Vero Mearini barista d’una gioventù bruciata, da passioni politiche e sessuali, in ozio burlesco

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Qualcuno indica nei bar del dopoguerra l’equivalente odierno dei social network, con più tempo a disposizione per i maschietti; le donne vi apparivano più volentieri in orario diurno, fino agli anni Sessanta. Soprattutto in certi bar e in ore serali, ritrovi di chiassose combriccole di giocatori a carte e biliardo, in ambienti fumosi e un tantino etilisti. L’emancipazione femminile è passata pure dal bar, insomma. I bar degli anni Sessanta e Settanta erano meno numerosi d’oggi nel nostro Comune. In seguito aumentati, specie nelle frazioni maggiori. Ma, in rapporto alla popolazione residente, a Cortona l’incremento è stato assai più vistoso, in funzione turistica.
I bar cittadini, all’incirca, avevano il loro pubblico particolare, a partire dai vicini residenti. Il bar dello Sport, la Posta Vecchia, il Signorelli, frequentati da dipendenti pubblici, bancari, postali, ospedalieri, e da cricche cementate dalla simpatia coi titolari, e dal turismo in crescita. Poi venne la moda della terrazza di Tonino, luogo di “acchiappi” estivi, vicino al bar di Enrico, sulla scesa di via Severini.
Il Circolo Operaio e il Benedetti avevano orari e pubblici propri di affezionati biscazzieri. All’Operaio, ritrovo frequentato e popolare, si giocava a carte e biliardo e si masticavano opinioni politiche e sindacali in prevalenza orientate a sinistra. Al Benedetti, più elitario e politicamente con simpatie più orientate al centro e a destra, le poste in gioco a carte erano a volte piuttosto alte, finanche case e terreni! – dai racconti frammentari del prof. Oreste Cozzi Lepri assiduo del Circolo. Il cui pubblico salace, è bene abbozzato da un episodio che pare attinto da Boccaccio: un giovane socio si presentò raggiante al Circolo annunciando le nozze imminenti. Dopo aver risposto alla domanda: “Con chi ti sposi?” i presenti, fregandosi le mani, esultarono: “Ah bene!… Così non andremo più al casino!” L’ignaro sventurato non aveva scelto una moglie dalle virtù specchiate…
In Ruga Piana c’erano gli specialisti pasticceri: il bar del maestro Emilio Banchelli a cui poi si aggiunse quello del Marconi.
Pur non vivendo in città, capitavo al bar di Vero, sulla ripida via Guelfa a poche decine di metri da piazza del Comune, ritrovo di alcuni compagni di liceo, Augusto Cauchi in testa, tra i più folcloristici e inquieti avventori.
Con la moglie Settimia (se non ricordo male il nome) e il figlio Marcello, Vero Mearini era il simpatico titolare del bar. Un po’ angusto. Due localini, in cui si giocava a carte e boccette e si tenevano accese dispute politiche tra appartenenti a opposte fazioni, che non di rado degeneravano in risse verbali, ma con soddisfazione dei contendenti che non aspettavano altro che ripetere quegli scazzi verbali. Un modo estroverso per carpirsi opinioni e mosse politiche tra fazioni in lizza.
Vero, magrolino, spiritoso padrone di casa, volentieri s’intrometteva nelle discussioni che si protraevano fino a notte fonda, tra un pubblico, spesso il solito, in cui a ognuno erano note le idee altrui. Perciò bastava un nonnulla per accendere la miccia di accese dispute polemiche, traendo spunto da fatti e vicende capitate a questo o a quell’avventore, o avendo a pretesto recenti prese di posizioni politiche di questo o quel partito. Le più infuocate e divertenti polemiche scoppiavano tra coloriture politiche avverse: simpatizzanti comunisti e fascisti, all’epoca numerosi e agguerriti; anche per il solo gusto di metter taluno in minoranza o in difficoltà dialettiche. Litiganti che, nel passare del tempo, hanno pure tessuto solide amicizie durature.
Il bar di Vero, palestra di dispute, era una specie di brutta copia del Giardino epicureo: giardino, significando in senso etimologico recinto murato, avrebbe retto la somiglianza fisica, sul versante filosofico non c’era perfetta affinità, nello stile e nella mescolanza degli adepti. A suo modo però luogo di formazione, strampalato quanto vuoi, dove i più sfacciati trovavano libertà d’espressione senza remore… al massimo si beccavano un vaffanculo o un’offesa! Che non ferivano più di tanto, se, l’indomani, era facile ricominciasse daccapo la medesima tiritera tra gli stessi.
E, come in ogni bar più o meno malfamato, tra gli argomenti in voga c’era pure la “topa”, nelle sue ricche varianti lessicali. Giudizi liberi su bellezze e virtù femminili, e su chi tra gli astanti fosse più abile nell’arte amatoria; venendo fuori una specie di tacita classifica tra volponi, mezze volpi, e chi non acchiappava neanche una passera da ferma! Insomma, a puntate, un visitatore di quel bar avrebbe potuto capire la storia la geografia e la filosofia dell’acchiappo femminile di quella gioventù bruciata (a parole) da passioni amatorie. Senza escludere l’esercizio più facile dell’ars amandi in alcove prezzolate, disseminate tra case private di hobbiste concupiscenti, alberghetti compiacenti, o nei pressi di raccordi stradali siti di notturni puttantour.
Quegli avventori zuzzurelloni erano capaci pure di scherzi più o meno tremendi. Di cui fu vittima lo stesso Vero. Una volta scoperto il portone dove spesso finiva la notte, che non era casa sua, dunque era chiara la scappatella, in qualche modo gli fu bloccata l’uscita dal portone. Dietro il quale, rinserrato, fu lasciato penare il povero smoccolante Vero. Non so quanto a lungo, ma tanto da montar una bella incazzatura.
Poi venne la moda dell’aiutino alla vigoria maschile, ma i più si vergognavano di andare in farmacia a ritirare personalmente il farmaco portentoso, con prescrizione medica a proprio nome e cognome. Allora, che si studiò? Complice Marcello, che nel frattempo si era impiegato come infermiere all’ospedale, iniziò un’impressionante serie di prescrizioni mediche del farmaco portentoso intestate a Vero. Così, in quel periodo, Vero divenne il maggiore consumatore (sulla carta) di Viagra, e, dunque, tra i maggiori sessuomani cortonesi… a sua insaputa.
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