, tramite l’allora ministro Macron, di una normativa sul lavoro, simile a quella italiana, suggerita dal “mercato”, ergo dall’alta finanza da cui Macron proviene.
Ma allora, dopo aver assistito in Francia a imponenti e durature proteste contro quella legge, com’è riuscito ad essere eletto Macron al posto d’Holland? E senza aver fatto un grande strike di voti al primo turno, anzi, con la differenza di pochi decimali tra lui e altri tre candidati presidenziali? Leggendo i numeri, si direbbe che una grossa mano gli sia venuta dall’astensionismo (un terzo degli elettori) e dalla soap opera di Macron che è piaciuta più di quella della Le Pen (è scritto sulla Repubblica di oggi). Infatti l’alto voto operaio a favore della Le Pen fa intendere che la pregiudiziale antifascista sia risultata secondaria, mentre sarebbero stati determinanti altri fattori. Per primo il favore unanime dei media per Macron, oltre al serrate le fila dei partiti che si sono barricati, per la loro sopravvivenza, dietro al candidato meno peggio dei due, convinti che il loro voto sarà necessario per tenere in vita la quinta repubblica.
Ma il dato certo è che mentre la destra a riprendere consensi potrebbe riuscirci – vista la sconfitta non catastrofica del suo squalificato candidato Fillon, ostinato a restare in gara oltre la ragionevolezza -, al contrario, la sinistra socialista di governo è precipitata ai minimi storici, salvandosi bene, invece, la cosiddetta “sinistra populista” di Mélenchon. Che, va detto, non rappresentava questo o quel partito ma un’idea di sinistra critica e risoluta verso il governo nazionale ed europeo.
Senza troppe forzature, già c’è chi paragona Renzi a Macron. Renzi, agevolato dai fuorusciti dal PD e sostenuto dai voti alle primarie delle pantere grigie (l’età media dei suoi elettori, dal Corriere della Sera, viene stimata in sessantaquattro anni), sta raggiungendo la rottamazione prefissata. Con una linea politica già definita e praticata, neoliberista, più estrema di Berlusconi, suo passato e futuro alleato, a legge elettorale proporzionale vigente che, com’è probabile, resterà invariata.
Ma ci sarà un Mélenchon italiano?
La situazione sembra piuttosto complicata. Ad oggi marciano ciascuno per conto proprio: Civati, Pisapia, Sinistra Italiana, e quelli di Art. Uno, che puntano su Speranza, “più giovane di cinque anni di Renzi”. Divisi tra loro, con lo sbarramento al proporzionale, rischierebbero quasi tutti di restar fuori dal parlamento. Che per Art. Uno sarebbe la catastrofe. Dopo aver fatto da sponda e donato sangue elettorale al rampante e, oggi, inviso Renzi. Il quale già ha annunciato che non si alleerà con la compagnia di Speranza e Bersani (Ne ha dette di balle, questa affermazione sarà vera?). Mentre costoro si prodigano a dire che l’obiettivo principale è ricostruire un centrosinistra insieme al PD, smussandone eccessi neoliberisti.
Giorni fa, qualcuno chiese al novantenne Rino Formica un parere sulla scissione del PD, lui – che di scissioni socialiste è esperto fin dal dopoguerra, da palazzo Barberini in su – s’è mostrato molto perplesso. A suo avviso, per costruire un nuovo soggetto politico credibile, c’è bisogno d’un progetto forte, che non ha Art. Uno.
Può una frammentata diaspora a sinistra dar vita a un nuovo soggetto politico credibile, non avendo quasi più le pantere grigie che han fatto la scelta di star con Renzi? E senza appeal verso i giovani orientati a movimenti critici e radicali? Ad oggi, Art. Uno, più che altro, sembra un tentativo di far riemergere figure passate anche in modo contraddittorio. Leggevo infatti in questi giorni, su Facebook, che ci sarebbe l’orgoglio di ridare fiato ad aspirazioni patrimonio storico della sinistra (non male come idea) candidando a guidare Art. Uno l’ex sindaco di Cortona, che “non è stato nemmeno comunista” – era scritto quasi con orgoglio – e non è riuscito nel suo Comune a prendere tutte le preferenze espresse dal suo partito in occasione delle elezioni regionali, questa è stata la ragione principale della sua uscita dal PD.
Se lo stesso criterio selettivo dei quadri dirigenti venisse applicato su vasta scala, sarebbe evidente l’obiettivo di Art. Uno: far riemergere personaggi politici esausti. Per di più, e peggio ancora, non ancorati, al contrario di Mélenchon, a una robusta e credibile linea politica.
Perciò, più che ragionare sugli errori di Renzi (da scappatardi, gli elettori del referendum di dicembre c’erano già arrivati!) sulla base di circostanziate analisi, si dovrebbero fornire prospettive, non solo suggerimenti di dettaglio su questo o quel provvedimento governativo. Il Governo, infatti, una linea ce l’ha: assecondare la globalizzazione acriticamente.
Forse è semplicistico, ma oggi che si tende sempre più a scrivere e parlare per schemi (populismo, antipopulismo, globalizzazione, Brexit, antieuropei, europeisti… e chi più ne ha più ne matta) meriterebbe rispondere, come suggerisce il filosofo Diego Fusaro, a una domanda: si vuol stare dalla parte dell’1% del mondo o dalla parte del 99%? E da lì aggiustare il tiro su alleanze politiche, su proposte da fare e sui provvedimenti da approvare o respingere.
Ricordiamo che nel referendum costituzionale recente, oltre il 60% della popolazione si è pronunciata contro il progetto di riforma imposta dalla finanza mondiale, dunque si tratta di una discreta fetta di elettorato pronta a recepire messaggi che vedano partiti e movimenti dalla sua parte.
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Lettere d’amore e poesie di Ada Negri dedicate al suo grande amore, raccolte in un libro di Giacomo Pellicanò

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Lo storico letterario Giacomo Pellicanò, ha tentato la difficile impresa, dopo aver raccontato per esteso in un primo libro “Ettore Patrizi. Da Montecastrilli a San Francisco” l’intensa, avvincente e, per moti aspetti, infelice storia d’amore tra Ettore Patrizi e Ada Negri, vi ritorna sopra, con un secondo libro. Riuscendo a carpire l’emozione del lettore, squadernando l’intero epistolario della poetessa nella fase cruciale della sua passione, consumatasi tra i 1892 e il 1896. Sapere già come andrà a finire la storia, anzi, “Due Vite Una Storia (Intermedia Edizioni)” – è il titolo della raccolta di lettere di Ada Negri – non toglie patos al lettore, condotto per mano da Pellicanò, a sfogliare il carteggio amoroso, con penna leggera e partecipe.
Potremmo pensare a una storia di altri tempi – essendo di poco più d’un centinaio di anni fa -: romantica, retorica, sdolcinata…un feuilleton sentimentale patetico insomma. Non voglio dire: niente di tutto ciò in questo libro. Perché le storie sentimentali han quasi tutte andamenti simili fino al finale che, in questo caso, è il disamoramento; come pure consueti sono i caratteri passionali: in cui l’amore si trasforma in folle allucinazione verso l’amato/a, continua, ossessiva, travolgente corpo e mente. Ma in questa storia c’è di più.
Ada Negri – giova ricordarlo – esordisce giovanissima e con successo con la raccolta “Fatalità”, del 1892, poco più che adolescente, facendo nascere la sua leggenda di “vergine rossa”, per aver scritto liriche improntate a libertà, eguaglianza, giustizia sociale, risvegliando coscienze proletarie, invitandole alla ribellione verso soprusi e sofferenze. Bastano pochi versi de “La sfida” per dimostrare la forza d’animo d’una ventenne ribelle: “O mondo grasso di borghesi astuti/ Di calcoli nudrito e di polpette/
Mondo di milionari ben pasciuti/ E di bimbe civette;/ O mondo di clorotiche donnine/ che vanno a messa per guardar l’amante,/ O mondo d’adulteri e di rapine/ E di speranze infrante;/ E sei tu dunque, tu, mondo bugiardo,/ Che vuoi celarmi il sol de gl’ideali,/ E sei tu dunque, tu, pigmeo codardo,/ Che vuoi tarparmi l’ali?… […]” .
La vita in un paese di campagna (Motta Visconti) dove regnava il duro lavoro dei campi, o la degradante disoccupazione, e la morte precoce del padre che costrinse la madre di Ada a impiegarsi in pesanti lavori manuali, furono circostanze e contiguità che aprirono gli occhi alla giovane maestrina: sul duro mondo del lavoro subordinato e le miserie materiali del tempo, portandola all’indignazione e all’adesione ai nascenti ideali socialisti. Ancor più alimentati dal fortuito incontro, che si trasformerà in amore, con lo studente di ingegneria Ettore Patrizi, proveniente da Montecastrilli, attivista socialista, inserito nella Milano “sovversiva” dei Costa, Turati, Kuliscioff,… e collaboratore del giornalista pacifista Moneta, unico italiano premio Nobel per la Pace.
Ettore Patrizi, oltre a condividerne i medesimi ideali umanitari, amerà Ada con gesti affettuosi, come il procurarle un lavoro da insegnante a Milano, e introducendola in ambienti culturali e giornalistici favorevoli alla cura della sua precoce fama artistica, scatenando in Ada smisurata considerazione, riconoscenza e dipendenza affettiva da Ettore. In modo tale da superare, per alcuni anni (fino al 1986), la sofferta lontananza dall’amato, che, poco dopo l’inizio del loro fidanzamento, sceglierà gli Stati Uniti come nuova destinazione senza portar con sé Ada. E’ questo periodo di lontananza, per Ada, causa di un tormentato, appassionato, immenso amore per Ettore, fino alla conclusione. Il tutto, ben documentato da Giacomo Pellicanò con poesie, anche inedite, e il fitto carteggio della poetessa (99 lettere e carte postali) che consentono al lettore di rivivere quegli struggenti momenti.
Negli anni di lontananza, Ada, sviluppando anche liriche dal tenore più intimistico degli esordi, vive nell’illusione di poter riabbracciare l’amato e costruire una famiglia, sollecitando epistolarmente Ettore a compiere il passo del ritorno, o, in alternativa, chiamandola a sé in America. Ella è disposta a ogni sacrificio, pur di realizzare il sogno d’amore. Finché l’attesa non si rivelerà vana, come descritto nella poesia “Mentre tu speri” “Mentre tu speri, e indomito/ L’onesto sguardo affisi a l’avvenire/ Mentre tu speri io soffro,/ E il gran delirio dei vent’anni e i sogni/ lentamente nel cor sento morire./ Io la struggente febbre/ Del tempo che ne incalza e ne sospinge/ Sento, e a la vita supplico/ Una sola, una sola ora di gioia,/ ma lo spazio s’oscura e si restringe./ La gioventù precipita,/ L’attimo fugge; – in lidi aspri e lontani/ tu lotti e m’ami e palpiti,/ E ridi, illuso, a le future ebbrezze,/ Ma non ritorni – e noi morrem domani.”
Il corposo carteggio non contiene solo le infinite sfumature d’un amore, ma, insieme alla trama di relazioni tra Ada e i parenti di Ettore, a Milano e Montecastrilli, documenta il fervore intellettuale e politico di Milano, epicentro culturale di una Italietta che vuol diventare grande. Anche se Ada sente più vicina la vita agreste del suo paese natio, più delle lusinghe e delle ipocrisie dei salotti metropolitani. Finchè, esausta dell’attesa, e quasi a dispetto, si sposa con uno strano ammiratore, cascando, sentimentalmente, dalla padella nella brace d’un infelice e breve matrimonio. E qui si conclude la storia.
Senonché Giacomo Pellicanò, in ultimo, lascia trasparire che avrebbe trovato nelle carte altri spunti da svelare: “Tra Ada e Ettore, in seguito calerà un fragoroso e assoluto silenzio. Caro lettore, la storia, però, non finisce qui, anzi, continua…” E, noi, se ci saranno sviluppi, saremmo curiosi di leggerli.
www.ferrucciofabilli.it

Giacomo Pellicanò 1

Carlo Roccanti presenta il libro “Tutti dormono sulla collina di Dardano” di Ferruccio Fabilli

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Cortona 21 Aprile 2017, Istituto Severini
Sono abbastanza abituato a parlare in pubblico e non mi emoziono di certo, però debbo ammettere che parlare davanti a un così bel gruppo di studenti un certo effetto me lo fa… anche perché questo doveva essere il mio “mestiere” che, ahimé, ho tradito a suo tempo. Dunque facciamo il cosiddetto “giro di tavolo” come si usa nei convegni o nei corsi di aggiornamento. Mi chiamo Carlo ROCCANTI , cortonese “doc” sono nato e vivo da sempre al Riccio, vicino a Terontola. Ho studiato anch’io tra queste mura, ai piani di sopra, al Liceo Classico come poi racconterò… Poi l’Università a Perugia e la Laurea in Lettera Classiche. Ma ancor prima che mi laureassi capitò per caso un concorso alla Cassa di Risparmio di Firenze e lo vinsi alla grande. Dato che appartengo a quella generazione che ha vissuto più o meno il mitico ’68, mi piace parafrasare la bellissima canzone di Antonello VENDITTI: “ Compagno di scuola, compagno di niente / ti sei salvato dal fumo delle barricate ? Compagno di scuola, compagno per niente / ti sei salvato o sei entrato in Banca pure tu ?” Ebbene sì, ci entrai e ci sono rimasto volentieri per tanti anni ,allora il Bancario era un privilegiato: nel 1977 venni qui alla Filiale di Cortona in Piazza Signorelli come cassiere, ultimo arrivato, e ne sono uscito nel 1993 come Direttore: una carriera un po’ all’americana… Sono fortunatamente in pensione dal 2009 e da allora mi occupo, ancor più di prima, delle cose che mi hanno sempre divertito: in particolare la poesia dialettale chianina (che ho cercato di divulgare in mille modi assieme all’amico Rolando Bietolini), la storia e la cultura locale, e il giornalismo. Un amore, quello per la carta stampata che mi porto dietro fin da ragazzo e che non accenna a diminuire, anzi… Ma veniamo all’assunto, al motivo di questo incontro. A parte qualche fugace e casuale incontro alle casse della COOP (meglio lì che…in Farmacia come dicono saggiamente i nostri vecchi), era un pezzo che non rivedevo il vecchio amico Ferruccio FABILLI. L’occasione è stata quella di una mia “Dissertazione semiseria” assieme a Sergio ANGORI e Rolando BIETOLINI presso il Centro Sociale di Terontola su un tema solo apparentemente frivolo: “Le corna nella letteratura e nella storia”. Ferruccio, che conosce bene i suoi polli, ne ha approfittato per “commissionarmi” la presentazione odierna di questo suo agile e bel libro “TUTTI DORMONO SULLA COLLINA DI DARDANO”. E’ andato a colpo sicuro perché sapeva che non potevo dirgli di no, non solo in virtù di una vecchia e solida amicizia, ma anche per tutta una serie di motivi che mi hanno stimolato. Il primo è stato il titolo del libro, anche se la foto di copertina mi ha indotto agli scongiuri di rito (vista anche la serata cui accennavo) accompagnati da qualche gesto apotropaico ben dissimulato. Eccellente l’idea di rifarsi all’”ANTOLOGIA DI SPOON RIVER” dello scrittore americano Edgar Lee MASTERS: un libro che ho letto e riletto ricavandone ogni volta nuove e diverse emozioni. Un libro che anche chi non lo ha mai letto lo conosce e ciò grazie alle immortali canzoni di Fabrizio DE ANDRE’ che lo ha letteralmente saccheggiato. In questo libro rivivono i personaggi di una “controcittà” di fantasmi in un tranquillo ed erboso cimitero del Midwest americano dove ognuno dalla sua tomba racconta la sua storia che viene fuori vera, reale, non più mascherata dal velo di ipocrisia che gli epitaffi incisi evidenziano. Un immortale atto di accusa contro lo stile di vita di un’America provinciale e puritana. Ferruccio, citando e facendo rivivere tanti personaggi come poi vedremo, ha ricreato genialmente una Spoon River cortonese appunto sulla “Collina di Dardano” .
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Ma non c’è solo questo: per quanto mi riguarda c’è anche la suggestione del luogo dove ci troviamo ora che mi ricorda tanti momenti di un periodo felice delle nostra esistenza, gli anni passati spensieratamente tra i banchi del Liceo: dopo poco sarebbe arrivata “la vita” con tutti suoi problemi. E la suggestione del luogo mi lega ancor di più al ricordo di Ferruccio Fabilli, mio compagno di banco in quel Liceo. Ho ricordato di recente quei momenti e quei “personaggi” in un mio articolo sul periodico del Centro Sociale di Terontola di cui sono in pratica Direttore, Redattore, Impaginatore, fotografo e via dicendo e che è giunto al n. 103: una triste occasione perché facevo l’epitaffio funebre di un coetaneo grande amico del nostro gruppo Angiolino FANICCHI. E in quell’occasione ha ricordato i vecchi amici, citandoli per nome ed anche per…soprannome: Augusto CAUCHI (il “Godzillo”), Moreno BIANCHI (“ Denoide”), Umberto SANTICCIOLI (“Zanzara”), lo stesso Angiolo FANICCHI (“Facchetti” per motivi…calcistici). Lo sapete come chiamavamo Ferruccio ? Sicuramente il soprannome l’avrò inventato io (ero geniale per queste cose): lo chiamavamo “Puzzo”. No, non pensate male…la cosa non era dovuta a motivi igienici, bensì a motivazioni di alta filosofia di vita. Infatti, capiterà anche a voi, quando ci intrecciavamo su discussioni infinite senza mai giungere ad una conclusione accettabile, la parola finale la metteva Ferruccio ed era immancabilmente: “ Ma perché ve la prendete ? Tanto è tutto…puzzo !” Pur giovanissimo, Ferruccio aveva già maturato una sua filosofia di vita da adulto, già sapeva dare alle cose il suo giusto valore ed era intimamente fedele alla poesia (“Tormentone” come si direbbe oggi) di San Filippo NERI (1515-1595) di cui cito solo la prima strofa (le altre ne ricalcano il concetto): “Se vivessi mille anni / nella gioia e senza affanni / ma alla morte che sarà ? /ogni cosa è vanità !” Forse era il ricordo inconscio di qualche buon insegnamento ricevuto nel breve periodo delle Scuole Medie che Ferruccio trascorse in Seminario. Il Seminario poteva essere l’incipit di una bella carriera stroncata però sul nascere : chissà, oggi sarebbe arrivato alla porpora cardinalizia in attesa di un ulteriore…scatto. Ma forse no: anche di quella avrebbe detto che…è tutto “puzzo”. Da una “chiesa” Ferruccio passò all’altra (a quei tempi contrapposta): lo attrasse il vecchio P.C.I. (che, badate bene, per moralità, correttezza e impegno nulla ha che vedere con l’attuale P.D.) dove fece “carriera” divenendo anche Sindaco di Cortona nel quinquennio 1980/85 e, se lo fosse stato nel precedente quinquennio, avrebbe trovato anche me in Consiglio, però nei banchi dell’opposizione. Rivestì anche le cariche di Consigliere e Assessore Provinciale, ma preferì non andare troppo oltre in tale ambito: restava legato ad una concezione “Berlingueriana” del partito e si stava accorgendo già allora che di roba del genere non ce ne era più in giro… Anche lui come me, che militavo nella vecchia Democrazia Cristiana, credo che ormai non si riconosca più in quello che è divenuta attualmente la politica: eccoci qua, due “reduci” che si leccano le ferite di antiche ed epiche battaglie . Invece allora ci credevamo: i nostri genitori avevano passato i burrascosi anni della guerra e ce lo ricordavano sempre, poi l’ideologia imperversava. Eravamo la generazione del ’68, quella degli scontri, delle accanite assemblee scolastiche… Ma una volta tolta quella “maschera” che doverosamente eravamo tenuti a portare, tornavamo gli amici e i goliardi di sempre. Non so se a livello didattico esistono ancora, ma allora imperversano i “Gruppi di studio” ed il migliore era senza ombra di dubbio il nostro. Vi leggo la formazione: il sottoscritto Carlo ROCCANTI (politicamente DC), Mario STOLZOLI (gruppettaro di sinistra), Augusto CAUCHI (extraparlamentare di estrema destra), Ferruccio FABILLI ( come me più… “inquadrato” ed allora organico al PCI).
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Le riunioni erano favolose con discussioni e bischerate che duravano ore, poi alla fine la solita domanda: “ Oh ragazzi, sveglia che c’è da fare la relazione !” E la conclusione era immancabilmente la stessa: “Dai, Carlo, pensaci tu…” E così succedeva ogni volta, ed ogni volta era il consueto… successone ! Lo fate di certo anche voi, non dite di no!, studiavamo le strategie per le interrogazioni e prendevamo in giro i nostri Professori: uno di questi è il mitico Preside Prof. Oreste COZZI-LEPRI di cui Ferruccio traccia un acuto ritratto che tra poco vi leggerò ben volentieri. Ma tornando alla prima “chiesa” di Ferruccio, una qualche prerogativa del “Prete” gli è sempre rimasta, ma in senso positivo, badate bene. Il “Prete” inteso come terminale e archivio vivente della cultura e della storia di una comunità, inteso come persona attenta e curiosa che inquadra la sua gente e della sua gente ricorda “vita, morte e miracoli”. E’ da questa immensa curiosità, oltre che dalle indispensabili e innate capacità tecniche, che nasce il Ferruccio FABILLI scrittore. Ricordo che fin dai tempi del Liceo aveva il pallino della Medicina: tentò quella strada, ma poi si limitò a fare l’infermiere professionale tenendo sempre d’occhio gli studi, anche se in direzione diversa. Dall’ampliamento della sua tesi di Laurea in Lettere e Scienze Politiche derivò la sua pubblicazione fondamentale del 1992: il ponderoso saggio storico “ I MEZZADRI” –LAVORO, CONFLITTI SOCIALI,TRASFORMAZIONI ECONOMICHE, POLITICHE E CULTURALI A CORTONA DAL 1900 AD OGGI”. Ed.Calosci per la CGIL in 1500 copie, ne possiedo una donatami da Ferruccio con tanto di dedica: la prima parte è una inesauribile fonte di notizie e riscontri storici sul mondo della nostra incredibile “Civiltà Contadina” e sui conflitti sociali che le sono girati attorno. Ma di questo libro io ho apprezzato particolarmente la seconda parte: quella con le interviste e le biografie. Un genere dal quale Ferruccio non riesce a staccarsi, dando in tale ambito il meglio di sé. Sa far rivivere i personaggi, li sa mettere nella giusta luce e questo suo lavoro continua imperterrito ancor oggi sul Periodico “L’ETRURIA” nell’ambito della seguitissima rubrica “GENTE DI CORTONA”. Non sto a tediarvi con i titoli delle molteplici pubblicazioni di Ferruccio perché se andate sul suo “sito” ci trovate tutto. Mi piace citare però due sue recenti “fatiche” che mi hanno particolarmente colpito. La prima è la ricostruzione di un delitto passionale tra coetanei ventenni del cortonese: il famoso “Delitto Gorgai” che tanto ci appassionò all’epoca anche in virtù dell’ipotesi, ben presto smontata, che si dovesse trattare di un delitto a sfondo politico. Si tratta di “FALCE E COLTELLO-DIARIO DI UN OMICIDIO-AMORI E POLITICA NEGLI ANNI DI PIOMBO”, una splendida ricostruzione nata, come ci ricorda l’autore, su sollecitazione del giornalista Michele LUPETTI. Ferruccio torna su queste tematiche degli “anni di piombo” con una delle sue ultime fatiche letterarie: “IL NERO DELL’OBLIO, DELLA VIOLENZA E DELLA RAGIONE DI STATO”. Una specie di intervista sollecitata dal vecchio compagno di scuola Augusto CAUCHI assieme a Luciano FRANCI (entrambi neofascisti aretini coinvolti in attività terroristiche nei torbidi anni ’70). Ho condiviso pienamente l’originale approccio all’argomento e la totale mancanza di pregiudizi: fatto ancor più apprezzabile, considerata la vecchia “fede” comunista di Ferruccio. Si perché Ferruccio è riuscito a scrollarsi di dosso le vecchie incrostazioni politiche che a volte ci impediscono di vedere le cose nella loro piena obiettività. Sperando di non avervi annoiato, vengo ora all’assunto dell’odierno incontro. Ho prima accennato alla rubrica che Ferruccio tiene per L’ETRURIA: il taglio “giornalistico” che giocoforza Ferruccio ha dovuto dare alla sua narrazione ha finito per “tarpagli le ali” nell’impianto di questo suo libro.
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Infatti ci sono personaggi che meriterebbero ben più del ristretto confine delle “due cartelle” (anche se spesso e volentieri…sfora). Il libro è un caleidoscopio di personaggi di ogni censo e specie: piccoli tasselli che, sapientemente intersecati l’uno all’altro, riescono a darci un’immagine vera di Cortona e della sua gente. Si tratta di personaggi che anch’io ho conosciuto in gran parte causa…l’età e che riesco ad apprezzare pienamente proprio per questo, cosa diversa da voi che non li avete conosciuti e lo capisco bene…Tornando all’ “ANTOLOGIA DI SPOON RIVER” , anche questi personaggi sono ormai tutti celati da una lapide o sotto un metro e mezzo di terra al Cimitero sulla collina di Dardano. Ridotti, per chi ci crede, a puro spirito: essenza volatile di una vita che rivive negli scritti di Ferruccio nella sua piena e greve carnalità. Aspetto questo che risalta in tutti loro evidenziando una stagione, a voi sconosciuta o quasi, dove erano questi i veri bisogni primari: si usciva da una guerra fatta di distruzioni immani, sia materiali che morali, ed ora bisognava ricostruire le case, le strutture produttive ed anche…i rapporti umani. Era un periodo difficile quando era a volte complicato coniugare il pranzo con la cena. Da qui le aspirazioni massime: la bella tavolata, il buon cibo, il vino che scorreva a fiumi e, perché no ?, le donne. Si, in molti di questi personaggi la donna è una specie di pallino fisso, la bussola che ha indicato la rotta sicura fino all’ultima stilla di vita. Cito per questo la parte finale di un personaggio “RENZO IL BECCAIO” (pag. 64): …”per fortuna e per il buon carattere, seppe coniugare amicizie, affetti parentali e avventure galanti senza finire in scandali, in guai, nelle insoddisfazioni e nelle delusioni in cui incappano comuni mortali dediti a qualche scappatella, non solo i libertini. Anche se costoro, vivendo licenziosamente, a maggior ragione, mettono in conto qualche dispiacere o disavventura. Perlomeno, questo racconta la letteratura al riguardo. Così come fu splendido il bilancio felice della lunga vita di Renzo: “…io mi sono divertito tanto !” che non è fortuna da tutti. “ Anche il lessico di Ferruccio, di solito misurato e finemente ironico, si adegua spesso a queste grevi forzature gergali che però non stonano inserite nel contesto di questi personaggi. Sono espressioni incollate alla loro pelle che non vivrebbero senza di loro e…viceversa. Ognuno scrive delle cose che conosce a fondo, del mondo e degli ambienti in cui ha potuto contattare queste persone. All’opposto di me, Ferruccio ha vissuto in ambienti di “sinistra” quando le categorie novecentesche di “Destra” e “Sinistra” avevano ancora un senso, diversamente da oggi. E pertanto c’è questo “fil rouge” che lega la maggior parte dei personaggi di Ferruccio. In tutto questo leggo però il rimpianto e la nostalgia di quel mondo “eroico” che ormai da un pezzo non c’è più e che per Ferruccio porta un preciso punto di rottura: la scomparsa di Enrico BERLINGUER, un politico che anch’io ho sempre stimato (pur essendo lontano anni luce da quella ideologia) e che resta un “gigante” se messo a confronto con gli odierni politici di quell’area. Ferruccio ama, come me del resto, anche la fotografia: fotografare vuol dire in qualche modo fermare il mondo, cristallizzarlo in un’immagine mentre la vita e tutto il resto prosegue nella sua corsa. Da qui il valore di questa pubblicazione: ci mostra uno spaccato di vita che è già sfocata e della quale, prima ancora di quello che si possa pensare, il ricordo potrebbe svanire del tutto. Il bello di questo libro è, come dice Ferruccio, che è palindromo: lo si può leggere compiutamente partendo a scelta dall’inizio o dalla fine, sfogliandone a piacimento i personaggi come i petali di un bel fiore.

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Ma prima di passare alla doverosa lettura di alcuni brani, non posso fare a meno di citare testualmente quanto Ferruccio FABILLI scrive nella “postfazione del libro”, un brano che ci fa capire il succo di questa sua fatica letteraria. Scrive Ferruccio: “ Il ventaglio umano del passato impresso nel mio immaginario, sottoposto a un’operazione affettiva e liberatoria, ha provocato il riaffiorare, allo stesso tempo, di tipi “anonimi” insieme a quanti appartennero alla “mitologia” popolare, nel territorio dell’antica cittadina. Espressioni degli infiniti percorsi di vita: nobili, popolani, artisti, intellettuali, perdigiorno, contadini, ubriaconi, preti…iscritti nel mosaico antropologico della Città e del suo vasto territorio, finché si son dispersi nel nulla, accomunati dallo stesso destino. E nessuno è stato solo com’è parso: saggio, pazzo onesto, sincero, bugiardo…come pure-chiosando Pirandello-finiremo tutti per lasciare uno, nessuno, centomila ricordi di noi “.

Passando alla lettura di qualche brano, considerato il luogo non posso che partire da Oreste COZZI-LEPRI, Preside e Insegnante di Storia e Filosofia (pag.110). Nel tracciare il personaggio e la sua particolare “didattica”, Ferruccio ricorda che le sue scarne lezioni finivano sintetizzate in un “mitico” quaderno in auge da decenni e che ogni anno perdeva qualche pagina. Ferruccio lo ha perso: io invece no e lo conservo gelosamente ai piani alti di una delle mie tante librerie. Il “quaderno” era la base imprescindibile per le sue interrogazioni. Io non lo compresi subito e mi presentai alla prima interrogazione forte di approfonditi studi sul libro di testo: interrogazione tecnicamente perfetta e approfondita, ma rimediai un modesto 6 e mezzo: “benino – mi disse – ma occorre individuare il succo delle cose”. Compresi però la lezione. Con un decimo della fatica mi “abbeverai” al “testo sacro”, al “quaderno” e da allora in poi fu sempre 8, immancabilmente. Eppure, quando agli esami di maturità potevamo scegliere una materia per gli orali, fui il solo in tutto il Liceo a portare “Filosofia”. Oreste faceva parte della commissione di esami come “membro interno” e quando mi trovai in difficoltà in una risposta, non so se fui io a interpretare male il suggerimento o lui a darlo sbagliato, la padellai. Ma seppi poi riprendermi alla grande (per lo studio ero andato naturalmente ben oltre il mitico “quaderno”) e fui gratificato alla fine con 60/60, unico “maschietto” oltre a tre colleghe del “gentil sesso”.

Altro personaggio che ho conosciuto per motivi di “lavoro” in quanto la Cassa di Risparmio di Firenze gestiva il Servizio di Cassa e Tesoreria dell’ Ospedale di Cortona è Angiolo SALVICCHI detto “Scadaglio” (Pag. 65)

Poi, per fare anche un breve ripasso di storia locale del primo dopoguerra, è impossibile non citare Alessandro FERRETTI, “ALESSANDRO, conte, sindaco e contadino” (Pag. 15)

Poi, per ricordare qualche significativo spaccato di vita del “Ventennio Fascista”, mi piace ricordare Guido CALOSCI “una vita immersa nell’odore di inchiostro” (Pag. 106) anche in onore del figlio Giuseppe e del nipote Gaetano con i quali sono in continuo contatto per la stampa del giornale.

Ed infine Mario CHERUBINI “Mario guardia del Papa”, padre di Lorenzo “JOVANOTTI” (pag. 77)

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Vero Mearini barista d’una gioventù bruciata, da passioni politiche e sessuali, in ozio burlesco

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Qualcuno indica nei bar del dopoguerra l’equivalente odierno dei social network, con più tempo a disposizione per i maschietti; le donne vi apparivano più volentieri in orario diurno, fino agli anni Sessanta. Soprattutto in certi bar e in ore serali, ritrovi di chiassose combriccole di giocatori a carte e biliardo, in ambienti fumosi e un tantino etilisti. L’emancipazione femminile è passata pure dal bar, insomma. I bar degli anni Sessanta e Settanta erano meno numerosi d’oggi nel nostro Comune. In seguito aumentati, specie nelle frazioni maggiori. Ma, in rapporto alla popolazione residente, a Cortona l’incremento è stato assai più vistoso, in funzione turistica.
I bar cittadini, all’incirca, avevano il loro pubblico particolare, a partire dai vicini residenti. Il bar dello Sport, la Posta Vecchia, il Signorelli, frequentati da dipendenti pubblici, bancari, postali, ospedalieri, e da cricche cementate dalla simpatia coi titolari, e dal turismo in crescita. Poi venne la moda della terrazza di Tonino, luogo di “acchiappi” estivi, vicino al bar di Enrico, sulla scesa di via Severini.
Il Circolo Operaio e il Benedetti avevano orari e pubblici propri di affezionati biscazzieri. All’Operaio, ritrovo frequentato e popolare, si giocava a carte e biliardo e si masticavano opinioni politiche e sindacali in prevalenza orientate a sinistra. Al Benedetti, più elitario e politicamente con simpatie più orientate al centro e a destra, le poste in gioco a carte erano a volte piuttosto alte, finanche case e terreni! – dai racconti frammentari del prof. Oreste Cozzi Lepri assiduo del Circolo. Il cui pubblico salace, è bene abbozzato da un episodio che pare attinto da Boccaccio: un giovane socio si presentò raggiante al Circolo annunciando le nozze imminenti. Dopo aver risposto alla domanda: “Con chi ti sposi?” i presenti, fregandosi le mani, esultarono: “Ah bene!… Così non andremo più al casino!” L’ignaro sventurato non aveva scelto una moglie dalle virtù specchiate…
In Ruga Piana c’erano gli specialisti pasticceri: il bar del maestro Emilio Banchelli a cui poi si aggiunse quello del Marconi.
Pur non vivendo in città, capitavo al bar di Vero, sulla ripida via Guelfa a poche decine di metri da piazza del Comune, ritrovo di alcuni compagni di liceo, Augusto Cauchi in testa, tra i più folcloristici e inquieti avventori.
Con la moglie Settimia (se non ricordo male il nome) e il figlio Marcello, Vero Mearini era il simpatico titolare del bar. Un po’ angusto. Due localini, in cui si giocava a carte e boccette e si tenevano accese dispute politiche tra appartenenti a opposte fazioni, che non di rado degeneravano in risse verbali, ma con soddisfazione dei contendenti che non aspettavano altro che ripetere quegli scazzi verbali. Un modo estroverso per carpirsi opinioni e mosse politiche tra fazioni in lizza.
Vero, magrolino, spiritoso padrone di casa, volentieri s’intrometteva nelle discussioni che si protraevano fino a notte fonda, tra un pubblico, spesso il solito, in cui a ognuno erano note le idee altrui. Perciò bastava un nonnulla per accendere la miccia di accese dispute polemiche, traendo spunto da fatti e vicende capitate a questo o a quell’avventore, o avendo a pretesto recenti prese di posizioni politiche di questo o quel partito. Le più infuocate e divertenti polemiche scoppiavano tra coloriture politiche avverse: simpatizzanti comunisti e fascisti, all’epoca numerosi e agguerriti; anche per il solo gusto di metter taluno in minoranza o in difficoltà dialettiche. Litiganti che, nel passare del tempo, hanno pure tessuto solide amicizie durature.
Il bar di Vero, palestra di dispute, era una specie di brutta copia del Giardino epicureo: giardino, significando in senso etimologico recinto murato, avrebbe retto la somiglianza fisica, sul versante filosofico non c’era perfetta affinità, nello stile e nella mescolanza degli adepti. A suo modo però luogo di formazione, strampalato quanto vuoi, dove i più sfacciati trovavano libertà d’espressione senza remore… al massimo si beccavano un vaffanculo o un’offesa! Che non ferivano più di tanto, se, l’indomani, era facile ricominciasse daccapo la medesima tiritera tra gli stessi.
E, come in ogni bar più o meno malfamato, tra gli argomenti in voga c’era pure la “topa”, nelle sue ricche varianti lessicali. Giudizi liberi su bellezze e virtù femminili, e su chi tra gli astanti fosse più abile nell’arte amatoria; venendo fuori una specie di tacita classifica tra volponi, mezze volpi, e chi non acchiappava neanche una passera da ferma! Insomma, a puntate, un visitatore di quel bar avrebbe potuto capire la storia la geografia e la filosofia dell’acchiappo femminile di quella gioventù bruciata (a parole) da passioni amatorie. Senza escludere l’esercizio più facile dell’ars amandi in alcove prezzolate, disseminate tra case private di hobbiste concupiscenti, alberghetti compiacenti, o nei pressi di raccordi stradali siti di notturni puttantour.
Quegli avventori zuzzurelloni erano capaci pure di scherzi più o meno tremendi. Di cui fu vittima lo stesso Vero. Una volta scoperto il portone dove spesso finiva la notte, che non era casa sua, dunque era chiara la scappatella, in qualche modo gli fu bloccata l’uscita dal portone. Dietro il quale, rinserrato, fu lasciato penare il povero smoccolante Vero. Non so quanto a lungo, ma tanto da montar una bella incazzatura.
Poi venne la moda dell’aiutino alla vigoria maschile, ma i più si vergognavano di andare in farmacia a ritirare personalmente il farmaco portentoso, con prescrizione medica a proprio nome e cognome. Allora, che si studiò? Complice Marcello, che nel frattempo si era impiegato come infermiere all’ospedale, iniziò un’impressionante serie di prescrizioni mediche del farmaco portentoso intestate a Vero. Così, in quel periodo, Vero divenne il maggiore consumatore (sulla carta) di Viagra, e, dunque, tra i maggiori sessuomani cortonesi… a sua insaputa.
www.ferrucciofabilli.it

Le corna nella letteratura e nella storia – di Rolando Bietolini e Carlo Roccanti

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Il testo che segue è la traduzione in commedia di una accurata ricerca storico-letteraria in tema di CORNA svolta con ammirevole cura da due letterati contemporanei: Rolando Bietolini appassionato di letteratura erotica (avendo già prodotto una gustosa trilogia “La cosa” “Il coso” e “L’arte del pompino”) e Carlo Roccanti poeta vernacolare in chianaiolo. A loro si è aggiunto, nella recitazione dal vivo, Sergio Angori, già docente universitario di Pedagogia, cui corrisponde la S dei dialoghi. Ovvio R  è Rolando e C Carlo. Questo testo definitivo è stato recitato presso la Università della Terza Età di Terontola. Buon divertimento! -. Ferruccio Fabilli

Saluto dell’Organizzazione

Attimi di silenzio con Carlo e Rolando che si massaggiano la fronte, poi:

R.
Cara, ho paura che mio marito sia molto malato.
C.
Per carità, fai le corna.
R.
Oh! Fosse per quello, non avrebbe neanche un raffreddore.
C.
Da una statistica risulta che il 50% degli italiani ha una relazione extraconiugale.
R.
Sai cosa significa?
C.
Che, se non ce l’hai tu, allora ce l’ha tua moglie, la… relazione. È la statistica!
R.
Mio marito è un buono a nulla. Se non ci fossi io non sarebbe neanche capace a essere cornuto.
C.
Se uno ti porta via la moglie, non c’è miglior vendetta che… lasciargliela.
R.
Ma ora, basta; a te, Sergio, l’onore dell’introduzione.
C.
Oh, oh…Non cominciamo con i doppi sensi, io direi di definirla Premessa, sarà meglio.
S.
Sarà una breve… Premessa. Ridere – è cosa risaputa – fa bene alla salute, aiuta a vivere sereni, solleva l’umore, allontana l’ansia e lo stress.
La questione che tratteremo nella nostra “dissertazione semiseria”, in verità molto poco seria, come accennato è tutt’altro che da considerare una cosuccia: è un fatto incontrovertibile che, a cominciare dalla mitologia greca, la nostra storia brulichi di tradimenti coniugali.
Al di là del desiderio di condividere con voi il piacere di trascorrere un’ora dimenticando i tanti affanni che ci assillano, preme sottolineare che la preparazione di questa “dissertazione” è stata preceduta da un lungo lavoro, serio – questo sì -, approfondito, documentato scientificamente, condotto con grande scrupolo in larghissima misura dal prof. Rolando Bietolini, bibliofilo di vaglia, apprezzato studioso ed esperto del settore, che ha setacciato la letteratura di tutti i tempi e anche di diverse culture alla ricerca di opere dedicate all’argomento.

Il lavoro di selezione e di analisi da lui svolto si è arricchito del prezioso contributo del dott. Carlo Roccanti – ringrazio entrambi, fin d’ora, con riconoscenza e con molto affetto – per la “messa in scena” di questa “cosa” che vogliamo proporvi.
Gli ingredienti di cui essa è fatta sono pochi ma, vi assicuro, di… qualità: storia, letteratura, costume, arte, corna di ieri e corna di oggi, cornuti di paesi lontani e, naturalmente, anche di Cortona, ma… ma… della Cortona del tempo che fu.
Ed allora partiamo da un fatto di corna accaduto proprio nella nostra città nel lontano luglio 1766 che Bernardino Cecchetti (un prete pettegolo, con la lingua di Perpetua, come ha detto qualcuno) racconta nelle sue “Cronache cortonesi”, una specie di diario in cui egli annota, per circa cinquant’anni, tutto quello che quotidianamente accade in Cortona, ove vive (viveva) una donna sposata, una certa Mencacchiona, piuttosto chiacchierata a motivo della sua condotta non proprio irreprensibile
R.
La nostra Mencacchiona, portata via dal famoso Gioacchini era stata denunciata dal marito al tribunale (per abbandono del tetto coniugale, si direbbe oggi) e lui era stato denunciato per ratto. Il di lei marito, sapendo che essa era alla osteria di Monte Calandro con il suo Gioacchini,
C.
Ma questa, allora, è roba di Terontola…Oh, non c’è niente da fare… per certe cose si va a finire sempre tra le frasche, da quelle parti!!
R.
(il marito della Mencacchiona dunque) se ne andò lesto lesto a vederla e appena arrivato (i due amanti) gli si presentarono con garbo dicendogli che scusasse di tale affronto ma non vi era stato nulla di male, anzi tutto era riuscito in bene per l’anime loro perché lui l’aveva condotta alla Madonna del Loreto e avevano pregato anco per la salute del di lei marito.
C.
Il buono uomo (il marito) non solo gli perdonò, ma restò loro obbligato e intanto ricondusse la moglie in Cortona. Il Tribunale, però, non intese storie e fece carcerare la detta Mencacchiona. Il giorno dopo il predetto Gioacchini, forse per spiegare i buoni propositi fatti nello spirituale viaggio della Santa Casa di Loreto, venne a Cortona ma sentendo che la donna era stata carcerata si ritirò, per paura, in casa del marito di lei in S. Sebastiano, ed ivi mangiarono insieme, essendo ormai fatti amici sviscerati.
R.
Esempio perfetto di “becco e contento”!!
S.
Le corna, si sa, hanno sempre suscitato ilarità ma non se ne comprende il vero motivo, essendo – almeno per sentito dire – una delle cose più fastidiose e “pesanti” che un uomo o una donna debbano portare. Ovviamente per rientrare nella “Corporazione dei Cornuti” bisogna per prima cosa aver contratto matrimonio. Fatto ciò, non resta che attendere: la sorte prima o poi è generalmente benigna.
C.
Questa strana “malattia coniugale” che colpisce gli adulti di sesso maschile, ma non solo loro, non ha purtroppo alcun antidoto: nemmeno un grande e saggio imperatore filosofo, come Marco Aurelio, fu in grado di esserne immune (altri imperatori notoriamente “cornuti”, come risulta dall’opera di Svetonio (70-140 d. C.) De vita Caesarum, furono Adriano, a causa di Sabina, e Claudio, marito di Messalina, considerata ancor oggi, e son passati 2000 anni, una poco di buono).
A chi lo spingeva a punire severamente l’infedeltà della moglie Faustina, Marco Aurelio rispose, con stoica saggezza, non esservi alcuna medicina per questo “male”.
R.
Dovete sapere, in proposito, che Faustina aveva seguito il marito imperatore in ben due spedizioni di guerra, ricevendo il titolo di “mater castrorum”, ossia di “madre degli accampamenti militari”, meglio si sarebbe però dovuto dire: “di amante di tutti i soldati degli accampamenti romani”. Edward Gibbon, storico inglese, nel suo testo “Storia e decadenza dell’impero romano”, dà credito a tali maldicenze e scrive: “Faustina non è meno famosa per le sue disonestà che per la sua bellezza”.
S.
Della donna della Roma antica – della matrona come si chiamava allora – si è a lungo celebrata la dedizione alla casa e alla cura dei figli (diversamente dalle donne etrusche, considerate più frivole), ma nella società romana dell’età imperiale le cose cambiano: le donne sono ormai più colte, più intraprendenti, possono disporre del proprio patrimonio avuto in dote, dispongono di maggiore libertà e così arrivano i vizi, tra cui l’infedeltà.
E di questo decadimento dei costumi, in tono comico-satirico, si dolgono, nei loro versi, sia Giovenale che Marziale, entrambi vissuti tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C.
Giovenale, nella sesta Satira, che si intitola Contro le donne, mette in allerta tutti gli uomini che intendano sposarsi sulle conseguenze del matrimonio e scrive:
R.
Valle a capire le donne!
Se per caso si trovano in pericolo
per un motivo serio, eccole lì
gelide di paura, con le gambe
che non le reggono, pronte a svenire;
ma con quale coraggio invece affrontano
i rischi nelle più turpi avventure!
Se l’ordina il marito, ahi che fatica
imbarcarsi: la stiva come puzza,
il cielo come gira sulla testa…
Se sono invece con l’amante,
tutto funziona a meraviglia, testa e stomaco.
Col marito rigettano, con l’altro
mangiano allegre insieme ai marinai,
corrono per il ponte, si divertono
a maneggiare…quei duri cordami.
S.
E più oltre:

C.
Vi sento, vecchi amici miei, da un pezzo
predicarmi: “Chiudila a catenaccio,
non falla uscire!”. Ma chi guarderà poi
le guardie? E’ a loro che una moglie furba
in primo luogo penserà.
S.
E Marziale così denuncia i vizi del tempo, tra cui l’infedeltà coniugale. Tra i suoi pochi epigrammi leggibili in questa sala, ascoltiamo quello scritto in onore del ricco Candido:

R.
Soltanto tuoi sono i poderi, o Candido, soltanto tuoi i denari,
soltanto tuoi i vasi d’oro e di mirra,
soltanto tue le anfore di vino massico,
e soltanto tuo il senno, e soltanto tuo l’ingegno.
Soltanto tue sono tutte queste cose: né credere ch’io voglia negarlo!
ma la moglie, Candido mio, l’hai in comune con tutti.

S.
Nonché l’epigramma dedicato ad un cornuto pacifico
C.
Chi è, Mariano, cotesto ricciutello,
che sempre alla tua sposa sta attaccato?
Chi è cotesto ricciutello,
che sussurra all’orecchio delicato
di tua moglie non so che parole
e appoggia sulla sedia
il suo gomito destro?
Non mi rispondi nulla?

R.
– Egli sbriga gli affari di mia moglie! Eh sì, davvero è un uomo di fiducia.
C.
Sbriga gli affari di tua moglie?
Proprio quel ricciutello buono a nulla?
Costui non di tua moglie, o Mariano,
gli affari fa, ma fa gli affari tuoi.
S.
Ancora dalla letteratura latina vi proponiamo una pagina del IX libro delle Metamorfosi di Apuleio (scrittore del II sec. d.C.). L’opera, conosciuta anche come L’asino d’oro, è un romanzo in cui Lucio, il protagonista, è stato trasformato in asino e vive diverse peripezie prima di poter tornare ad essere un uomo. Quest’asino, che mantiene il raziocinio umano, nel suo peregrinare assiste a diversi fatti, compreso vari tradimenti coniugali.
Dopo aver toccati parecchi cascinali e villaggi – dice l’asino – ci fermammo a un paese e nella locanda dove prendemmo alloggio, ci fu riferita la storiella spassosa di un poveruomo, fatto cornuto, che ora voglio raccontare anche a voi.

C.
Dunque, quest’uomo che lavorava da fabbro faceva la miseria nera e, con quel che guadagnava, appena appena riusciva a vivere. Anche sua moglie, come lui, non aveva il becco d’un quattrino ma, in compenso, era libidinosa al massimo, e tutti lo sapevano.
Un giorno, di buon’ora, appena il marito se ne uscì per andare al lavoro, subito un amante, con estrema sfacciataggine, s’infilò in casa. Ma ecco che mentre i due s’azzuffavano alla bell’e meglio sul letto, l’ignaro marito, senza sospettare di nulla, tornò sui suoi passi e, trovando la porta chiusa e sprangata, fra sé compiacendosi dell’onestà della moglie, picchiò all’uscio e le dette anche un fischio per farsi riconoscere.
La moglie, furba e pratica in imbrogli di questo genere, si staccò dall’uomo che teneva stretto fra le braccia e, come se niente fosse, lo nascose in una botte vuota, seminterrata in un angolo; poi, aperta la porta, aggredì il marito che ancora nemmeno era entrato:
R.
«Ah, è così? Ora mi vai anche a spasso, con le mani in tasca, come uno sfaccendato buono a nulla. Perché non sei andato a lavorare? Alla famiglia non ci pensi, no? Cos’è che mangeremo oggi? E io, disgraziata, che me ne sto notte e giorno a rompermi le braccia filando lana perché in questa stanzetta almeno ci sia accesa la lampada. Guarda Dafne, quella qui vicino invece, com’è più fortunata di me: mangia e beve da prima mattina e si rivoltola nel letto ora con uno ora con un altro».
S.
E il marito, dopo una simile strapazzata:
C.
«Ma che ti prende? Il padrone aveva una causa in tribunale e ci ha fatto far festa. Però io ci ho pensato lo stesso alla nostra cenetta. La vedi quella botte? Sempre vuota, occupa tanto spazio per nulla, anzi sempre lì tra i piedi è più un impiccio che altro. Ebbene, l’ho venduta a un tale per sei denari; tra poco sarà qui con i quattrini e se la porterà via. Perciò dammi una mano a tirarla fuori».
R.
(risata) «Ma che gran d’uomo che è mio marito; ha proprio il bernoccolo degli affari: mi va a vendere a un prezzo inferiore della roba che io, povera donna, sempre chiusa in casa, ho già venduto per sette denari».
C.
«E chi te l’ha comprata a così tanto?»
R.
«Ah scemo! È già da un po’ ch’è lì dentro, per vedere se è sana!»
C.
Dal canto suo l’amante non fu da meno della donna e, spuntando fuori:
S.
«Vuoi sapere la verità, buona donna? Questa tua botte è troppo vecchia e sgangherata. Ha certe crepe che paion fessure. E tu buon uomo, chiunque sia, fammi il favore di darmi una lanterna; voglio toglierci tutto lo sporco per vedere se può ancora servire. Non crederai mica che io li vada a rubare i miei soldi!»
C.
«Tirati sù di lì, amico mio, e stattene quieto e comodo, disse il marito. Ci penserò io a farlo e te la mostrerò quand’è pulita».
S.
E così dicendo, toltisi gli abiti, il marito si calò dentro con il lume e cominciò a raschiare tutte le incrostazioni che con il tempo s’erano formate in quella vecchia giara.
Dal canto suo l’amante, un pezzo di ragazzo, si lavorava di gusto la moglie del fabbro che se ne stava appoggiata e curva sulla giara e che anzi, sporgendo il capo all’interno, si prendeva gioco del marito dicendogli:
R.
«Pulisci qui, c’è ancora sporco lì…, e qua…, e là».
S.
Portato a termine ciascuno il suo lavoro, e avuti i suoi sette denari, quel disgraziato fabbro fu costretto a caricarsi in spalla la giara e a portarla fino a casa del suo rivale.
C.
Altro tipico esempio di “cornuto e contento”!.
S.
Ma, fermiamoci un attimo sul termine “cornuto”, sulla cui origine circolano diverse versioni. E’ doveroso partire dalla Mitologia dell’antica Grecia. Siamo a Creta: Minosse, figlio di Giove, per legittimare il suo diritto di successione al trono dell’isola, chiese al dio del mare Poseidone una degna vittima da sacrificare durante la cerimonia.

R.
Dalle onde del mare apparve un toro tutto bianco, bellissimo. Talmente bello che Minosse pensò di tenerlo per sé sacrificando al suo posto un altro toro. Brutto affare offendere la suscettibilità di una divinità di quei tempi: Posidone se la legò al dito e, visto che la moglie di Minosse, tale Pasife, godeva di un’accertata fama di ninfomane mangiauomini, scatenò in lei una passione contro natura per lo splendido animale. Ma come fare per soddisfare l’insano desiderio ?
C.
Ci pensò un geniale Architetto, ospite del re che deliziava spesso la corte con i suoi giocattoli meccanici: il famoso Dedalo. Questi costruì una realistica sagoma di una mucca, entro la quale sistemò a dovere la vogliosa Pasifae, e la posizionò strategicamente in bella vista sul prato ove beatamente pascolava cotanto toro. Non entro nei particolari su quello che successe: solo che dopo nove mesi nacque un frugoletto, purtroppo con la testa di toro, il mitico Minotauro al quale venne imposto il nome di Asterione.
R.
Minosse, pur già ampiamente “cornificato”, non ne fu molto contento: con un toro era troppo….! Fece costruire il notissimo Labirinto dove fece rinchiudere il Minotauro, la madre Pasifae ed anche l’ Ing. Dedalo che poi se ne sarebbe scappato assieme al figlio Icaro volando con ali posticce appiccicate con la cera, ma questa è un’altra storia….
S.
Questa è la leggenda nuda e cruda: sembra in realtà che Asterione (meglio noto come il Minotauro) fosse nato in realtà da una relazione della vispa Pasife con un aitante Generale di Minosse, tale Taurus appunto, notissimo atleta nei giochi di Tauromachia. Il fatto è che, da quando venne alla luce Asterione-Minotauro, i pettegoli abitanti di Creta cominciarono a salutare a mo’ di scherno il loro Re Minosse facendo appunto il gesto delle corna per ricordargli la “scappatella” della moglie Pasifae.
Un’altra ben accreditata ipotesi sostiene che il termine è nato da un racconto sulle “imprese” dell’imperatore bizantino Andronìco (vissuto tra il 1118 – 1185). Un personaggio di pochi scrupoli che, dopo una serie interminabile di intrighi e nefandezze, riuscì ad impossessarsi del trono.
Andronìco, specialmente nei confronti di quei nobili che lo avevano avversato durante la conquista del potere, escogitò un modo tutto suo di vendetta: prima faceva arrestare per futili motivi il nobile preso di mira, poi giaceva con la moglie dell’arrestato e, beffa finale, ordinava di appendere sulla facciata dell’abitazione del malcapitato una testa di cervo o di altro animale cornuto. Nasce così il modo di dire in greco: chèrata poièin ovvero “mettere le corna”.

Un’altra versione ci racconta invece che Andronìco, essendo un gran donnaiolo cercava in ogni modo di insidiare le mogli altrui. Aveva perciò inventato un espediente tale che mentre l’ignaro marito era intento a “cacciare” in una riserva, il Sovrano andava anch’egli a “cacciare”, ma in un’altra “riserva”, spassandosela con la di lui sposa. E quando il cortigiano, tutto contento, ritornava a casa carico di trofei venatori, Andronìco non solo gli conferiva il titolo onorifico di “Gran Cacciatore” ma anche di “Gran..…
C.
Dunque facciano attenzione i cacciatori veri a non tornare a casa con molti trofei. Sarebbe una curiosa vendetta del destino se accadesse che mentre il marito sta cacciando gli uccelletti, la moglie facesse altrettanto.
S.
Probabilmente però questa storia è frutto di inventiva popolare, che sfruttava questa antica usanza per deridere i costumi nobiliari. Quello che è certo è che presso i Greci e presso i Romani le corna non avevano un significato disonorevole.
La donna infedele pagava personalmente la sua colpa senza per questo infangare il marito e renderlo oggetto di derisione. Anzi ,le corna erano attributi con cui spesso si manifestavano talune divinità: Giove Ammone, Bacco, Pan…
E giustamente il poeta livornese Giovanni De Gamerra, a fine Settecento, così canta:
R.
“Fra gli antichi non fu mai disonore
l’ esser cornuto da qualcun chiamato,
ma sempre dinotò gloria ed onore
e gloria e onore è suo significato”.
S.
Presso i barbari le corna erano addirittura un vanto di cui amavano adornarsi e di cui erano estremamente fieri. Inoltre le corna venivano usate nei banchetti, per bere, e nei sacrifici come coppe. Infine, come trombe, per annunciare o segnalare qualcosa.
Nel mondo antico non esiste la figura del “cornuto”; né l’uso specifico delle corna per indicare il tradimento e l’adulterio.
Esiste invece un aspetto delle corna che ritroveremo poi nel periodo medievale. Le corna hanno la pro¬prietà di allontanare i malefici ed impedire il diffondersi del malocchio. Portare le corna, cioè un oggetto fatto a forma di corna, è un modo sicuro di tutelarsi dalle disgrazie (Tirare fuori il cornetto)
C.
Mi sembra che alcuni abbiano supposto che derivi dall’uso delle donne romane di mettere un amuleto a forma di anello nell’indice e nel mignolo. (gesto delle corna) E infatti per scongiurare la iettatura si distendono queste due dita e si chiudono le altre.
S.
Più probabilmente è in ambiente cristiano che si afferma l’ idea di un legame tra corna e adulterio. Già per i primi cristiani era un peccato gravissimo il tra¬dimento del “sacro” vincolo coniugale: la donna che lo commetteva si diceva che facesse indossare al suo sposo le corna stesse del Diavolo. E c’è una tradizione medievale che fa riferimento a ciò: le corna erano il giusto premio che Satana tentatore aveva dato ad Eva per la sua compiacenza, e che quest’ultima aveva regalato ad Adamo co¬me risarcimento dell’infedeltà subita. Per gli antichi, come si è visto, le corna rappresentavano la forza.
R.
Perso il significato originario di forza, le corna prendono vie diverse, rappresentando – da un lato – il simbolo del Demonio, e – dall’altro – una difesa contro le forze del male.
Pan, i Satiri e tutte le divinità caprine si trasformano in diavoli cornuti. Anzi, Satana stesso viene rappresentato con gli attributi di Pan: le corna, gli zoccoli caprini, la barba del becco, il maschio della capra. E infatti nelle iconografie medievali il diavolo appare sotto forma di un caprone.
C.
Si vengono pertanto a contrapporre due figure: la prima, la strega, sposa infedele di Satana-becco, la seconda, la vergine, sposa fedele di Cristo-agnello. Non è però ancora comprensibile come da una situazione tragica – quella di scoprire l’infedeltà della persona che si ama – si sia giunti alla comica rappresentazione dì chi è stato tradito. C’è, forse, un bisogno intrinseco dell’uomo di sdrammatizzare situazioni di tensione o di paura, di esorcizzarle, trasformandole in situazioni comiche, dalle quali egli stesso può uscire rinfrancato. Le corna – ci piace pensare – sono sempre gli altri ad averle e, se così è, ci si può anche ridere sopra!.
S.
Ovviamente, in tema di corna, dominando la mentalità maschile, la più colpevole è stata sempre considerata la donna. L’uomo infatti ha preteso da lei un contegno irreprensibile, in netto contrasto con il diritto che si è auto-attribuito di violare tale retto comportamento. In particolare, abbiamo visto che nella severa Roma repubblicana la donna doveva essere assolutamente pudica e fedele.
C.
“Casta fuit, domum servavit, lanam fecit”.(si mantenne casta, curò la casa e, traducendo alla buona, fece la calza)
Ma Catone sentenzia anche:”…se sorprendi tua moglie in atto di adulterio puoi ucciderla senza processo e impunemente”. Che bei tempi…..!

S.
Solo in un caso fu permesso alle donne , e non fu senza ragione, di eludere questi “sani” principi: quando Annibale giunse alle porte della città sguarnita e ormai allo stremo: in quell’occasione le donne romane si concessero ai pochi romani sopravvissuti per assicurare comunque la discendenza di Roma.
R.
Corna in questo caso altamente patriottiche! La guerra è guerra….
S.
A partire dal Medioevo le corna cominciano ad essere oggetto di beffa e tra i primi a darne questa interpretazione è Giovanni Boccaccio, che dedica più d’una “novella” del “Decamerone” a ragionare, appunto, “delle beffe le quali o per amore o per salvamento di loro le donne hanno già fatte a’ lor mariti, senza esserne essi avveduti o no”.
Vi proponiamo uno stralcio della novella VII della VI giornata che ha per titolo:
Madonna Filippa dal marito con un suo amante trovata, chiamata in giudicio, con una pronta e piacevol risposta se libera e fa lo statuto modificare.
Nella terra di Prato fu già uno statuto che comandava che fosse arsa viva quella donna che dal marito fosse con alcuno suo amante trovata in adulterio.
Avvenne che una gentil donna e bella e oltre ad ogn’ altra innamorata, il cui nome fu madonna Filippa, fu trovata nella sua propria camera una notte da Rinaldo de’ Pugliesi suo marito nelle braccia di Lazzarino de’ Guazzagliotri, nobile giovane e bello di quella terra, il quale ella quanto se medesima amava. La qual cosa Rinaldo vedendo, turbato forte, appena del correr loro addosso e di uccidergli si ritenne.
Calmato il desiderio di farsi giustizia sul momento Rinaldo pensò bene di denunciarla al podestà chiamandola in giudizio.
C.
II podestà, riguardando costei e veggendola bellissima e di maniere laudevoli molto e di grande animo, cominciò ad aver di lei compassione, sperando che Filippa non arrivasse a confessare il fatto, e perciò le disse:- Madonna, come voi vedete, qui è Rinaldo vostro marito, e duolsi di voi, dicendo che vi ha trovata in adulterio con un altro uomo; e per ciò domanda che io vi punisca con la morte come richiede lo statuto, ma ciò far non posso, se voi nol confessate, e per ciò guardate bene quello che voi rispondete e ditemi se vero è quello di che vostro marito v’ accusa.
R .
La donna, senza sbigottire punto, con voce assai piacevole rispuose: – Messere, egli è vero che Rinaldo è mio marito e che egli questa notte passata mi trovò nelle braccia di Lazzarino, nelle quali molte volte sono stata; né questo negherei mai; ma come io son certa che voi sapete, le leggi deono esser comuni e fatte con consentimento di coloro a
cui toccano. Ma, avanti che ad alcuna co¬sa giudicar procediate, vi prego che una piccola grazia mi facciate cioè che voi il mio marito domandiate se io ogni volta, e quante volte a lui piaceva, senza dir mai di no, io di me stessa gli concedeva intera copia o no.
C.
A che Rinaldo, senza aspettare che il podestà il domandasse, prestamente rispuose che senza alcun dubbio la donna ad ogni sua richiesta gli aveva di sé ogni suo piacere conceduto.
R.
Adunque domando io, messer podestà, se egli ha sempre di me preso quello che gli è bisognato e piaciuto, io che doveva fare o debbo di quel che gli avanza? Debbolo io gittare ai cani? Non è egli molto meglio servirne un gentile uomo che m’ ama, che lasciarlo perdere o guastare?
C.
Da qui il detto delle sagge donne chianine, peraltro mai contraddetto, che “È meglio fassela becchè da l’ucelli che fassela cunsumè dai bèchi!”
S.
Con il Boccaccio, nel racconto, viene introdotto anche il motivo della “gelosia”. E la donna è “maliziosa in beffare suo marito” quanto più costui è geloso. Così il marito, roso dalla gelosia, si trasforma gradatamente ed irreversibilmente nel “Cornuto” per eccellenza. Un altro tema su cui il letterati hanno giocato è quello della dabbenaggine di certi mariti poco versati alla bisogna. Un letterato, nostro conterraneo, Poggio Bracciolini da Terranova (1380-1459), ce ne porta un gustoso esempio nel racconto CL delle sue Facezie dal titolo: Un giovane inesperto che non si fece la moglie la prima notte
R.
Un ragazzo di Bologna, certo più che sciocco, prese per mo¬glie una splendida fanciul-
la; e la prima notte, digiuno al completo delle faccende che s’ usano (non avendo mai prima d’allora avuto una donna), non consumò il matrimonio. Al mattino un amico gli chiese come fossero andate le “cose notturne”. «Male» rispose. «Ho cercato a lungo di unirmi a mia moglie, ma l’ho trovata senza quel taglio che mi dicevano essere proprio alle femmine.” Si accorse l’altro dell’imbecillità di lui, e allora: «Taci, ti scongiuro, non farne parola: è una faccenda gravissima e assai pericolosa se la si viene a sapere in giro».
C.
II marito chiese subito aiuti e consigli. «Mi incaricherò io della fatica di praticare questo benedetto taglio; sempre che tu voglia offrirmi una lauta cena. Però ho bisogno di otto giorni di tempo per condurre a termine un’impresa come questa, tutt’altro che facile.» ./.
Fu d’accordo lo stupido, che pose di nascosto l’ amico nel letto della moglie, co-ricandosi lui stesso in un altro giaciglio. Trascorso il periodo indicato, quando ormai l’opera del benefattore aveva ben allargata la via (in modo che non ci fosse più timore d’ alcunché), l’amico chiamò il marito per dirgli che aveva assai faticato per lui: ora finalmente era pronto il taglio tanto desiderato. La fanciulla, pur essa ben istruita, si compiacque col marito per il buon lavoro dell’uomo. E lo scemo, trovata la moglie forata, lo ringraziò tutto contento, pagandogli poi la cena pattuita.
S.
Abbiamo detto che fin dall’antichità l’adulterio è oggetto di condanna e di pene severe e che la causa della “infedeltà” coniugale è ritenuta principalmente la donna.
Gustosa, a questo proposito, la ribellione a tale convincimento e la requisitoria contro l’ipocrisia maschile che De Gamerra mette in bocca ad alcune donne.
De Gamerra è un poeta livornese della seconda metà del ‘700, famoso per aver scritto la Corneide, un poema in cui immagina di essere in un paese presso il quale approdano grandi torme di cornuti da tutta la terra: ricchi, poveri, giovani, vecchi, tutti accomunati dallo stesso destino: avere le corna.
Così canta il De Gamerra:
R.
Ergo se l’abbracciare un fido amante
È delitto, secondo il parer Vostro,
Quando l’uomo ne abbraccia tante e tante,
E perché sol sarà delitto il nostro?
A una sposa che cede al supplicante,
Morte disdoro insulti esilio e chiostro
E intanto il lascivissimo marito
Della moglie più reo, resta impunito.
S.
In effetti, la donna, più dell’uomo, ha sofferto, a torto o a ragione, le pene dei tradimenti. L’uomo è invece sempre (quasi sempre) riuscito a giustificare le sue scappatelle.
Questo modo di pensare è continuato fino a pochi decenni fa.
L’art. 559 del Codice Penale Rocco stabiliva :
La moglie adultera è punita con la reclusione fino a un anno. Con la stessa pena è punito il correo dell’adultera. Il delitto è punibile a querela del marito.
E il marito adultero? Per lui non erano previste pene, salvo che il suo contegno costituisse ingiuria grave per la moglie.
Dello stesso Codice Penale, l’ art. 587, rimasto in vigore fino al 1981, riguardava il cosiddetto “delitto d’onore” e diceva:
Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni.

C.
Insomma se la cavava con poco. Ma, visto che abbiamo l’onore di avere tra noi il sommo poeta di Salcotto, (indica Rolando)ecco come commenta una sentenza:
R.
Becco e mazzièto
(Suprema Corte di Cassazione. Sentenza n. 10/1977)

Leggo che la Cassazione,
si ‘l marito è al lavoro:
“E’ vietèto – fa’ attenzione –
de tradillo de straforo!”

E cusì, si a la consorte
c’è chj fa girè la testa,
glie nòn pu’ accettè la corte,
anze deve restè onesta.

La morèle dice alora
che ‘n se pole fè curnuto
el marito che lavora.

Cusì père autorizzèto,
anze, sembra ch’è duvuto
fallo si è disoccupèto.
S.
Ma non era sempre stato così: dall’Antico Testamento si evince che un tempo l’adulterio era considerato, in realtà, un peccato gravissimo, punito altrettanto gravemente: con la morte e, per la donna, anche con la lapidazione.
R.
“Se un uomo commette adulterio con la moglie del suo prossimo, entrambi, sia l’adultero che l’adultera, saranno messi a morte”, si legge nella Sacra Scrittura. Se però l’uomo aveva una relazione con una donna non sposata era invece “punito” con lo sposarla.
C.
Il che è la dimostrazione palese che il matrimonio costituisce di per sé una punizione.
R.
Sì, però, come dice S. Paolo: “meglio sposarsi che ardere all’Inferno”.
S. Contro la lapidazione si pronuncia nettamente Gesù e visto che abbiamo tra noi il celebre poeta dialettale Carlo dottor Roccanti ne approfittiamo per ascoltare una sua reinterpretazione, in versi chianini, della famosa pagina del Vangelo relativa, appunto, alla adultera perdonata.

R.
E ce credo che Gesù perdonò l’adultera: che fatiga no, ‘nn era mica la su’ moglie.
C.
E’ una mia composizione di oltre 20 anni or sono che si adatta….a fagiolo e che si intitola

OCCHJO A LE SASSÈTE

A la Messa siguìo piéno de zelo
e pròpio co’ la massema attenzione
el préte che leggéa prima ‘l Vangelo
e doppo, quande dèa la spiegazione,
de comme che ‘l Signore, ‘l sapparéte,
una donna salvò da le sassète.

Enfatti succedéa lì ‘n Palistina
(sintite béne quelo che ve dico):
si ‘na moglie facéa ‘na scappatina
(comme che pu’ succéde) co’ ‘n amico,
si ‘ntul fattaccio ce la ‘ntoppèno…
co’ le sassète la lapidèno!

Mettésson qui ‘sta legge… se sta belli:
non bastarìa… la chèva del Donzelli!!
S.
Ma torniamo al tema. Nell’antica Grecia sebbene entrambi gli adulteri fossero puniti con severità c’era comunque un certo riguardo per la donna, considerata per lo più come una creatura “sedotta”. Per cui le leggi sull’adulterio colpivano drasticamente soprattutto il “maschio” traditore, mentre la donna riceveva biasimo ma non la morte.
Il grande legislatore spartano Dracone (fine VII sec. a.C.) affermava che non doveva es¬sere punito chi avesse ucciso l’adultero in casa propria. Il troppo è troppo! C’era in ogni caso, anche allora, una possibilità per l’amante (uomo) di sfuggire alla punizione pagando al marito, ma solo con il suo consenso, una pena pecuniaria.
C.
Era forse l’origine del mari¬to “cornuto e contento” di cui abbiamo visto qualche esempio?
S.
Ad Atene tra le varie pene infamanti, se scoperto, l’amante doveva subire la rasatura del pube, che lo rendeva simile ad una donna.

C.
Sergio, ma forse tu non sai che per l’adultero era prevista, a quell’epoca, anche la vio¬lenza anale mediante l’immissione di un rafano, una radice commestibile ma piuttosto acre e presumo … anche dolorosa.
S.
Invece nella severa Roma gli amanti erano puniti entrambi. Inizialmente, sia il marito che il padre della sposa avevano il “diritto di uccidere” (jus occidendi). L’adultero, come in Grecia, poteva essere ucciso oppure, a scelta degli offesi, preso a frustate o a pugni. Poteva essere anche mutilato, tagliandogli di netto il naso. Talvolta veniva anche privato dei suoi attributi maschili o persino sodomizzato collettivamente dai servi.

R.
Sappiate che c’era anche l’uso di ficcare un “muggine” nel sedere del malcapitato: e sappiate che il muggine è un pesce dalla testa molto, ma molto grossa, con molte scaglie!
C.
Rolando, ho l’impressione che bisognerà stare in guardia: con questo continuo cambiare di governi… avessero a reintrodurre questa legge!
S.
Sotto Augusto, la “Lex Julia de adulteriis” stabilì che nessun marito avrebbe potuto più uccidere la moglie colta in adulterio: gli era consentito solo di ripudiarla. Invece il disgraziatissimo amante poteva naturalmente essere ucciso.
R.
Una punizione classica della donna era, poi, quella dell’Ordalia dell’Acqua: la colpevole di adulterio veniva gettata con mani e piedi legati nell’acqua. Se sopravviveva voleva dire che era innocente.
C.
Nei secoli successivi la stessa punizione era riservata alle donne accusate di stregoneria ma, in questo caso, senza alcuna pos¬sibilità di salvarsi. Infatti, se per caso le presunte streghe fossero riuscite a riemergere, vole¬va dire che il Diavolo le aveva aiutate; pertanto dovevano nuovamente essere messe a morte.
S.
Per restare in epoca medievale lo Statuto di Cortona del 1325 regolamenta anche questa materia e prevede dettagliatamente le pene da infliggere. Cortona – va detto – era una Comunità molto civile anche allora. Per fatti di corna non si ammazzava nessuno! Lo Statuto stabiliva:

R.
“Chiunque sia trovato in atto sessuale con la moglie d’altri, paghi una multa di 50 lire”. Insomma: se scoperto, vada dal gabelliere, paghi e .. chi ha avuto ha avuto!
La Statuto stabiliva altresì: “Se qualcuno dovesse tenere un’amante in casa con la propria moglie (perché magari, da solo, non ce la fa), allora il podestà, il vicario o il rettore, a richiesta di un fratello e di un religioso, di un sacerdote o di chiunque altro, è tenuto a punirlo e a farlo espellere da Cortona”. Si trattava di evitare che dessero pubblico scandalo! Inoltre: “Chiunque abbia commesso adulterio con la moglie d’altri non può essere accusato o denunciato, né si può procedere in alcun modo contro tale adultero, se non dietro denuncia di un familiare. E tale denuncia e accusa sia fatta pubblicamente e platealmente, e che non si possa condannare tale adultero per adulterio reiterato o più volte commesso fino al giorno dell’accusa. Solo allora debba essere condannato con la sanzione di 50 lire da versare al comune di Cortona per l’adulterio in qualsiasi numero commesso.”
C.
Vediamo di non dare troppi suggerimenti come questi al nostro Sindaco o a qualche Assessore. Se dovessero riproporre questa legge, in un anno sistemano il Bilancio: altro che l’Autovelox….!
S.
Norme tutt’altro che vessatorie, dunque, ma con un limite:
C.
“Chiunque alla vigilia della festa di S. Margherita e il giorno della festa predetta e un giorno dopo tale festa commetta adulterio o altro delitto personale o un furto o altro delitto in Cortona e nel suo distretto, paghi il doppio della pena indicata nello Statuto”. (breve sosta) Dallo Statuto apocrifo da me rivisto scaturisce un opportuno suggerimento: Se vogliono risparmiare è bene che gli interessati controllino attentamente il calendario!
S.
Siamo agli inizio del Trecento: è quello il momento in cui si afferma il Dolce stil novo: un movimento poetico che vede nella figura femminile la “donna-angelo”, una donna da contemplare. Ma gli uomini e le donne, a dispetto del Dolce stil novo, sono anche passione, che talvolta diviene incontenibile, impetuosa, travolgente. E vittima di passioni travolgenti sono i personaggi magistralmente descritti nel canto V dell’Inferno: il canto dei lussuriosi, le cui anime sono trascinate qua e là da una bufera incessante che simboleggia la forza, appunto, della passione carnale. Dante chiede a Virgilio di parlare con le due anime che se ne stanno avvinghiate l’una all’altra, sbattute dalla “bufera infernal che mai non resta” e che incessantemente le tormenta: sono le anime di Paolo e Francesca

R.
“O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!”.

Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere, dal voler portate;

cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettüoso grido.
S.
Mentre Paolo rimane in silenzio e piange, Francesca racconta la sua relazione amorosa.
C.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense”.
S.
E Dante insiste per conoscere come è nato il loro amore. Va detto che Paolo e Francesca, in vita, erano cognati. Lei era la sposa di Gianciotto, Signore di Rimini, uomo anziano, brutto, cattivo, rozzo. Mentre Francesca stava leggendo, insieme a Paolo, fratello del marito, il libro in cui si racconta l’amore tra Lancillotto e Ginevra, moglie del re Artù, parte la scintilla della passione amorosa tra i due:

R.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante”.
S.
Versi di straordinaria bellezza del nostro sommo Poeta che, con molto rispetto e pudore, abbiamo voluto inserire in questa “dissertazione”.
Ma facciamo un balzo nella storia e arriviamo al Cinquecento quando, nella Mandragola di Machiavelli, l’infedeltà coniugale è il pretesto per una divertente storia architettata alle spalle di un dottore bonaccione e, poi, giungiamo al Seicento quando viene quasi istituzionalizzata la figura dell’attentatore all’altrui fedeltà: cioè la figura avventurosa del “libertino”, che troverà grande sviluppo nel secolo successivo.
II cornuto non è più solo un personaggio della letteratura boccaccesca ma un personaggio tipico della commedia. Le commedie di Moliere e di Goldoni traboccano di figure di cornuti.
Per tornare alla documentazione settecentesca della vita in Cortona, Bernardino Cecchetti di cui abbiamo già parlato, ci narra un episodio singolare.
All’epoca (siamo a fine ‘700), le monacande, prima della loro promessa solenne di ubbidienza, povertà e castità, dovevano sperimentare le tentazioni della vita, in modo da saper consapevolmente rinunciare ad esse e, in caso di necessità, da poter dire: “ Signore dammi la forza di dire di no”. In sostanza, per prepararsi a non cadere, in futuro, in tentazione – anche pensare a certe cose, come si sa, è peccato – dovevano superare delle prove. Accadde così, scrive il Cecchetti, che :
C.
La mattina del dì 18 una figlia sposa monaca del marchese Venuti si è portata nella torre di piazza (la torre del Palazzo comunale di Cortona) per seguire la sciocca usanza introdotta non so con che ragione che tutte le spose monache pochi giorni avanti di entrare in monastero erano accompagnate in detta torre per toccare il batocchio della campana grande, e siccome quella mattina erano 11 ore e mezzo, quando la detta sposa prese con la sua delicata manina il prefato batocchio e suonò un poco più del solito delle altre spose monache. Il duomo credendo che fosse mezzogiorno, suonò l’ultima messa avanti il tempo e ciò diede da ridire a tutta la città considerando esser quella una usanza sciocca e indecente che le spose monache dovessero di norma andare a toccare i batocchi delle campane, tirandone poi delle conseguenze poco decenti alle dette fanciulle.
S.
Un’altra figura che si pone al centro di questa problematica è quella del Prete, e in particolare il “Prete di campagna” oggetto di tanti racconti boccacceschi e di facili ironie. L’obbligo del celibato tutela questa figura da ogni “rivalsa” da parte dei mariti: lui ha sposato la Chiesa…
C.
Però mi sembra che la faccia… scopare dal sacrestano…!
R.
SPAZZARE vorrai dire…
C.
Elementare Watson…
R.
Il Prete è una figura di riguardo rispetto ai suoi parrocchiani umili e spesso sempliciotti. Poi, con l’obbligo della Confessione, conosce tanti segreti e, se vuole, può andare…a colpo sicuro ! Poi le statistiche ci dicono che la donna ha aspettative di vita maggiori rispetto all’uomo e , nell’ Ottocento/Novecento, ci sono state tante guerre che hanno falcidiato tanti giovani lasciando vedove le loro mogli. E, dato che abbiamo l’onore di avere qui tra noi il Dr. Carlo ROCCANTI, sommo poeta del Poggetto del Riccio, ne approfittiamo per ascoltare una sua nota composizione dialettale al riguardo.
C.
Si tratta di una mia poesia di oltre vent’anni or sono che si intitola appunto

LA FUNZIONE DEI MORTI

S’èra ridotto mèle Don Simone
Sempre più cjàlbo….sempre più smagrìto….:
manco dovésse vìre a fè ‘l “Formòne”…
che ‘l lavoro ‘n l’éa péso….è garantito !
‘Na vita dovéa fèccèrto de stenti:
davéro reggéa l’ànnema…coi denti !

Ensiéme a l’altri Préti, ‘n Semmenèrio
un giorno s’atrovò pe’ ‘n Cuncistòro:
stèa da ‘na parte, mogio mogio e serio,
guèsi distratto lì anco sùl lavoro.
De questo sen’acòrse Sua Eccellenza
ch’à la fine ’l chjamò per un’udienza.
Guminciò ‘l Vèsco: “Chèro Don Simòne,
me sembre stràcco…père ‘m péscio lésso.
Certo, vurrìa da te ‘na spiegazione
e sapé de priciso…ch’è successo !”
“Tu le Funziòn dei Morti – fa ‘l Curèto –
Eccellenza me so troppo ‘mpegnèto ! “

“Ma che me dice, chèro Don Simone,
fè ‘lle Funziòni…nn’è ‘n gran lavorone !”

“El dite Vò, Eccellenza, che nn’è dura !
Ho venti…véddeve ‘ntù la mì Cura !!!”
S.
Ma è nell’Ottocento che l’adulterio trionfa: esso viene ammirato dai romantici non solo come esaltazione totale dell’amore ma anche come violazione della morale borghese fondata sull’istituzione del ma¬trimonio.
I romanzi hanno commosso generazioni di ragazze, che come in una catarsi purificatrice hanno potuto espiare spiritualmente la “colpa” di aver preferito la “stabilità” e la “sicurezza” del vecchio marito alla “felicità” data dal giovane amante, anche se spiantato. Nel Novecento è arrivato il “triangolo” e l’adulterio ha finito per diventare quasi esclusivamente materia da tribunale, soprattutto quando il marito tradito risolve “equamente” la situazione, uccidendo entrambi gli amanti (delitto d’onore)
Cadute le pene per l’adulterio, esso cessa di essere un delitto contro il matrimonio e diviene una semplice “relazione extraconiugale”.
R.
Ricordate la statistica: il 50% degli italiani avrebbe una “relazione extraconiugale”!
C.
Mi sa tanto che anche in questo gli italiani sono… i soliti spacconi! Però di casi mi sembra ce ne siano molti e gradirei sentire in merito Rolando sommo poeta di Salcotto:
R.
LA MOGLIE PRIVIDENTE

“Chèro Gianfranco mio, cunsiderèto
che ‘l mi’ marito è tanto scarognèto
che ‘nn è capèce a gnente a fè da sé,
aspètteme domène, pe’ le tre.
Per fè sparì la iella che cià ‘ntorno,
me sò’ dicisa a regalagne ‘n corno.”
S.
Sorge a questo punto una domanda: perché, allora, esistono ancor oggi le “corna”?
Fedeltà alla tradizione? Ritorno ad antichi costumi? Amore per il passato? “Cornuto” è una ingiuria normale ed usuale anche verso persone non sposate.
Cornuto è l’arbitro di calcio….( Battuta di Carlo: “E anche…Juventino !”), cornuto l’automobilista che ci supera, cornuto è il vigile che ci multa, cornuto è il vicino che fa rumore la notte, cornuto è …
Ma il vero “cornuto” dove è andato a finire? E prima di tutto: qual è la causa vera delle corna? Ce lo spiega Pierre de Bourdeille, detto Brantôme (1540-1614), storico e biografo francese, in uno scritto dal titolo La causa vera delle corna.
R.
«Gentili signore; è già gran tempo ch’io ho sentito parlare di questa malattia ma nessuno ancora ha saputo dirmi donde essa provenga. Se alcuna di voi fosse capace di illuminarmi in proposito io canterò pubblicamente le sue lodi anteponendola a tutte le al¬tre le quali non mi han data finora alcuna spiegazione soddisfacente». Indottevi dalle mie parole tutte le si¬gnore risposero. Una invece era rimasta silenziosa, la quale, quando le altre ebbero finito, cominciò a sorridere e infine parlò in questa guisa: «Due parole bastano a risolvere ogni dubbio; due parole che nessuno mai potrà accingersi a confutare. Tenete per fermo che ciò che soprattutto rende cornuti gli uomini, anche i più belli, i più galanti e i più compiti, che non lo sono meno degli altri, è il fatto semplicissimo che per la donna due uomini valgono più di uno».
S.
Lapalissiano! Nel corso dell’Ottocento anche taluni filosofi si sono occupati delle corna. Ne parla perfino Carlo Marx, che distingue tra Traditi, Cornuti e Becchi. Nel suo celeberrimo opuscolo, Il manifesto dei Comunisti, nel II Capitolo (Proletari e Comunisti), si domanda, poi, se le donne siano o meno da considerare uno “strumento di produzione”.
C.
Perbacco! se lavorano e portano a casa un bello stipendio sono sì uno strumento di produzione!
S.
Altro acuto studioso di corna è stato Charles FOURIER, socialista utopista vissuto in Francia tra sette e ottocento. Propugnava il superamento della famiglia monogamica: L’uomo, egli sosteneva, non deve avere una sola partner e le donne devono poter avere più uomini, anche le donne devono godere di una loro sessualità.
R.
Questo è il vero socialismo dal volto umano !

S.
Asserisce inoltre che possiamo distinguere nove tipi di Cor¬na, sia tra gli uomini, sia tra le donne, e se il marito ne porta di alte come quelle di un cervo, si può dire che quelle della moglie arrivano all’ altezza dei rami degli alberi.
Ci limiteremo a citare le tre tipologie più significative che egli elenca: il Cor¬nuto, il Cornetta e il Cornardo.
R.
II Cornuto propriamente detto è un geloso onorevole, che ignora la sua disgrazia e si crede il solo possessore di sua mo¬glie.
C.
Il Cornetta è un marito sazio degli amori casalinghi, che, volendo trovare altrove i suoi piaceri, chiude gli occhi sulla condotta della moglie, e lascia che si prenda gli amanti che vuole, purché non ne abbia dei figli.
C.
II Cornardo è un geloso ridicolo, che non piace alla mo¬glie, e che è ben informato della infedeltà di lei: è un iracondo che recalcitra ai voleri del destino, e vi si oppone goffamente, diventando oggetto di derisione per le sue precauzioni inutili, la sua collera e i suoi scoppi d’ira.
S.
Ma il Fourier si è spinto oltre e ha formulato una classificazione dei cornuti ancora più precisa e dettagliata tollerante, fino a ben 80 tipologie. Vediamone qualcuna:
C.
Il cornuto salutista: è colui che, per ordine del medico, si astiene dal peccato carnale. Sua moglie non può far altro che ricorrere all’opera dei sostituti, ed egli non ha il diritto di lamentarsi. (pausa)…Infatti ha i suo certificato !
Vorrei avvisare a tale proposito il nostro pubblico che, a fine serata, se qualcuno ha bisogno di tale certificato, il nostro Dott. Calzolari ha portato il ricettario ed è a disposizione…..(E poi dicono che non si fanno iniziative a carattere sociale….!)
R.
Il cornuto riformista: chi si dedica agli interessi della comunità, sorveglia le famiglie dei confratelli, e li ammonisce sui pericoli che minacciano la loro onorabilità. Nel frattempo, egli non vede cosa avviene in casa sua, e non capisce che farebbe meglio a difendere i suoi interessi.
C.
Il cornuto disertore o scissionista (mi sembra doveroso chiarire al nostro attento pubblico che la tipologia del “cornuto scissionista” è stata codificata dal Fourier circa 250 anni orsono. E pertanto non è attribuibile – come qualcuno maliziosamente potrebbe pensare – a recenti tweet di Matteo Renzi):
dunque, cornuto disertore o scissionista è chiunque che, stanco degli amori domestici, mostra di aver rinunziato alla sua sposa e, quando vede un amante, dice: «Appena sarà sazio, ne avrà abbastanza anche lui, come me».
S.
Per restare alle classificazioni c’è da dire che i cornuti non sono tutti uguali: vige anche tra loro, così come deve essere, una casta privilegiata e poi si scende giù giù: c’è insomma una precisa gerarchia legata alla quantità di corna possedute, come autorevolmente attesta il livornese De Gamerra:

R. Un corno solo alla sua fronte porta
chi la moglie ha puttana, ed ei nol sa;
ma due ben lunghe poi quell’altro n’ha,
che finge nol saperlo, e lo comporta.
Chi lo confessa, e da persona accorta
alcun risentimento non ne fa,
questo n’ ha tre, e quattro poi chi va
gli adulteri a condurre alla sua porta.
Ma chi si stima poi lieto e felice,
e pensa non aver fronte ramosa
e chi crede alla moglie quanto dice,
che la casta Penelope famosa
in paragon di lei sia meretrice;
questo sì, che n’ ha cinque: oh bella cosa!
S.
Giggi Zanazzo, romano de Roma, avanza una ulteriore proposta su come raggruppare iI popolo dei cornuti:
C.
(Chiedo preventivamente scusa per il mio modesto romanesco: penso di cavarmela molto meglio col chianino!) Aricordateve che li cornuti se divideno in cinque specie. Becchi, Cuccubboni, Becconi, Tribbecchi e Calidoni.
Li BECCHI so’ quelli che nun ce lo sanno d’ essece;
li CUCCUBONI ce lo sanno e tireno a campa pe’ quieto vive;
li BECCONI ce magneno sopra;
er TIRIBBECCO è quello che porta l’ amico a casa sua e se squaja co’ na scusa;
er CALIDONE poi è quello che porta lo stendardo ne’ la processione de San Martino: é quello che accompagna la moje a casa de l’ amico.
R.
Ma, ma che c’entra S. Martino?
S.
In effetti nella storia del vescovo di Tours (316-400 ca.), per l’appunto Martino, non esiste nulla che giustifichi un accostamento con le corna e non è chiaro come si sia giunti a tale accostamento facendo dell’11 novembre la festa dei cornuti.
Quel che sappiamo è che a metà novembre, nella Roma antica, si celebrava la festa dei Brumalia in onore di Dioniso-Bacco. In periodo cristiano questa festa fu sostituita da quella di S. Martino ed è possibile che, nella mente popolare, quella adunanza di fedeli avvolti in pelli di montone, simili a satiri o divinità silvane, si sia trasformata in una folla di gente cornuta e per successive trasposizioni in una festa di cornuti.
Più probabilmente, però, la spiegazione è un’altra, che ci riporta alla mitologia greca, con gli amori adulterini di Marte e Venere, i quali sorpresi da Vulcano (marito di lei) furono rinchiusi in una rete di ferro (Vulcano faceva il fabbro!). Dopodiché lo stesso Vulcano chiamò gli altri dei per averli testimoni del torto subìto; ma fu invece da loro beffeggiato e deriso.
Forse Martino è qui inteso come un diminutivo di Marte, e questo, nel passaggio dell’antica religione pagana al cristianesimo, avrà dato luogo all’equivoco che ha portato ad accostare il nome di San Martino alle… vittime delle infedeltà coniugali.
Come abbiamo già appurato sinonimo di cornuto è il termine becco. Per il De Gamerra l’origine di questo nome è legato a quello che si pensava fosse il costume del maschio della capra, appunto il becco:
R.
Becco gli antichi popoli han chiamato
lo sposo d’ una femmina lasciva,
ch’a più d’ un giovanetto innamorato
delle dolcezze il bel sentiero apriva;
ciò forse perché aveva osservato

che la capra non è di molti schiva
e se capra sapea la moglie farsi
lo sposo in becco ancor dovea cangiarsi.
S.
Si credeva infatti che il becco, unico tra gli animali, fosse disposto a permettere che la sua femmina si accoppiasse con altri. Attribuire ad una persona questo costume voleva dire paragonarlo ad un caprone, e quindi dargli del cornuto.
Per la verità, nella graduatoria delle offese, il Becco rappresentava uno scalino inferiore del cornuto: era colui che cedeva ad altri il suo talamo per qualche interesse (denaro,
carriera…). Cose… ovviamente che accadevano in altri tempi! Ed ancora il De Gamerra così descrive questi mariti…generosi:

C.
Cheti lascian la moglie in braccio altrui,
e dicon non mostrando alcun pensiere:
godiamo, e gli altri ancor lasciam godere.
S.
Alla fine però la distinzione perse valore e Cornuto e Becco finirono per indicare indifferentemente il marito compiacente e quello ignaro. L’ Aretino Pietro usa addirittura il diminutivo “beccarello”.
Ma il testo fondamentale resta il poema in ottanta canti e sette tomi del livornese Giovanni De Gamerra, più volte citato, il cui titolo è tutto un programma:
– La corneide, poema eroicomico del dott. Cornografo, colle annotazioni di Cornelio Tacito il moderno, in Cornicopoli, per Luca Cornigerio all’insegna del capricorno. S. d.
Lo scopo del libro è indicato chiaramente nei seguenti versi:

C.
O voi che avete le cervella sane
Mirate la Dottrina che s’asconde
Sotto il velame delle corna umane.
S.
Abbiamo ricordato il Fourier con il suo immaginario paese di cornuti, ma sono la letteratura dell’Ottocento ed il cinema nel Novecento che attingeranno, a piene mani, a storie di tradimenti coniugali, influenzando in modo rilevante i costumi ed il modo di vivere la relazione amorosa tra l’uomo e la donna.
Ed allora, per i romanzi d’adulterio, in cui alla noia ispirata dal marito si contrappone l’amour-passion dell’amante, il pensiero va a Madame Bovary di Flaubert, ad Anna Karenina di Tolstoj, alle storie raccontate da Moupassant, da Zola, dai nostri De Roberto e Capuana, a La virtù di Checchina di Matilde Serao, a L’esclusa di Pirandello.
Mentre per il cinema ricordiamo solo “Il magnifico cornuto”, con Ugo Tognazzi, 1964 e il divertentissimo Mimì metallurgico ferito nell’onore, con Giancarlo Giannini e Mariangela Melato, del 1972.
Giunti pressoché alla fine di questa nostra più o meno dotta conversazione, veniamo a una questione seria: come si fa a scoprire se si è cornuti, perché la domanda, giusto per precauzione, ogni tanto è bene porsela!

R.
Gli antichi usavano l’Alectriomanzia. Per prima cosa facevano un cerchio per terra e lo dividevano secondo le lettere dell’alfabeto. Poi, in ciascuna lettera ponevano un granello di frumento. Posto quindi un gallo al centro del cerchio aspettavano di vedere che cosa avrebbe “beccato”. Ovviamente se la perso¬na era “un “cornuto” il gallo avrebbe cominciato dalla C e cosi di seguito fino a completare il nome.
C.
La lettera C? Speriamo che non sia Carlo.
S.
Ma ci sono altri metodi che garantiscono maggiore scientificità.
R.
Se si mette un diamante sulla testa della donna che dorme, si conosce se è fedele o infedele al marito; perché se è infedele si sveglierà impetuosamente; al contrario se è casta lo abbraccerà subito e con trasporto. (Alberto Magno).
C.
Ma sei matto? Con quanto costano i diamanti ti costerà caro controllare se sei un cornigero! No…ci sono altri metodi assai più a buon mercato….
Anche la calamita sembra che serva allo stesso scopo. Riportiamo da un testo di Frate Jacopo Passavanti, fiorentino dell’ordine dei predicatori ( siamo nella seconda metà del 500): ”Chi vuole sapere se la moglie l’è leale, pongale un pezzo di calamita sotto il capo quand’ella dorme; e se ella sarà casta e fedele, si volgerà ed abbraccerà il marito; s’ella sarà adultera e sleale non potrà sofferire la virtù della pietra, ma come sospinta, caderà a terra dal letto”
R.
Finito l’incontro, se qualcuno è interessato, abbiamo l’elenco delle ferramenta convenzionate che nel cortonese vendono le calamite adatte alla bisogna. Affrettatevi perché so che vanno a ruba!
S.
In realtà un rimedio alle infedeltà coniugali ci sarebbe:
C.
Prendere l’estremo del membro genitale di un lupo, il pelo delle sue palpebre e quello della estremità della coda, ridurlo in polvere per calcinazione e somministrarlo alla donna o all’uomo a sua insaputa.
R.
Il problema è: il lupo sarà d’accordo?… E poi, mi fido più dei “rimedi” della Cuzzina!
S.
Avviandoci a concludere – con sommo e, speriamo, reciproco rincrescimento –
dobbiamo purtroppo prendere atto che non esistono rimedi veri e propri contro le corna.
C.
C’è anche chi ha consigliato di non sposarsi, ma, non è possibile modificare il proprio destino.
E se, come abbiamo visto, la donna è colpevole di tutto ciò, allora liberiamola dalla colpa. Diamole finalmente la vera parità, che non è riuscita ad acquisire col lavoro, con lo studio, con i diritti. Diamole l’unica cosa che ancora le manca per essere veramente un uomo: diamole le corna!
R.
Eh!… Piano! Piano!, Non rubiamo il mestiere al Padreterno: la donna l’ha creata lui, con tanta pazienza e sentimento. E gli è venuta anche benino! Prima di disturbare l’Altissimo, per vedere se è d’accordo ad aggiungere le corna alla sua “creatura”, sentiamo cosa ne pensa San Pietro che del problema, tempo addietro, si è occupato personalmente. L’ha interpellato, a questo proposito, ancora una volta il nostro eccelso poeta dialettale Carlo Roccanti che ne ha ricavato la poesia EL SUDORE DE LA FRONTE
C. Si tratta di una mia ironica composizione di oltre vent’anni or sono:
“ Certo ‘sto mondo è fatto ‘n gran bordello:
– pensò ‘l Signore su ntul firmamento –
è tutto ‘n mette i corni a questo e a quello…
qui bisògna pensè a ‘n pruvidimento.”

Fece chjamère subbeto San Piétro
e volse fagne ‘ntende ‘l su’ giudizio:
“Qui bisògna che ‘l mondo arvèda ‘ndjétro
E cerca de capì che ‘nn è ‘no sfizio.

Qui nòn c’è più morèle… ‘n c’è famiglia…
Deve arvì tu la terra, eh sirà dura…,
ma mostrete de colpo a chjnche sbaglia
e fagne arnì a ‘sta gente gran paura!”

Pronto al comando, disse: “Sì” San Piétro,
e dal cielo spiccò ‘na volatona:
nònn ebbe ‘l tempo d’arvoltasse ‘ndjétro,
che s’artrovò tul centro de Cortona.
E subbeto trun viquelo niscòsti
vedde ‘n ómo e ‘na donna ‘ncatreccèti.
“Per fè ll’amore questi nòn sòn pòsti
– disse – mò vò ‘mpaurì ‘sti disgrazièti!”

Co’ ‘n gran lampo gne cumparì davanti
E quelli disson: “Mò chj è ‘sto guardone?!”
Ma arconobbeno ‘l Princepe dei Santi…
e s’arcomposon, piéni d’attenzione.

“Parturirè tu, o donna, con dolore!
– gne fa San Piétro e le su’ chjève sbatte –
E co’ la fronte piéna de sudore,
ómo, la vita dovarè tu guadagnatte!!”

Quel tèle armanse lipperlì ‘nterdetto
E rosso doventò pe’ l’imbarazzo:
“Scusa San Piétro… manco de rispetto…
Ma de ‘sto fatto.. ‘n c’è capito ‘n cazzo:
glie… ha preso ‘n anticoncezionèle,
e io… fo l’impieghèto cumunèle!!”

S.
E, quindi, esentata, lei dal dolore e lui dal sudore! Il tema delle corna è entrato stabilmente nella saggezza popolare con tutta una serie di proverbi e facezie anche se sempre sconsigliabile farsi accecare dalla gelosia come successe invece ad un famoso personaggio citato ancora da Poggio Bracciolini

C.
Un tale Giovanni da Gubbio, gelosissimo, non riusciva a scoprire se la moglie si divertiva con altri. Pensò allora ad una furberia tutta degna di lui: si castrò, prevedendo che, se la moglie fosse rimasta incinta, egli finalmente sarebbe stato sicurissimo del suo adulterio.
S.
Comunque chi dovesse trovarsi le corna, non se ne adonti: fondamentalmente vuol dire che almeno…ha la moglie bella ! Ma senza arrivale al caso estremo raccontatoci da Poggio Bracciolini, c’è chi, avendo qualche dubbio ha voluto controllare di persona. Trovandoci qui a Terontola approfitto ancora del Sommo Poeta Dr. Carlo ROCCANTI che tanto ha scritto sull’argomento…..

LA GHJACCEA (3.04.1994)

Arivò la “Dentòna” per Narcìso,
un colpo e via: murì senza stentère.
Giònse a l’ùscio cusì del Paradiso
e dimandò a San Piétro de rentrère.
Ma prima de timbràgne el passaporto,
San Pietro chiése comme ch’èra morto.

“Ma che ve devo dì ? – fece Narciso-
è ‘na storia ‘n po’ longa a raccontè
però, si de sintìlla éte dicìso,
Ve la dico…mettémmece a sedé.
Avéo ‘na moglie bella pròpjo tanto,
che davéro podèo menànne vanto.

Ma al lavoro, i colleghi tutti i giorni
badèno a dì: “ La moglie è troppo bella…
en qualche modo te li mette i corni.
El fàn le brutte…figuràsse quella !
Io avéo fiducia…ce arìa giòco el collo…
ma ‘n giorno me dicìse afè ‘n controllo !

Entànto che Narcìso raccontèa
un’altr’ànnema giònse guèsi al volo:
el ghjàccio ‘l chèpo e ‘l viso gne ‘ncrostèa
comme si fusse stèto lassù al Polo !
Gne fa San Piétro: “Aspetta… non so’ pronto…
sghjàccete…che mò sento sto’ racconto ! “

“Enventò che dovéo vì dal Dottore
-Narcìso continuò ‘ndù avéa lascèto –
Prese cusì ‘n permesso de quattr’ore
e argiònse a chèsa pròpjo nn’aspettèto.
Me venne a a iprì la moglie, mèzza ‘gnùda,
che disse :”Fa ‘n gran caldo… qui se suda !”

“Frugò tutta la chèsa… ero dicìso,
la soffitta…cantina eppù l’armèri.
Amirò sott’al letto… eh so pricìso !,
ma traccia non trovò de furistiéri.
Fu pròpjo tanta la sudisfaziòne…
che lì al cuore me vénne…n ‘ cocquelòne !

Quel’altr’ànnema ch’èra lì a ‘spettè
la bocca ‘n poco guminciò…a sghjaccè:

“Si éi miro, bischero, ‘ntù la ghjaccèa…
a st’ora tutti do mò se campèa !!!”

S. Come diceva una vecchia pubblicità: “la fiducia è una cosa seria…” Ma proprio su questo tema sono tanti i proverbi, specie della tradizione toscana: vere perle di saggezza…
R.
Quando vecchio piglia donna,
suona a morto o suona a corna !

C.
Chi di lontano si va a maritare…
o gliele fanno o le vuole fare

R.
Sia da Preti e da Soldati…
stiano attenti gli ammogliati !

C.
Comunque, in conclusione…
Chi è cornuto e vuol star bene….
pigli il mondo come viene !
S.
Ed allora, dopo questa sana botta di filosofia esistenziale, almeno per chi ha fede, che sia uomo o donna, non rimane che pregare di non aver… mai corna da portare!

R.
Signore, cornuto io non sia,
se lo son, che mai lo sappia,
se lo so, che non lo veda,
se lo vedo, non lo creda,
e credendo non mi persuada,
e se sono, se so, se vedo, se credo e me ne persuado…
dammi la rassegnazione di portarle in santa pace.

SERGIO – CARLO – ROLANDO si alzano in piedi gridando
Sursum corna!!!

Aspettando DIBBA al Seven Point

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Sapevo del 5 stelle Alessandro Di Battista da internet, ma pigro come sono, sapendo grosso modo quel che avrebbe detto dalle interviste televisive, non vi sarei andato. Se non che, al supermercato, un compagno di studi e del militare, dopo aver preso insieme un caffè e le solite chiacchiere nostalgiche, tra i banchi della spesa m’ha apostrofato: “Tra poco c’è Dibba, ci sei?” Lì per lì gli ho detto: ma Dibba chi?! soprapensiero, e un po’ perché quell’invito fatto da un vecchio democristiano come lui era una associazione difficile da fare. La strana circostanza m’ha spinto ad andare al Seven Point. Alla riunione ho tribolato a trovare il parcheggio, me l’immaginavo. E’ un personaggio politico televisivo…raccoglierà le truppe locali dei 5 stelle. Invece. Il piazzale era stracolmo di gente, non solo di aficionados. Un trecento persone. A quell’ora di venerdì al freschino all’aria aperta, senza una campagna elettorale alle viste, non era facile accozzare tanta gente. Sul viale d’accesso ho trovato i primi conoscenti con cui mi son fermato, non più tanto ragazzi, abbiamo condiviso esperienze politiche e mangiate memorabili, alcune dal povero compagno Vacca (il caro Alfiero Palazzoli) che ripescava menù della tradizione: il baccalà, la rosticciana di maiale con le polezze, prosciutto e sughi fatti con le sue mani…cose d’altri tempi, come le nostre idee. Era imprevedibile averli trovati ma non assurdo, pensando alle percentuali di voti che il M5S ha preso a valanga anche a Cortona. Pur trascorsi anni dagli ultimi incontri, pareva avessimo in testa lo stesso disco politico. L’antipatico Renzi che vedendolo cambiamo canale, anche se non è facile sfuggirlo, perché televisioni e giornali viaggiano tutti sulle stesse lunghezze d’onda. Le cazzate del fiorentino ci hanno tormentato per tre anni, fino alle recenti catastrofi. Referendaria. La storia grigia del babbo. Le nomine di amici degli amici in aziende pubbliche. E, non ultima, la rottura con quelli del PD, che, bofonchiando, gli han retto il lume fino alla fine… Una storia italiana dei piani alti del palazzo, sulla quale c’è imbarazzo anche nei giornali e tv, sponsor più o meno occulti del fiorentino. Molti gli occulti. Non si sa bene le persone, ma la storia europea recente puzza di centri di potere finanziario e lobbies lontane dai problemi della gente (Grecia docet). Oltre 4 mila miliardi di euro spesi a salvare le banche, immaginiamo se anche solo una parte di questi soldi fossero stati destinati a politiche sociali…
All’assembramento altre facce note son giunte, attivisti di vecchi partiti in ruoli anche importanti. E, con un orecchio ai relatori e l’altro a quegli “strani” convitati, è trascorsa un’oretta in attesa del Dibba, incagliato nel traffico autostradale da Milano. Il Monte dei Paschi, la Banca Etruria… carnefici di risparmiatori, lo schifo dei costi della politica, il reddito di cittadinanza…i relatori dicevano la loro da “cittadini” piuttosto ferrati su cavalli di battaglia che non han certo inventato loro, e non appartengono a un partito o a un movimento ma sono sul groppone degli italiani. Altri commenti dei nuovi arrivati: “Tutta sta gente qui?!…Qualcosa sta succedendo!” “Non rimane che dargli fiducia… se si aspetta che i partiti trovino la via di rinsavire…” “Hanno il vento in poppa…speriamo”. Sette e un quarto, arriva Dibba. Sopravanza il primo ciocco di gente, ripetendo scuse per il ritardo e dando le mani. E’ uno spilungone che non m’aspettavo. Parla con calma. Spiega che ha imparato a non perder la pazienza davanti ai giornalisti che ai 5 stelle non fanno interviste ma interrogatori, e quando comincia un argomento “scottante” l’intervistatrice o l’intervistatore interrompe l’intervistato. Dibba avrebbe affinato la tecnica, per tenersi calmo e chiedere di finire il discorso, bevendo una birra…Il movimento è un fuoco acceso di partecipazione, e spiega che l’obiettivo principale è questo: ascoltare la gente, meglio ancora se la gente prende e fa da sé proposte e rivendicazioni… Inevitabilmente, sapendo dov’è (nella vecchia rossa toscana), ricorda la famosa intervista di Scalfari a Berlinguer: i partiti stanno occupando tutti i gangli della vita pubblica, asservendo lo Stato alle loro logiche…da cui discende il malaffare e l’opacità tra affari e politica, che non si misura più su temi comuni come trovare il lavoro ai giovani, ma, trincerata dietro tv e giornali, detta la linea. C’è poco da spiegare al pubblico di stasera, che ha piene le tasche dello sporco gioco di carrieristi politici senza scrupoli. A parte che, sere fa, ho sentito ripetere lo stesso concetto a un vecchio politico, Alfredo Reichlin, morto da poco. Diceva: non c’è sinistra senza popolo. Lo stesso dovrebbe valere per ogni organizzazione politica. Tornando a casa, dall’espressione della gente e dei relatori, ho pensato a una buffa associazione tra l’adunanza al Seven Point col film di Antonioni Zabriski Point: nel film un protagonista alla fine incendia un edificio simbolo del consumismo e dello svuotamento delle coscienze, mentre al Seven Point serpeggiava unanime l’illusione (speriamo di no) di bruciare la montagna di bugie politiche. Per tornare a fare e dire cose che servano effettivamente a un paese messo male, e non riempirsi la bocca di astratte sciocchezze: i populismi, l’Europa dei popoli, le banche, la riforma del mercato del lavoro… bla bla bla, foglie di fico per coprire nefandezze. Qualcuno ha pensato al partito della nazione: Reichlin ne ha rivendicato la genitura e Renzi la costruzione, un tantino diversa dal genitore che guardava al popolo, mentre Renzi a Verdini, Alfano, Berlusconi… A occhio, parrebbe che i 5 stelle si avvicinino più al partito della nazione. Speriamo non sia un’altra occasione persa. Comunque, meno campata in aria di quel che la sinistra in macerie (e che vi ha ridotto il paese) sta farfugliando di fare, col rispetto di quanti in buona fede credono possibile riformarla. Per rimettere il paese in cammino è necessario incidere sui privilegi di pochi, per trovare le risorse necessarie a ridare speranza a chi non ha lavoro, reddito, … fiducia nel futuro. E’una questione ottica: guardare i problemi dal basso.
www.ferrucciofabilli.it