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RICORDI SULLA MORTE (ALTRUI)
Nella mente di ognuno, la differenza tra la vita e la morte, riferita ad altre persone conosciute, è saperne l’esistenza e la possibilità o il desiderio di nuovi incontri se vive, mentre, se morte, ci si ingegna a ritualizzarne il distacco fino all’oblio, nella gran parte dei casi. Nel passato non lontano la scomparsa di un individuo era accompagnata dalla partecipazione della famiglia e da una comunità intesa come villaggio o come aggregazione sociale: partito, sindacato, associazione, … Consuetudine quasi scomparsa nell’epoca dell’atomizzazione familiare e sociale; nella stagione caratterizzata dalla solitudine, se non dall’indifferenza (apparente o reale) verso il prossimo. Infatti, non è raro vedere camere ardenti solitarie e funerali altrettanto deserti. Stentando a sopravvivere il senso di appartenenza di ciascun individuo ad una qualunque aggregazione come, in casi estremi, persino alla famiglia.
Quel che non cambierà mai è la singolarità del trapasso, nelle sue infinite espressioni: silenti, dolorose, angosciose, serene,…ogni morte è una storia a sé.
Avevo incontrato la morte, la prima volta in maniera sconvolgente, davanti al cadavere di mio fratello diciassettenne Leonardo che non si era risvegliato da un intervento chirurgico. Il sentimento prevalente, insieme al vuoto affettivo per la perdita del più intimo compagno di vita, fu lo stordimento nell’assurdo. Epilogo tragico nemmeno prospettato come vaga ipotesi dai medici curanti, che pure ebbero le loro responsabilità nel tenere un giovane decine di giorni in trazione col femore rotto e scomposto a causa di una muscolatura atletica, sottovalutandone dolosamente i rischi di una lunga attesa in piena estate in un ospedaletto d’infima qualità.
Passarono alcuni anni da quella frustata emotiva capace di sconvolgere la mente a mia madre e a me stesso, che fui incapace di proseguire gli studi intrapresi di medicina, costretto a ripiegare nella meno ardua formazione infermieristica. (A causa di una decaduta capacità di concentrazione e memorizzazione, indispensabili a governare la vastità nozionistica degli studi medico-chirurgici).
Così ebbi il primo impatto, da tirocinante infermiere, col dolore inteso come sofferenza fisica e psichica in una corsia di ospedale. Mentre accompagnavo un anziano e docile paziente al prelievo bioptico d’un frustolo di fegato, fu lo stesso malato a dire: “Questo ragazzo si sente male!” al medico e all’infermiere che avevano predisposto un siringone dall’enorme ago. L’associazione tra l’odore acre dei disinfettanti e l’impressionante siringa, che entrava nel costato per uscirne con un frustolo sanguinante di fegato, ebbero su me l’effetto d’un principio di svenimento: sudore freddo e pallore, notati dal paziente che avrebbe avuto ben altro a cui interessarsi!… Per fortuna non stramazzai a terra. Circondato da sguardi apprensivi e amorevoli, lentamente mi ripresi e fui in grado di riportare al letto di degenza quel paziente che lesse nel mio caos momentaneo un senso di partecipazione alle sue afflizioni, vere.
Quell’occasione si trasformò in vaccino: d’allora in poi riuscii ad assistere alle quotidiane manipolazioni mediche, anche intervenendo attivamente in situazioni molto crude ordinariamente presenti nella vita ospedaliera, senza più perdere il controllo di me stesso. Non solo, da allora considerai l’empatia con i sofferenti un tramite necessario tra chi assiste professionalmente e i malati che subiscono cure e manipolazioni nelle quotidiane battaglie per riconquistare la salute o per raggiungere tregue più o meno momentanee dalle malattie e dal dolore.
Dolore sparso in ogni angolo dell’ospedale, ma che in alcuni reparti è maggiormente concentrato e acuto, fino ad essere prodromo di morte, più o meno prevedibile. Curando le malattie si ha il vantaggio di prevederne pure il momento dell’evento irreparabile, previsione che, oggi, in molti casi è condivisa con l’interessato.
Un conto è immaginarselo, un conto è vivere in una corsia d’ospedale quale luogo di trapassi. Certo, medici ed infermieri devono costruirsi una solida corazza nell’affrontare quotidianamente lo spengersi di vite umane. Nella gran parte delle situazioni, oltre al malato e ai congiunti che l’assistono, l’infermiere, essendo il traghettatore più presente e conscio dell’imminente trapasso, nel diminuire i patimenti della carne cerca di dispensare parole di sollievo e illusione, finché la realtà non si fa stringente e irreversibile.
Condivido il sentimento comune che la morte migliore è di colui che non se n’avvede, come in un improvviso arresto cardiaco. Anche se, in ospedale, si tenta sempre il tutto per tutto pur di trattenere una vita, spostando sempre più in là il momento finale grazie a nuove tecniche e nuovi farmaci. Però, oltre certi limiti non si potrà mai andare e il trapasso è inevitabile, assumendo quei momenti, per ogni individuo, caratteri diversi, pur tra molte similitudini.
Il decesso intra-operatorio, di cui ho dato conto raccontando la prima esperienza personale, non è molto frequente per la scelta di non intervenire medicalmente senza un minimo di speranza, ed è assimilabile a chi scompare nel sonno. Tra i più “fortunati”. Negli infiniti altri casi avviene una sorta di battaglia, salvo i casi rari di chi attende “serenamente” di andarsene. Una battaglia segnata spesso dal terrore.
Ricordo il caso d’un motociclista deceduto andando a sbattere contro un albero. Trasportato in ospedale, già morto, notammo che nell’impatto fatale gli si erano incanutiti i capelli dallo spavento. Al contrario, l’operaio ucciso, perforando una galleria, da una massa di sabbia pareva addormentato; così come quel giovane motociclista, che, avendo arditamente impennato la motocicletta, s’era ribaltato rompendosi l’osso del collo all’istante. O come l’automobilista che, immettendosi nella strada principale senza avvedersi del sopraggiungere di un altro veicolo a tutta velocità, avendo anch’egli troncato l’osso del collo, pareva immerso in un sonno improvviso.
Dinanzi a quei cadaveri non era raro assistere al maggiore degli strazi nei congiunti; sofferenze improvvise che, mal ritualizzate, provocano effetti devastanti nei sopravvissuti, specie nelle madri di giovani ragazzi e ragazze.
Alla morte in molti casi si oppone resistenza, anche se in situazioni di incoscienza è l’organismo stesso a tentare la sopravvivenza, com’è nel caso di persone in stato comatoso che possono resistere ore, giorni, finanche mesi o anni in quello stato.
Su questi casi, in particolare, è centrato il dibattito sulla necessità d’un chiaro intervento normativo quanto più rispettoso della volontà del paziente (se espressa), o dei congiunti, se non espressa. In certi casi assistiamo ad accanimenti terapeutici, e ritengo non debba essere una “morale” pubblica a stabilirne i limiti, per quanto la gran parte dei medici interviene in soccorso silenzioso e coscienzioso a risolvere la questione: in modo umano e non ipocritamente moralistico.
Ben diversa è la resistenza alla morte in tanti altri casi, come nelle malattie degenerative, durante le quali è forte la volontà di vivere (o di farla finita) dell’interessato. In tali casi intervengono numerosi fattori a determinare i modi nell’affrontare malattie mortali, cercando, il paziente, ogni possibile appiglio più o meno razionale, più o meno confortato da letteratura scientifica. Ricordo i casi di pazienti che si sono appellati a ogni risorsa “terapeutica”, perfino alla stregoneria, a rimedi esoterici o a trattamenti medici non riconosciuti dalla medicina ufficiale. Non è il caso di giudicare, in questi casi, se l’atteggiamento sia più o meno razionale, per me vale il concetto di provarle tutte, senza escludere nulla, possibilmente consigliati da persone amorevoli, senza preconcetti e dotate di un sapere medico che, conoscendo i limiti della scienza, sa quanto possa valere la volontà di un individuo…anche di compiere prodigi, come nelle cosiddette guarigioni inspiegabili, rare, ma che ogni tanto accadono.
Un tale Luigi, di origini cortonesi dai simpatici baffetti, con cui feci amicizia in corsia, aveva contratto una leucemia inesorabile a seguito dell’uso di sostanze chimiche durante trattamenti fitosanitari. Aveva una gran voglia di vivere, ma, oltre le trasfusioni di sangue che lo tennero in vita per una ventina di giorni, non ebbe scampo. Mentre un altro operaio agricolo, vittima anch’egli di intossicazione per prolungati periodi di trattamenti fitosanitari senza adeguate protezioni, resisté solo una notte. Ricoverato la sera per insufficienza renale acuta, interpellato il centro milanese antiveleni di Niguarda, una volta saputo il prodotto manipolato dall’operaio, ce ne fu diagnosticata semplicemente la fine, non aveva e non ebbe scampo.
Più tribolata sembrava la fine degli alcolisti. Molti dei quali erano più volte caduti in episodi di allucinazioni, se non di coma epatico, ma che una volta smaltita la sbornia, riprendendo a bere, finivano per compromettersi gli organi irrimediabilmente. Come nel caso di un giovane barista di Foiano, a cui un edema generalizzato fece scoppiare e macerare la pelle fino alla cachessia finale, o, in molti casi, la causa della morte era lo scoppio incontenibile delle varici esofagee. L’agonia di costoro non durava a lungo, al massimo una intera notte di versamenti sanguigni sotto forma di vomito e feci. Osservando le facce delle assistenti, più spesso le mogli, ne capivi la rassegnazione, avendo vissuto accanto a quegli infelici congiunti da lungo tempo incamminati sulla strada di un lento suicidio. Spesso si trattava di persone giovani, che costringevano a toccare con mano gli effetti della temibile dipendenza alcolica: fisica e psichica, in persone dai caratteri, evidentemente, deboli, e dalle aspettative esistenziali insufficienti a intraprendere la strada della sobrietà. Devo dire, però, che non pochi forti bevitori conosciuti sono giunti fino a tarda età, essendo stati capaci di non superare certi limiti nei consumi alcolici (soprattutto vino) e di non ingurgitare mescolanze pazzesche di liquori (amari, vermout, vinsanti, …), quanto, invece, non erano in grado di fare quegli altri che si bruciavano la vita come un fulminante e non già come una candela…
Anche se molti l’avranno pensato: “non voglio morire!”, ho sentito uscire da poche bocche quell’espressione. Sebbene ci sono stati, magari esprimendosi solo in sguardi; senza distinzione di età o di credo.
Per quanto evento naturale, la morte, nella cultura generalizzata, è un evento temibile e terribile Anche per chi crede questa vita prodromica alla “vera” vita nell’aldilà. Se pure, a tale scopo, avevano orientato la loro etica e il loro spirito di rinuncia a tanti piaceri per raggiungere quell’agognato paradisiaco “aldilà” … ma, nella sua prossimità, la morte raramente è considerata quel sonno eterno e luce perpetua, predicato dalla religione, in attesa della resurrezione, bensì il sentimento prevalente è la fine di tutto, immersi nei tormenti del dolore.
Tanto vale godersi la vita…che già di suo può essere inferno o paradiso.
A me non piace fare facili moralismi affrontando l’argomento della morte. Ho solo un ricordo vivido delle ultime parole del beccaio Renzo rivolto ai congiunti: “Non piangete per me, ché mi sono divertito tanto!”.
Vissuto senza risparmio nella pratica edonistica consentita nel suo ambiente e nel suo momento storico: libertino ruspante e insistito (amava ricambiato le donne), praticando amicizia e convivialità, cercò di non farsi nemici, e trattò il prossimo onestamente, tal che, in punto di morte, fu lui stesso a confortare i propri familiari!
Il ROSSO de’ PINCO, appassionato di macchine agricole e della pastasciutta
In tuta blu e cappellone di paglia, alto e robusto, alle battiture, da “macchinista” era il padrone dell’aia. Mario Lorenzoni, detto il Rosso de’ Pinco (soprannome dei Lorenzoni) dal colore inconfondibile del pelo, per anni, gli era pure garbato il rosso comunista. Passione politica da cui s’allontanò incazzato per lo sgarbo inflittogli dai compagni quando gli tolsero la soddisfazione d’un incarico da bidello part time presso la palestra comunale, procurato dall’amico democristiano Beppe del Frappa (il Tiezzi). Freddamente, sostituito dal compagno Robin Hood, più simpatico ai vertici di partito.
Quel lavoro, era tra i tanti con cui s’ingegnò per mantenere la famiglia. Di suo aveva un trattore – Landini a testa calda – e alcune macchine agricole, con cui lavorava in terreni presi in affitto o per conto terzi, e una piccola sgranatrice del granturco. Un giorno ce lo sfotterono pure: “Tu ce l’hai piccolo!” alludendo alle dimensioni ridotte del suo battitore, ma lui, pronto, rispose: “E’ per mettertelo meglio in culo!…” con persone volgari, non andava per il sottile. Andava in giro con la sgranatrice fino a Seano, in montagna, impiegando un giorno per andare e un giorno per tornare.
Che si trattasse di battere il grano o sgranare mais, nell’aia, il macchinista non era deus ex machina bensì il deus in machina: teneva i ragazzi discosti dai pericoli (pulegge, cignoni, sbattitori, imboccatore,… rischiosi anche allo stazionamento degli adulti) e, con pari autorevolezza, ordinava a ciascuno le mansioni da svolgere. Quel regno provvisorio d’un giorno era consacrato a tavola, dove il macchinista riceveva un trattamento di riguardo: pastasciutta e arrosto a volontà! Lui era pastaio. Pane e pastasciutta, i cibi preferiti. Per una specie di contrappasso, in vecchiaia, s’ammalò di diabete dovendo ridurre al massimo cibi farinacei. In tarda età scoprì pure il gusto per le banane, divenendone fruitore compulsivo. A tavola, insomma, fu un conservatore dai gusti semplici.
Viveva nella passione per i trattori e la campagna. Ogni anno s’aggregava a una comitiva paesana (tra cui i Milani, proprietari e amanti di attrezzi agricoli, e uno noto come “Milanino” ricercato fisarmonicista in feste ruspanti) assidua frequentatrice di fiere. In testa, la preferita era quella di Verona. Per il Rosso, equivalente all’esposizione universale dei balocchi: la più vasta rassegna di meccanica agricola di sua conoscenza. Amico pure dell’altro appassionato Quinto Santucci, coltivatore benestante, dedito a una spettacolare raccolta museale di attrezzi vecchi, tra cui troneggiavano un paio di macchine a vapore rimesse in funzione – ancora in grado di smuovere vecchie battitrici.
Senza pregiudizi, amico di tutti, il Rosso de’ Pinco frequentò pure un Menci, che si diceva discendente d’Angelo Menci (alias “Giuggiolone” o “Vento”) un castiglionese alle cui vicende familiari risaliva il detto popolare: “Faccio come il Menci!” o “Faccio come Giuggiolone!” – come minaccia usata contro un rompicoglioni – che ammazzò tutti i familiari (7), tre vicini, oltre le bestie nella stalla (qualcuno aggiunse pure il gatto!). Chi con oggetti da taglio, chi col fucile. L’origine della tragedia, secondo alcuni, fu la vedovanza di Angelo, allorché la moglie morente l’avrebbe diffidato a risposarsi. Ma lui, disobbedendo, ricostruì una famiglia, con moglie e figli. Un giorno un cane nero gli avrebbe traversato la strada, quel fatto gli fece ribaltare il cervello. Tornato a casa, compì quello sterminio di persone e animali. Il cane nero sarebbe stato la prima moglie riapparsa in quelle sembianze. Altri sostennero che il cane fosse il diavolo… Il diavolo, poveretto, è una presenza costante nelle disgrazie tramandate dal popolo. Un’altra versione addebitò la tragedia agli affari che gli andavano male: non avrebbe retto al pensiero di vedere i figli costretti a mendicare.
Il Rosso amico di tutti, gigante all’apparenza burbero ma di buon cuore, era capace di conservare segreti, non raccontando confidenze ricevute neppure in casa. Riservato, paziente nell’ascolto e nel dispensar buoni consigli o parole consolatrici, insieme ad altre doti nascoste, gli valsero l’intimità di molte donne del circondario, trovandolo complice affidabile dei loro bisogni più o meno confessabili. Segreti che sarebbero finiti sepolti con lui, salvo spifferi usciti dalle concupite, per sputtanarsi a vicenda. Nelle attenzioni femminili non trascurava l’aiuto a preparare dolci, scaldando il forno o rendendosi disponibile per ogni altra evenienza. Piccole disponibilità, come carta moschicida, per ingraziarsi i favori dell’altro sesso.
Sotto i pini di Pinco, vicino casa sua, nella bella stagione si radunava gran parte del vicinato: dai bimbi agli anziani, tutti a raccontar le proprie storie e ascoltarne di altri. Nel gruppo senza leader, si distinguevano: lo spiritoso Migljo dell’Iseleno, giocatore a carte e boccette, Benito detto il Bocca, Bruno Baldi il falegname – che costruiva gratuitamente giochi di legno ai bimbi del caseggiato -, lo Zi’ Nanni, zio di Migljo, vecchio scapolo zio di tutti; e, all’imbrunire, in lontananza un rosario di bestemmie segnalava l’arrivo di Beppe de’ Pinco, che tornava da “spennato” a carte.
Comunisti, fascisti, democristiani,… persone d’ogni età, estrazione, o idea politica, per ore, s’intrattenevano in allegra combriccola all’ombra di via Murata, nel luogo noto come: i pini del Rosso de’ Pinco.
A BUDAPEST ho trovato semplicità e garbo
Viaggiando, ovunque, ci facciamo delle idee abbastanza conclusive su un luogo: piacevole, interessante, niente di nuovo, insignificante, eccezionale,… insomma, da pochi o tanti particolari, diamo un giudizio che fissiamo nella mente con le cose da ricordare, o da sconsigliare nel caso un amico ci chiedesse dove andare o che vedere. Su Budapest, dopo un soggiorno di una settimana, al ritorno ho atteso un po’ di tempo prima di esprimere un’idea.
Pur nella vaghezza del giudizio, direi che ho visitato una città ben organizzata, con gente semplice e garbata. Partendo dalle persone incontrate per strada, nei ristoranti, in albergo, in metropolitana, nei negozi, nei musei,…incontri facce pulite, tranquille, non accigliate, vestite con fantasia, ma senza ostentazione né tanti “trucchi” nelle facce femminili (maschi gender non m’è sembrato di averli incontrati, ma anche fosse stato, anche loro sarebbero stati senza trucco); con una marcata civetteria femminile persino tra donne di una certa età: usano molte minigonne, camuffate pure con pantacollant, o in gambe coperte da calze scure. In effetti, nessuna che abbia visto stonasse in miniabiti, pure in quel clima sempre nuvoloso, di un autunno, per me, rigido e piovigginoso. Lo stesso carattere personale non aggressivo, accogliente, o di tollerante indifferenza s’incontra nello shopping, nella reception dell’albergo, o al ristorante. Molte facce giovani parlano un buon inglese, cortesi, ma senza smancerie.
Quando viaggio non cerco la sorpresa, anche se non mi dispiace imbatterci, ma nella mia giovane accompagnatrice, mia figlia, i primi giorni ha pesato quell’assenza di straordinarietà, al punto di sentirsi quasi pentita d’essere stata lei a scegliere quella meta. Anche se alla fine del viaggio non era più pentita, conscia che l’esperienze di viaggio sono imprevedibili, pur avendo lei stessa studiato in dettaglio i luoghi da vedere.
In alcune guide si fa l’errore di definire Budapest come un ibrido tra Praga e Vienna. Sarebbe più corretto dire che hanno molta storia in comune, ma le similitudini son sempre un azzardo e l’errore della guida condiziona assurde aspettative di banali comparazioni. Sono città fluviali, sono state condizionate dall’impero austro-ungarico, hanno storie di battaglie contro le invasioni turche, consumano molta più birra degli italiani (di quella Ceca si dice sia tra le migliori al mondo), geograficamente sono il cuore d’Europa (Mitteleuropa),…però non c’è dubbio che i “popoli” siano diversi, com’è diversa la loro storia politica e culturale dal secondo dopoguerra. Periodo in cui l’Austria ha rappresentato il di qua dalla “cortina di ferro”, mentre ungheresi e cecoslovacchi sono stati al di là, con quei tentativi di ribellione che ci ricordiamo: nel 1956 quella ungherese, e quella cecoslovacca nel 1968. Anche se il compagno Nando direbbe che in fondo il comunismo non sarebbe stato del tutto inutile per quelle genti, affrancate da smaccate differenze di classe, e instradate a una visione laica della vita, che fa di questi paesi una supposta Mecca dei libertini del sesso. In realtà, sia a Praga che a Budapest, l’eventuale libertinismo sessuale non è spudoratamente ostentato come in molti quartieri tedeschi, olandesi, belgi, ecc.
Un paio di fatti storici pesanti hanno condizionato la diversità ungherese dalle altre due capitali Praga e Vienna. L’Ungheria come l’Austria, dopo la prima guerra mondiale, hanno perso larga parte dei loro territori, ma tale scorporo territoriale, credo, abbia mortificato più di tutti gli ungheresi, o meglio il popolo ungherese sparso qua e là, fino all’attuale Romania. E mentre a Praga c’era una sorta di bilinguismo, per lo meno tra le classi medio – alte, ceco-tedesco (ricordiamo Kafka, scrittore praghese che letterariamente s’espresse in tedesco), e a Vienna – capitale politica e culturale dell’impero – nella prevalenza del tedesco s’incrociavano ceppi linguistici slavi e l’italiano, invece, gli ungheresi erano e sono fieri del loro difficile linguaggio ungaro-finnico, tra le più complicate lingue da imparare. Perciò, non è secondaria la loro forte identità linguistica che si è tradotta in tradizioni identitarie secolari tali da essere stati i primi a volersi liberare dal “giogo” sovietico, così come oggi i loro governanti rifiutano la richiesta di accoglienza proveniente da paesi di cultura islamica, temendo, forse, insieme all’aggravio economico una intrusione che potrebbe rivelarsi dannosa per la conservazione di equilibri nel loro modus vivendi.
L’altra grande differenza, tra Praga e Vienna da un lato e Budapest dall’altro, è che, durante la seconda guerra mondiale, mentre le prime due rimasero sostanzialmente in piedi, Budapest fu quasi rasa al suolo: circa trentatremila edifici furono bombardati, tra cui il Parlamento e l’antico Castello che domina Pest dalla collina di Buda. Fu un danno immenso per una economia non certamente ricchissima. Se si pensa che, a Patto di Varsavia imperante, per acquistare auto Volkswagen ogni anno si dava in cambio ai tedeschi una sterminata coltivazione di cipolle nella Puszta.
Non c’è dubbio che, da sempre, gli ungheresi siano molto laboriosi, come sorridendo mi ha confidato un commessi di negozio: “I miei turni di lavoro, dalle 10 alle 18, sono di 365 giorni all’anno”, in ottimo italiano. Così come una trentina di anni addietro, ad Eger, una delle maggiori città ungheresi, Leonardo, un maturo insegnate di lingue, mi raccontò che per vivere dignitosamente avrebbe svolto ben tre lavori nell’arco delle ventiquattro ore. E che questa consuetudine non era la sua eccezione ma la regola per molti, tantoché un sacco di gente sarebbe morta d’infarto per star dietro a quei ritmi infernali di lavoro!
Budapest ha di nuovo ricostruito il suo Castello, sede della galleria nazionale, dove è raccolta arte antica e moderna, con qualche quadro eccellente anche di pittori italiani, tra cui un Raffaello Sanzio. Come pure è stato ricostruito il Parlamento, sul modello di quello londinese, e, cancellando il tragico sfregio edilizio bellico, sono di nuovo in piedi molti degli edifici in stile Art Nouveau di cui era ricca la città. E, da città colta, non mancano Musei tematici, come quello musicale dedicato a Franz Liszt tra i massimi compositori e maestri ungheresi; o quello ispirato alla memoria della Shoa, in una città dove la presenza ebraica era consistente, si dice che i nazisti usassero i più facoltosi come una specie di Bancomat: cioè invece di procedere a massicce retate, riservate ai più poveri, prendessero di mira di volta in volta i più facoltosi facendosi sborsare soldi in cambio della vita; o l’altro museo dedicato alle due esperienze tragiche: del nazismo e del comunismo, riadattando a museo l’edificio (colorato esternamente di grigio) dove venivano imprigionati e torturati i dissidenti politici. Ancor più suggestivo, perché costruito in una enorme grotta naturale sotto la vecchia Buda, è stato trasformato in museo delle cere l’ospedale sotterraneo in funzione durante la seconda guerra mondiale, restaurando ambienti e creando personaggi di cera che danno la precisa assonanza tra le funzioni del luogo e quanti vi soggiornarono: militari, medici, infermiere, soldati feriti, ecc. a fianco delle attrezzature usate e agli impianti erogatori dell’acqua della elettricità e del condizionamento dell’aria. Esperienza non consigliabile a chi soffra di claustrofobia, ma certamente più intrigante di civettuoli musei delle cere presenti in altre città europee. Agli amici dei social network avevo già segnalato il mio stupore di fronte alla cura puntigliosa con cui sono sparsi in città monumenti, lapidi rievocative, mezzi busti, cippi, ecc. evocanti personaggi illustri della storia locale e nazionale: soldati, artisti, musicisti, letterati, sportivi, giornalisti, uomini politici, ecc. una mappa dettagliata e diffusa di presenze del passato a cui il passante può dedicare qualche attimo di attenzione. (In tale occasione, un amico internauta, mi segnalò il suo ricordo di un capodanno a Budapest in cui assisté in un grande ristorante a un commovente canto – per celebrare il nuovo anno – dell’inno nazionale, tutti visibilmente commossi e partecipi, come prova del forte vincolo popolare al proprio paese).
Per quanto si stiano facendo largo marchi internazionali della ristorazione e della moda, esistono ancora molti negozi di produzioni gastronomiche, enologiche e artigianali tipiche. Così come, a fianco di una ristorazione adattata ai gusti internazionali, si possono trovare locali in cui si gustano cibi tradizionali, mescolati a ungheresi nel momento della loro pausa pranzo.
I servizi di trasporto pubblici sono ben organizzati, estesi a tutta la città, e molto funzionale è la metropolitana, che, mi pare di avere letto, sia stata la prima in Europa ad entrare in funzione. Luogo di incontro e di scambio di giochi di sguardi con facce ordinarie d’una città pulsante, ma non frenetica, così come accade nei pochi grandi centri commerciali visitati (non tanto per la mia, quanto per la curiosità della figlia, dove non c’è nulla che non si trovi in ogni altra città al mondo)
GUIDO CALOSCI una vita immersa nell’odore dell’inchiostro
Operaio tipografo negli anni ’30 del Novecento, deciso a mettersi in proprio, beneficiò indirettamente della Lotteria di Tripoli: allorché l’amico Alfredo Cariaggi – il cortonese vincitore sommerso da una montagna di quattrini – firmò a Guido le cambiali necessarie all’acquisto della locale “Tipografia Commerciale” messa in vendita dal Francini. Si trattava di una pioggia di soldi, ma a metà. Infatti, un altro cortonese riuscì a bloccare in tribunale la metà della vincita, pretendendone la divisione. Alla fine, Cariaggi la spuntò ricevendo anche l’altra metà del malloppo, ma quando il valore della lira era molto svalutato.
I locali della tipografia del nuovo proprietario Guido Calosci – classe 1892 – in via Passerini 4, al primo piano, si rivelarono inadeguati, anzi, pericolosi: incapaci a sostenere il peso delle attrezzature: una mattina, il pesante tagliacarte era precipitato nel piano sottostante! (Più o meno a quell’epoca, per la stessa causa – solai fatiscenti – durante una veglia funebre alcune persone precipitarono col morto al pian terreno).
Essendo costoso far impresa, Guido risparmiò anche sull’acquisto dei caratteri: scelse gli eleganti Elzeviro in quantità appena sufficiente a stampare, al massimo, ottanta pagine (cinque sedicesimi) d’un normale libro. Ricordiamo la pazienza certosina e la precisione richiesta, allora, per stampare una pagina: dovendo assemblare uno ad uno i singoli caratteri di piombo dentro una cornice di legno, detta “vantaggio”, nel formato dell’oggetto da realizzare: locandina, manifesto, rivista, o pagina di libro. Nel caso dei libri, una volta compilate e stampate le prime ottanta pagine, Guido doveva scomporle per riadoperare gli stessi caratteri nell’assemblaggio delle pagine successive; un cuci e scuci insistito fino all’ultima pagina. Non a caso, l’ho definita: “pazienza certosina”. Fino all’avvento delle linotype, paragonare il tipografo al monaco amanuense non è azzardato. E solo metodici alla Guido potevano dedicarsi a quel mestiere. Il quale si fece clienti sparsi in tutta Italia.
A partire da Cortona: il Comune, l’Ospedale, l’Accademia Etrusca, la Banca locale, poi vennero le Università di Palermo, Torino, Roma, Firenze, ecc. specializzandosi in testi di Diritto Romano e di Economia Politica. Volumi da comporre in greco ed anche con complicate formule algebriche. L’apertura del filone produttivo scientifico scaturì dalla pubblicazione d’una tesi di Laurea, premio universitario a uno studente laureato con Lode. Così presero contatti con la tipografia noti docenti: Bonfante, Scialoja, Riccobono, La Pira, Segré, Sensini, Chiazzesi, ecc., che poi incaricavano importanti case editrici per la distribuzione e la vendita.
Problemi a Guido non mancarono. Come quando, ultimata la stampa d’un volume ordinato e pagato dall’“ebreo” torinese prof. Gino Segré, a mezzanotte si presentò il maresciallo dei carabinieri per il sequestro di tutti i volumi – già predisposti nelle casse per la spedizione -, in forza delle leggi razziali che proibivano pubblicazioni d’autori ebrei. Delle casse pronte, il maresciallo suggerì a Guido di nasconderne una per spedirla all’autore-committente una volta passata la “nottata”. E così fu. Caduto il Regime, la cassa dei libri raggiunse Gino Segré.
Non erano segrete le idee “sovversive” di Guido il quale, di famiglia socialista, durante un soggiorno di lavoro a Roma, abbracciò idee comuniste conservandole sempre, convinto dalla scandalosa disparità sociale tra i signoroni che viaggiavano in carrozze trainate da quattro/sei/otto cavalli e i morti di fame che languivano nelle strade della capitale. La categoria dei tipografi rappresentò antifascisti risoluti, fino allo sciopero. Anche a Cortona, gli artigiani – a fianco di operai e contadini – divennero antifascisti strenui e organizzati. Come raccontò Pietro Pancrazi, nella “Piccola Patria”, a proposito delle tipografie cortonesi che, nello stampare volantini o manifesti clandestini, si scambiarono i caratteri per confondere la censura. Pietro Pancrazi fu cliente assiduo di Guido, come il fratello Luigi, di cui si ricorda la battuta scambiata col commediografo Corrado Pavolini, incontrandosi in tipografia: “Anche tu hai questo vizio?!” Accomunati dallo stesso piacere di pubblicare scritti, simboli di vitalità culturale e di libertà.
Pubblicamente Guido dovette adeguarsi, indossando la camicia nera. Minacciato dal Podestà di cancellarlo dai fornitori degli Enti Pubblici, come padre ritenne prioritario far crescere i quattro figli: Enzo, laureato in Fisica alla Normale di Pisa, Adele, Giuseppe – continuatore dell’azienda, cambiandone la ragione sociale, da “Tipografia Commerciale” a “Grafiche Calosci”- e Sonia, che il prete non avrebbe voluto battezzare per quel nome esotico sospetto di filo-bolscevismo. Sebbene fosse il segreto di Pulcinella: Guido seguitava a condividere idee comuniste. Tantoché un dì, in una strada di Cortona, Ceppodomo (produttore di pastasciutta), vedendo Guido in camicia nera, commentò: “Tu sei come i fichi di Sant’Antonio: nero di fuori e rosso dentro!” Anche per i camerati era un rosso di cui, però, non disdegnavano la compagnia. Come quel giorno, nel ristorante al Torreone, riuniti a bisboccia, nel finale del convivio un fascista, fintosi ubriaco, tirò fuori la pistola urlando: “Dobbiamo farla finita con questi sovversivi!” e, premuto il grilletto, sparò a Guido. Il quale, sbiancando, cominciò a tastarsi e, con un filo di voce, pappagellò: “Dove so’ morto?!…” ma lo sparo fu a salve. Oltretutto Guido aveva trascorsi patriottici importanti: combattente nella prima guerra mondiale, e ben tre dei suoi fratelli v’erano rimasti uccisi. Mentre lui era tornato dal fronte sotto un’altra minaccia per la sua vita: la febbre spagnola. Quando nel vagone s’avvidero di lui febbricitante, in men che non si dica, scapparono tutti! Nel locale ospedale-lazzeretto, la malattia decorse benigna, non senza postumi: transitoriamente, Guido era svampito. Il medico, vedendo che ce l’avrebbe fatta, lo prese a cuore e una sera lo portò al Teatro Signorelli, dov’era in scena: “Il cardinale Lambertini”. Nella quale, il cardinale, in confessione, conobbe il vero assassino d’una persona della cui morte, invece, era stato incolpato suo fratello. Al fine di scagionare il congiunto, il cardinale si finse pazzo. A quel punto della commedia, si verificò un siparietto divertente: Guido, pensando che l’attore/cardinale pazzo stesse parlando con lui, iniziò a rispondere, finché l’amico medico fu costretto a portarlo fuori dal teatro.
AGOSTINO dalla Legione Straniera a venditore di “materazzi”
Ai lati, nel rettilineo tra Ossaia e Camucia, son collocati cartelloni con messaggi pubblicitari di aziende di cui conosciamo questo o quel familiare, ma d’una m’era rimasto il mistero: Materassi Hawaiy flex. Per quanto intrigante, l’allusione al tepore tropicale, rovistando tra conoscenti, non trovavo cortonesi dediti a produrre il conforto del sonno – caso mai lo commerciavano. Notando quella pubblicità, negli anni Ottanta, pensai a un’impresa difficile, forse di breve durata. Condizionato dai discorsi insistiti in Consiglio Comunale, specie di Alarico Pazzaglia – un amico, residente non lontano dalla sede del PIP – il quale sosteneva che non vi si producesse granché… prevalendo il commercio sulla produzione (ma, dico io: non si produce per vendere?). Per fortuna, a distanza di anni – durante una crisi economica terribile – ci sono ancora commercianti nel PIP, insieme a produttori pure di alta gamma – con marchi propri o per conto terzi -, compreso il materassaio, che finalmente ho conosciuto. Ed è stata un’esperienza da raccontare.
In un fondo della sua azienda, m’ha ricevuto Agostino Raffaelli, il titolare, seduto ad un grande tavolo cosparso di oggetti vari, compresa una damigianetta – penso di vino – e una filza di telefonini ogni tanto trillanti. Lieto di svelare la sua storia intrigante.
Nato a Roma – gennaio 1933 – nel quartiere popolare di san Lorenzo, fin da piccolo si manifestò, a dir suo, un “ribelle”. Tra il discolo e l’ipercinetico: insofferente dei banchi di scuola già in terza elementare, e, sempre a quell’età, tentò le prime fughette da casa. Un giorno, il babbo trovandolo al girello in ore scolastiche a giocare a “tappi”, l’indomani, decise d’accompagnarlo in classe per sincerarsi sui giorni d’assenza. Il maestro supplente, interrogato, disse: “Son qui da un paio di mesi, ma suo figlio non l’ho mai visto!” Quando la madre dava ad Agostino qualche soldo per spese domestiche, era facile che non rientrasse a casa per giorni, finché non aveva speso tutto in cibo e bevande. A dormire s’arrangiava: negli androni o in soffitte, compresa quella di casa; dov’ebbe pure la compagnia sgradita d’un grosso sorcio di cui, impaurito, si liberò a calci, mandandolo in bocca al gatto acquattato sulle scale.
Il luglio ’43 fu terribile per il quartiere di san Lorenzo. Bombardato dai futuri alleati, suo padre rimase sotto le macerie, Agostino, con mamma e sorella, si rifugiò a Borgo Velino, nel reatino. Ma anche lì, il “ribelle”, in agosto, scappò di casa. Girovagando, giunse al campo d’aviazione a Rieti, incontrando l’ospitalità degli avieri. Ma durò poco. L’8 settembre, i militari fuggirono mentre sopraggiunsero altri armati: fascisti e tedeschi. Rimasto solo, gli fu chiesto dai nuovi arrivati: “E tu, che fai qui?” raccontò che, in aeroporto, prestandosi a lievi incombenze si era trattenuto coi soldati (non c’era da meravigliarsi, in pieno conflitto, d’un ragazzino disperso dalla famiglia). Aveva dieci anni. Rimasto simpatico anche ai nuovi arrivati, fu aggregato come mascotte della Legione Tagliamento. Vestito di tutto punto in divisa da camicia nera, compreso il distintivo della M rossa, e dotato di un moschetto. Fanatizzato dalla divisa, incosciente, stette in mezzo ai pericoli bellici dal ’43 al ’45. La legione Tagliamento, operativa a Vercelli, affrontò partigiani e compì rappresaglie. Orrori che gli furono risparmiati, essendo ancora un bambino.
Negli anni successivi alla guerra, fino a settembre ‘53, adolescente, s’ingegnò in mille mestieri, fin quando un amico gli suggerì: “Agosti’, perché non andiamo nella Legione Straniera? Si guadagna bene, e qui non c’è molto da fare!…” L’amico più grande, era del ’30, convinse Agostino a racimolare un po’ di soldi necessari per l’espatrio avventuroso, fino a Marsiglia, dove arruolavano nella Légion Étranger.
Gli fu dato un nuovo nome: Raphael Rossi. L’impatto fu duro, col rigore militare dei Legionari e con l’addestramento in zone selvagge Algerine: tra Sidi-Bel-Abbes a Bossouet, fino all’aprile del ’54. Se facevi il letto non avevi tempo per la colazione e viceversa, ma saltando la colazione non eri punito, mentre non facendo perfettamente il letto, invece della libera uscita venivi consegnato… questi erano gli avvii delle giornate! prima di lunghe marce spossanti. A sera, Agostino aveva i suoi momenti di fortuna sfacciata al gioco delle carte: vinceva sempre! E senza trucchi.
Gli capitò di vincere soldi a un mafioso siciliano (Sidone) a cui aveva fatto prestiti, ma al momento dell’incasso della vincita il siciliano mostrò le sue intenzioni cattive: invitandolo a battersi, tirando fuori una lama smisurata! Davanti alla quale Agostino s’arrese senza battersi, facendosi amico il siculo tremendo, confermandosi ancora una volta “ribelle” all’acqua di rose: gli piaceva trasgredire e ribaldeggiare, ma gli mancava la stoffa dell’avventuriero duro che sfida impavido persone e pericoli. Anzi, in pericolo, cercava sempre vie di fuga.
Nell’aprile del ’54, imbarcato nella nave Pasteur raggiunse Haiphong, e, da lì, Hanoi. Il primo incarico fu facile: a dirigere il traffico cittadino. Ma, un brutto giorno, stipato con altri cento nei camion raggiunse la zona di combattimento, dove scoprì la tragedia della guerra. Appena scese dal camion in una zona paludosa, con pochi villaggi sparsi, fu accolto da crepiti d’arma da fuoco ed esplosioni di bombe provenienti da tutte le parti. Agostino, scoppiò in lacrime, proseguendo in quell’inferno domandandosi disperato: “Ma che so’ venuto a fa?!…”.
Dormiva sulla paglia di riso, ma una volta scovatoci un serpente preferì riposare all’aperto… recandosi a prelevar acqua potabile, s’imbatté in un cobra…dopo una notte intera trascorsa in agguato, immerso nell’acqua d’una risaia, s’avvide coperto di sanguisughe in tutto il corpo… Trascorsi 4-5 mesi di questa vita orribile, con altri quattro commilitoni s’intesero: “Perché non ce la squagliamo? Qui ci lasciamo la pelle! Fuggiamo verso il confine Cinese!…” non lontano. Avevano pure la mappa.
Per due giorni marciavano la notte e riposavano il giorno, ma furono scoperti catturati e disarmati dai Vietcong. Agostino s’arrese subito, col presentimento tragico: “Qui facciamo una brutta fine!”
Chiariti i motivi della loro presenza in quella zona, non furono uccisi, bensì usati dai Vietcong come testimonial – esibiti qua e là – nella propaganda antifrancese: “Sono disertori, simpatizzanti comunisti!…” la gente curiosa li osservava e li toccava nelle parti irsute del corpo dove gli orientali sono glabri o scarsamente pelosi.
Cinque mesi di prigionia in mano ai Vietnamiti: senza catene, potevano circolare liberamente…nella foresta. Era impossibile fuggire, disarmati com’erano avrebbero fatto una brutta fine: ripresi dai Viet o incontrando le tigri.
Scarsamente nutrito con un po’ riso e carne di serpente, cane, maiale,…Agostino deperì: “Non ce la faccio più!” era giunto al lumicino. Quando ai prigionieri comunicarono uno scambio di disertori con i francesi. Erano trascorsi 5 o 6 mesi d’inutile e rischioso vagabondaggio per tornare da dov’erano scappati. Prospettiva per nulla allettante.
Ricoverato in ospedale, Agostino fu rimesso in sesto, ma l’attesero le cure del Deuxième bureau: i servizi segreti. Interrogato, il prigioniero-disertore sostenne che l’unica intenzione era tornare a casa per scampare da quell’inferno, però i carcerieri, non convinti o incavolati da quella giustificazione, lo caricarono di botte!
Nel frattempo, riuscì a informare la mamma che l’attendeva un processo per diserzione. La donna premurosa e accorta, interpellando la Croce Rossa Internazionale, riuscì a procurargli l’intervento al processo, come avvocato, di uno dell’ambasciata italiana. La diserzione in zona di guerra era punibile con la fucilazione, Agostino se la cavò con 10 anni di galera da scontare alla Santé.
Trascorso un mese di carcere a Saigon, fu imbarcato nei bassifondi d’una nave passeggeri scandinava, diretta in Francia, insieme a una novantina di galeotti della peggior specie, che sottoposero Agostino a sopraffazioni e violenze brutali. Ricordiamo, lui era un ribaldo ma incapace di prepotenze o violenze. Anzi, temendo e ripugnandogli la violenza, diveniva facile preda di gentaglia senza scrupoli.
A Singapore, alcuni tentarono la fuga dalla nave, ma catturati dagli inglesi furono riconsegnati ai carcerieri. In caso d’evasione, funzionava l’intesa reciproca tra le due potenze coloniali inglese e francese: i fuggiaschi venivano catturati e riconsegnati al legittimo detentore senza scampo e nel minor tempo possibile. Tuttavia la piccola scorta di carcerieri francesi era troppo invitante affinché i galeotti non tramassero altre fughe. Un’altra fu programmata al porto di Suez. Anche se per cautela la nave stazionò lontano dalla terra ferma, i galeotti attuarono una clamorosa ribellione in un gran parapiglia – con otto morti – disarmati i carcerieri alcuni galeotti si gettarono a nuoto. Finché non intervennero le guardie egiziane che sequestrarono le armi dei carceri francesi, giustificandosi: “Qui siete nel nostro territorio e armati siamo solo noi! Vi ridaremo le armi, passato il canale di Suez!” Agostino, troppo distante dalla terraferma, preferì non gettarsi in acqua, conscio delle sue scarse capacità natatorie. Tuttavia rifletté sull’importante novità: le guardie francesi erano disarmate. Perciò sarebbe stato impossibile ricevere una scarica di pallottole in caso di fuga durante la traversata del canale, in cui le bracciate per giungere a riva erano alla sua portata. Agostino, rotto l’oblò, si gettò in acqua arrabattandosi alla bene meglio a nuoto, fino a giungere a riva lordo di petrolio e delle acque di scarico delle navi in transito. Incamminatosi lungo l’argine, sul versante israeliano, il più pericoloso perché ancora minato, fu sorpreso da una motovedetta inglese che gli intimò di fermarsi: in inglese, francese, arabo, italiano… ma lui faceva finta di non capire. Finché gli gracchiarono dall’altoparlante: “Fermati o ti spariamo!” Caricato sulla motovedetta, fu portato a un centro di accoglienza e identificazione, per 10-15 giorni. In luogo confortevole: una tranquilla villetta con pochi ospiti, retta da un pacioso ras dal fez in testa. Un clima giusto anche per scattare foto-ricordo. Nel frattempo si risolse la diatriba tra ambasciatori, francese e italiano, che si contesero l’autorità su Agostino.
Rispedito finalmente in Italia, finì in carcere militare per renitenza alla leva… ovvio a quella italiana. Meglio, comunque, dei dieci anni in carcere alla Santé.
Tornato libero cittadino, riprese a praticare mille mestieri. Compreso il venditore ambulante. Vedendo un amico, ambulante come lui, che vendeva materassi caricati sul portabagagli, volle informarsi bene se fosse un commercio interessante. “Ci guadagno 3-4 mila lire al giorno”, era l’anno 1966, quel guadagno non era poco.
Agostino ottenne dalla mamma il prestito di 124 mila lire – anche lei venditrice ambulante, proprietaria d’un furgone 138 Fiat. A Napoli, da un grossista, riempì il furgone di 120 mila lire di materassi, dei quali non sapeva né il costo, né conosceva la tecnica per venderli. Cominciò andando in giro, coi materassi caricati sul portabagagli di una Fiat 1100, insieme al venditore napoletano Scapicciobello, che strillava nel megafono: “Accattatevi o materazzo, o pagliaraccio!…” ma non funzionava. Scelse la compagnia nuova d’un amico stracciarolo, Coccoricò, uno che sapeva vendere: conosceva persone, borgate, …con lui piazzarono numerosi materassi. Allargando sempre più il giro di vendite, giunse a Centoia – dove organizzò un magazzino di stoccaggio – quando già aveva una decina di “vagabondi” avviati da Agostino al commercio di materassi. Complice Giocondo, conobbe sua moglie, la signora Mariotti, d’origini contadine, umbra che prese Agostino anche per la gola… durante la nostra chiacchierata, profumi antichi d’arrosto alla contadina ci stavano raggiungendo dalla cucina.
Così, tra quegli invidiabili aromi casarecci, ho raccolto la sintesi della vita d’un imprenditore cortonese che già confida sulla collaborazione dei figli. La ditta ha mantenuto nella capitale un negozio piccolo ma ben messo e frequentato, gestito da sua figlia Nadia con vendita diretta, mentre il figlio Vincenzo è rimasto nella sede di Cortona. I materassi seguitano ad essere un bene continuamente richiesto, anche, se abbandonate le molle, oggi, la gente vuole il Memory. Più confortevole, igienico, non traspira umidità, e non si deforma. Parola di Agostino Raffaelli.
SE 60 MILIARDI [di euro] DI CORRUZIONE SEMBRANO TROPPI…
Nell’ ultimo numero dell’Etruria Giuseppe Calosci mi/si domanda da dove avessi tratto quell’ impressionante dato di 60 miliardi: il costo annuo della corruzione in Italia. Alcune testate giornalistiche, come il Fatto Quotidiano, sono riuscite a ricostruirne la storia dalle origini che risalirebbe a una ricerca della World Bank (Banca Mondiale) del 2004, dove si sosteneva che ogni anno il costo mondiale delle tangenti sarebbe stato di 1000 miliardi dollari – il 3% del PIL Mondiale – avvertendo che la cifra non rappresenterebbe da sola i costi complessivi della corruzione e la situazione varierebbe significativamente da paese a paese. Partendo da quella cifra complessiva e da quella percentuale, applicate al PIL italiano dava i 60 miliardi di cui parliamo. A quella stima sono seguite altre conferme autorevoli: dalla Commissione Europea e dal Consiglio di Stato nel 2013. La clamorosa cifra è stata pure contraddetta come eccessiva da Carlo Giovanardi, mentre è stata ritenuta attendibile da Libera e Gruppo Abele e persino da Corrado Passera ex ministro dello Sviluppo Economico. Se non che sono intervenuti anche studiosi come il prof. Picci – che da anni si occupa di metodi per il calcolo della corruzione – per il quale quella cifra rappresenterebbe la punta dell’iceberg, “visto che non terrebbe conto di tutte le distorsioni che la corruzione produce”.
Ma quali sarebbero le più recenti valutazioni in proposito? Secondo il prof. Alberto Vannucci – docente di Scienza politica a Pisa, tra i massimi esperti in Italia sulla materia – sarebbe una stima sballata, ma al ribasso. Perché, ad esempio, prendendo per buoni i calcoli della Corte dei Conti, secondo cui la corruzione genera il 40% di spesa in più nei contratti per opere, forniture e sevizi pubblici allo Stato, risulta che il costo della corruzione raggiunga la cifra superiore di 100 miliardi di euro l’anno!
L’ultima conferma, che questo dato sarebbe acquisito oramai pacificamente, è venuta ieri sera durante un’inchiesta giornalistica in TV a Presadiretta.
www.ferrucciofabilli.it
ANGIOLO, “Scandaglio”, Alì Babà tra Quaranta Ladroni
Angiolo Salvicchi detto Scandaglio – per capacità impressionanti di recuperare palle, nel gioco della pallavolo, schiacciate nei suoi pressi – basso di statura, aveva un capoccione. Forse, causa della particolare struttura corporea andava ricercata nella fame patita da ragazzo: la capoccia brillante era necessaria per procacciare cibo al corpo minuto. Privazioni che Angiolo – battendo sui fianchi ripetutamente le mani a taglio – ricordava: “La fame ch’ho patitooo!…” a chi si meravigliava della tenuta formidabile del suo stomaco. In certi pranzi compensava in modo pantagruelico le pene di gola passate. E trovarlo di cattivo umore non era facile. Anche se abbattuto, non perdeva l’ironia, citando metafore o episodi tragicomici a mo’ di scacciapensieri. Come quando raccontò – in seguito al grave incidente che lo ridusse in fin di vita – d’essersi visto dall’alto, sdoppiato dal corpo, a incitarsi: “Forza Angiolo! Devi farcela!…” Perciò Angiolo può considerarsi, a buon diritto, tra i massimi filosofi stoico-edonisti Cortonesi. Infanzia stentata, tra orfani in collegio (se ben ricordo) a perfezionare l’arte della sopravvivenza. Assunto all’Ospedale, ne divenne Provveditore Economo per anni. Sbocco naturale per colui che ritenne prioritario conquistare un “posto” in grado di garantirgli la sicurezza alimentare. Per poi mettere a disposizione dei ricoverati la sua tenacia nel provvedere ai tre pasti al giorno. E non mancò al dovere giornaliero di fornire: vitto, medicamenti, coperte, riscaldamento e quant’altro necessario nella complessa organizzazione sanitaria. Cambiavano amministratori e medici, più o meno capaci, e c’era pure da fare i conti, nel secondo dopoguerra, con cicli economici d’un Paese esposto ad alti e bassi anche clamorosi.
Scandaglio se la cavava lo stesso, con pochi o tanti soldi. E se qualcuno, sottovoce o sfrontatamente, insinuava ch’era un profittatore, non si scomponeva. Anzi, rintuzzava il fuoco col racconto spassoso di quando, mescolato a un discreto numero di economi italiani, fece visita a una multinazionale di prodotti per l’igiene – la Henkel. Portavoce del gruppo, dinanzi al direttore generale – tendendogli la mano – si presentò così: “Piacere! Alì Babà e i Quaranta Ladroni!…” indicando i colleghi. Inutile nascondersi: qualcosellina agli economi era impossibile non rimanesse attaccata alle dita… (Il fenomeno in Italia è comune a tanti altri “servitori dello Stato”, non solo Economi, sottraendo all’erario ogni anno oltre 60 miliardi di euro).
Pronto e sagace se la sbrigava in ogni circostanza. Come quando fu annunciata un’ispezione ministeriale. La preoccupazione principale era far corrispondere il patrimonio iscritto nell’inventario con quello realmente posseduto. Alla verifica, mancavano delle coperte. Non che quelle ospedaliere fossero di pregio – allora come ora -, tuttavia, nel continuo via vai tra malati, parenti e personale, più d’uno s’era fottuto il copriletto. Agli addetti del guardaroba, Scandaglio ordinò che un certo numero di coperte fosse diviso in due allo scopo di pareggiare i conti tra l’inventariato e il materiale disponibile. Con quell’espediente furono gabbati gli ispettori ministeriali. Ma anche se ne fossero avveduti, di fronte a tante ruberie viste in giro, avrebbero probabilmente chiuso un occhio su quella misera frode. In molti ospedali italiani, ben più costosi sarebbero stati i danni da denunciare. Come, ad esempio, forniture di apparecchi mai usati giacenti in remoti nascondigli.
Angiolo aveva una personalità risoluta verso chiunque, però, fedele all’azienda, lavava i panni sporchi in casa e non in piazza. Senza risparmiare critiche o prese in giro a chi lo meritasse, con l’aggiunta di arguzie carnevalesche. Quel che capitò a Gino Svetti – tra i più diligenti amministratori con cui ebbe a che fare. Scandaglio, sapendo della sua imminente decadenza – approfittando che ogni giorno Gino passava nel suo ufficio con qualche problema da risolvere – l’accolse burlescamente: “Svetti! ora hai finito di rompere i coglioni!…” facendogli il gesto dell’ombrello. Di lì a poco, Gino venne rinominato amministratore, seguitando tra i due scambi di battute salaci, e l’impegno di Angiolo a risolvere le beghe prospettate dal coriaceo superiore.
Un capitolo lungo meriterebbe Scandaglio organizzatore e animatore di feste e bisbocce. Gli piacevano compagnie allegre e gaudenti. E nessuno del suo giro di amicizie si sarebbe permesso mai di escluderlo da una strippata. Sempre disposto a imbrancarsi. Ricordo un viaggio di cortonesi a Paternopoli, in occasione del terremoto degli anni Ottanta. Riparati dal freddo e dal nevischio sotto una lamiera precaria, dentro un secchio fu preparata una gigantesca spaghettata al peperoncino. I cortonesi avevano sufficienti cibarie per sé e per i terremotati, i quali portarono una damigiana di squisito aglianico che ben presto volatilizzò! Durante la cena i paternesi s’erano lamentati d’aver visto a Battipaglia tanti beni di soccorso dei quali a loro nulla era toccato – a una settimana dal sisma – salvo il materiale di Cortona. Scandaglio, complice l’alcol, impiantò un comizio infervorato: invitandoci a correre a Battipaglia tutti insieme!… A stento, venne neutralizzato quello slancio generoso.
Altro episodio. A Chateau-Chinon. (In occasione del gemellaggio tra Cortona e la città francese, con Angiolo, a lungo, assiduo protagonista). Un assessore cortonese snob, ospite atteso dal capo dei pompieri, invece di raggiungere il Morvan stava spassandosela a Parigi. Gli organizzatori locali suggerirono di rimediare alla scortesia facendo visita al pompiere. Tra i primi volontari, trovai il pompiere talmente affranto che zampillava lacrime come fontanelle – mai visto prima –, inumidendo persino chi gli era di fronte! Felice di vederci e sfogare l’amarezza, cavò dal frigorifero le prime bocce di champagne d’una ricca provvista. Quando barcollanti scendemmo le scale, stava arrivando Scandaglio con altri cortonesi volontari dello sbevazzo. A quel punto fummo sicuri d’aver risolto l’incidente diplomatico, e lo champagne del pompiere non avrebbe preso d’aceto.
LA LOTTERIA DEI TESTS D’INGRESSO ALL’UNIVERSITA’ A CHI GIOVA?
Giannini, Ministra del MIUR, sembrava avesse fatto il verso di abolire i testi di ingresso all’Università, impegno che non ha mantenuto. Così seguitiamo ad assistere al triste peregrinare di migliaia di neodiplomati su e giù per l’Italia, sostenendo le più assurde e inutili spese che un genitore debba sopportare per aiutare i figli: viaggi, soggiorni e una bellissima tassa di partecipazione pagata a ciascuna Università in cui si intenderebbe iscriversi. Basterebbero a dimostrarne l’inutilità – o peggio, l’arbitrio, quindi l’ingiustizia e l’illogicità – le stramberie contenute nei quiz somministrati ai candidati, ai quali dichiarò che non sarebbe stato in grado di rispondere un eminente professore universitario – che ha scritto uno dei manuali più ponderosi e usati di Patologia Medica -, così come non si capisce il perché si chiedano, ad un aspirante Psicologo, nozioni di economia e altre simili scemenze, che più che testare la preparazione di uno studente alla fine non fanno altro che aumentarne frustrazione, senso di inadeguatezza e di ignoranza che, invece, dovrebbero avere chi li scrive e li assembla. Tornando all’esempio del luminare italiano della Medicina di cui sopra, sappiamo che il suo diploma di scuola superiore era di Geometra, essendo quello l’unico istituto superiore presente nel suo territorio negli anni Sessanta. Fortuna volle – per lui e per la scienza medica – che fu liberalizzato l’accesso a qualsivoglia tipo di Diplomato ad ogni tipo di Facoltà. Non solo, neppure era previsto il numero chiuso in alcuna Facoltà. Salvo in scuole di elite, tipo la Scuola Normale di Pisa. Dove aveva ed ha senso, essendo organizzate tipo college, dove studenti e docenti vivono l’intera giornata a stretto contatto formativo. Ma quante altre Università italiane godono di questo privilegio?
Lo erano prima dei test d’ingresso e lo sono rimaste, quasi tutte Università di massa, purtroppo – a paragone di altre nazioni evolute – frequentate poco e con scarso successo finale: siamo infatti alla fine deficitarii di laureati in fondamentali materie scientifiche, indispensabili al nostro sistema produttivo. Senza escludere che tra un po’ mancheranno pure i medici, dei quali in passato se ne è lamentato l’eccesso. Ecco il motivo per cui la nostalgia del passato è attuale, specialmente se aggiungiamo, a quell’apertura “liberista” all’accesso universitario, l’ampia disponibilità di finanziamenti per il diritto allo studio dei giovani meritevoli in disagiate condizioni economiche familiari. Oggi, infatti, lo studio universitario non solo è ostacolato da quelle scemenze di test, ma è diventato dai costi proibitivi per larghe fasce della popolazione. Se alle tasse universitarie – che in virtù dell’autonomia finanziaria sono molto lievitate dappertutto – aggiungiamo costi altrettanto lievitati come quello degli alloggi – poche Università garantiscono case agli studenti a costi calmierati – oltre ai costi del sostentamento e dei trasporti, è indispensabile che alle spalle di ogni studente ci sia una famiglia in ben floride condizioni economiche. Altrimenti ciccia.
Il diritto allo studio sta diventando un flatus vocis. E non si venga a dire che il numero chiuso consente una migliore didattica agli insegnati e la possibilità per gli studenti di usufruire di aule, laboratori, biblioteche, ecc.. Non farò testo, ma io frequentai proprio l’Università di massa aperta a tutti in facoltà mediche – dove sono indispensabili laboratori e spazi didattici attrezzati – ma non ricordo aule insufficienti, né eccessivi affollamento ai laboratori… Certo le università devono migliorare la loro assistenza agli studenti anche in forme tutoriali, ma, in epoca informatica, se funzionano addirittura le Università a distanza, dov’è il problema nell’accettare chiunque voglia scegliere la propria Facoltà preferita?
Ma il raggiungimento di Lauree in totale “anarchia” quali vantaggi porterebbe ai nuovi dottori? Si potrebbe obiettare.
Siccome il problema dell’occupazione dei laureati in Italia non è stato risolto neppure col “numero chiuso”, preferisco di gran lunga che i giovani seguano la propria passione nella scelta delle Facoltà e se avranno da tribolare per trovare un lavoro lo facciano con la piena responsabilità delle loro scelte. Non accetto che lo Stato ti induce a un percorso formativo non gradito, e poi tanto ti abbandona ugualmente al tuo destino.
AMARCORD IN VISITA A CORTONANTIQUARIA
Non essendo un compratore, vado in visita alla annuale Mostra del mobile Antico, ribattezzata di recente Cortonantiquaria, solo per il piacere di vedere cose vecchie, artistiche o artigianali, oggetti che, poco o tanto tempo fa, sono entrati nella vita di famiglie, persone, o luoghi di culto. (Anche quest’anno non mancano arredi, statue, crocifissi e oggetti usati nel culto cattolico, di qualità non eccezionale, ma certuni di buona fattura, come certe statue lignee di dimensioni quasi reali, tra le quali è notevole una statua lignea della Madonna col Bambino che sembra saltar giù dalle ginocchia della madre da un momento all’altro).
Entrando devi spogliarti del punto di vista del visitatore museale – anche se alcuni oggetti, quest’anno non molti, potrebbero farne parte – dovendo ragionare da collezionista immerso nel caotico bric a brac alla ricerca del pezzo desiderato, o con l’aspirazione generica d’essere affascinato da qualcosa di imprevedibile da portar via.
Nel solco della tradizione della Mostra mercato, ci sono – non molti – espositori specialisti di una materia: oreficeria, ventagli, stampe, quadri,…, a prima vista, è mancata dal passato la simpatica collezionista di armi antiche, presente in tante edizioni. Prevalgono esposizioni composite: tavoli, armadi, serviti da tavola o da pompa in argento o ceramici, trumeau più o meno preziosamente intarsiati, seggiole, arredi sacri, statue in prevalenza lignee, quadri,… Molti quadri, come sempre. Alcuni di autori “secondari”, se pure di elevata qualità: pennelli espressivi del buon gusto o di un’epoca, mentre in gran parte sono tele oscurate dal tempo, il cui fascino si limita poco più che alla patina antica. Forse, restaurati all’originaria luminosità, alcuni, potrebbero ancora suscitare emozioni.
Gli spazi espositivi accolgono antiquari provenienti da più parti d’Italia. Ma non ritrovi quella concentrazione di cortonesi, aretini, toscani del passato. Salvo il cortonese Bucaletti che espone oggetti di ottimo gusto e fattura, come usava negli standard degli anni più floridi in cui la concorrenza era tra prodotti eccellenti. Così ospitale che aveva lasciato sul tavolo centrale un pacchetto aperto di Toscani di mio gusto. Tranquillizzo Bucaletti, non ne ho approfittato. In un altro stand ho rivisto la presenza dei fiorentini Velona. Senza più la presenza del patriarca della ditta , tra i più simpatici animatori di questi giorni di Mercato. Così come, perché scomparsi o non più interessati, non si trovano più remoti e fedeli espositori: Stanganini, Billi, Rachini, Borgogni, Marri,.. e il grande patrono della manifestazione, l’aretino Ivan Bruschi, che morendo ha lasciato in dono alla città di Arezzo una collezione antiquaria degna d’essere elevata a Museo. Di lui, come degli altri che non tutti ho mentovato, ho cari ricordi di persone competenti e disponibili a condividere le loro aspettative, questioni private, difficoltà di mercato, suggerimenti per migliorare ogni anno il tasso qualitativo della manifestazione a cui dimostravano grande attaccamento. Per amore di Cortona, si sforzavano ogni anno, anche con cospicui impegni economici, di portare sempre il meglio. Bruschi, di animo nobile, mi rese leggera la non facile incombenza di comunicargli che il Consiglio Comunale si era rifiutato di assegnargli la cittadinanza onoraria. Negli anni Ottanta una certa etica politica aveva sindacato sul suo essere apparso negli elenchi della P2. Penso sinceramente che lui avesse consentito quella iscrizione per semplice atto di cortesia verso qualche suo concittadino (gli aretini nella P2 erano uno stuolo), non certo per aumentare prestigio professionale o profitti economici di cui non aveva certo bisogno. Ebbene, proprio in quell’incontro, lui, certamente dispiaciuto del mancato conferimento di una cittadinanza onoraria strameritata, mi accompagnò con estrema gentilezza a visitare casa sua, quella che poi è diventata la Casa Museo Ivan Bruschi. Senza trascurare di suggerirmi qualche ottimo ristorante a Londra dove sarei andato di lì a poco. Dall’accostamento di due imbarazzi, insomma, si rafforzò l’amicizia.
Come ogni anno Cortonantiquaria presenta una piccola mostra a tema: quest’anno è l’erotismo e la seduzione del corpo femminile. Rappresentati in oli, stampe e disegni di elevata qualità. Tra tutti spiccano una serie di disegni di Picasso, un vero maestro anche su questo argomento. Quasi novantenne, ancora apprezzava non solo artisticamente il fascino femminile, tradotto in una grafica chiara ed estremamente efficace nel trascinare l’osservatore fin nelle pieghe della sua passione.
Volendo riassumere l’esperienza d’una mattina, oltre ai ricordi del tempo passato di personaggi meravigliosi nella loro passione per i “tarli”, girovagando per gli stand di Cortonantiquaria di fronte ad oggetti consunti dal tempo e dall’uso, è stato un esercizio della memoria storica e artistica sull’uomo faber, che dovremmo regalarci di frequente, anche per rammentare che, mentre l’uomo è transeunte, molte cose da lui prodotte seguitano a testimoniarne nel tempo il passaggio. Non senza un velo di nostalgia per quelle amicizie passate che si battevano fieramente nella promozione della cultura antiquaria, oggi – mi è parso – non più tanto in florida salute, stante una crisi economica che colpisce senza pietà, a cominciare dai più poveri, ma pure le classi medie, un tempo tra i migliori acquirenti e cultori delle cose belle. Seguitando di questo passo, insieme al venire meno degli acquirenti italiani di antiquariato, il rischio più che remoto è che gli oggetti migliori del nostro patrimonio artistico finiranno – com’è accaduto – per dispendersi del tutto in mercati lontani.
AVRA’ VITA DIFFICILE IL CORTONESE NEODIRETTORE DELL’ARCHEOLOGICO DI NAPOLI
Le felicitazioni per la nomina di Paolo Giulierini, cortonese alla direzione di uno dei Musei Archeologici italiani più importanti, hanno presto lasciato il posto alle polemiche, soprattutto a livello nazionale sui criteri della nomina. C’è stato chi ha messo in discussione l’intero pacchetto di nomine – grosso modo – con queste due obiezioni: non rappresenterebbero le eccellenze tecno-scientifiche, e perché risultano esclusi eccellenti funzionari delle Soprintendenze? C’è stato pure chi ha mirato a criticare figure specifiche come nel caso di Giulierini: il suo incarico a Conservatore del MAEC non fu frutto di selezione pubblica, ma di cooptazione, le sue pubblicazioni scientifiche sarebbero di modesta caratura,…e via discorrendo, insistendo sulla presunta non idoneità all’alto compito, inoltre si segnalano – a paragone delle sua scelta – esclusi che avrebbero avuto più esperienza e altisonanti produzioni di ricerche scientifiche. Senza escludere che costoro procederanno a ricorsi per vie legali.
Insomma Giulierini, da certi punti di vista, pare in una situazione poco invidiabile.
Resta il fatto che il Ministro Franceschini ha voluto imprimere sulle 20 nomine il proprio marchio: una sostanziale rottamazione dei funzionari delle Soprintendenze e la ricerca di nuove energie in Italia e in Europa per dare maggiore dinamismo alle strutture museali, che, in verità, anche per colpe politiche ministeriali, non hanno dato alle eccellenti raccolte italiane quella visibilità internazionale ottenute da pari strutture straniere. Ricordavo come da solo il Louvre ha le stesse presenze di tutti i musei italiani messi insieme.
Non c’è dubbio che tra i criteri per i nuovi scelti ci siano stati margini di discrezionalità nel valutarne le candidature, consentendo manovre al Ministro Franceschini che se ne è avvalso con una certa spregiudicatezza. In questa alea discrezionale ci si è vista anche qualche mossa di partito, come nel caso di Giulierini. La riprova di eventuali errori di valutazione sui candidati non potrà che venire dai fatti futuri, quando i nuovi direttori si metteranno all’opera. Sul cui buono o meno felice esito, teoricamente, dovrebbe risponderne lo stesso Ministro.
Tuttavia, pur essendo questioni lontane dalla nostra portata, la vicenda pare non avere insegnato molto a livello locale, allorché in tutta fretta è apparsa sulla stampa la conferma di Giulierini a Conservatore anche al MAEC. Cosa che alcuni cortonesi avevano anche caldeggiato, credo, sottovalutando l’impegno. Per quanto piccola, ogni organizzazione Museale ha i suoi impegni quotidiani nel seguire il corretto andamento gestionale, oltre al fatto che se non si vuol sedere sugli allori c’è molto da lavorare in politiche di sviluppo che richiedono altrettanto se non superiore tempo, energie, capacità. Pensiamo, ad esempio, a uno scambio di materiale tra Musei. C’è la ricerca degli interlocutori di un certo livello qualitativo, per cui non basta avvalersi di agenzie, oltre alla stesura di programmi attuativi da sottoporre sia agli interlocutori sia agli organi di gestione e agli eventuali sponsor; e, una volta ottenuti tutti i semafori verdi, seguono le delicate fasi attuative che necessariamente gravano sulla figura del Conservatore, garante per tutti del buon fine del progetto e della incolumità del materiale prestato. Insomma di pronto e fatto non c’è nulla, ogni idea per svilupparsi richiede complesse azioni.
Nulla vieterebbe che si garantisca in futuro la conservazione del posto al Giulierini nell’ambito del MAEC, altro è vederlo protagonista contemporaneamente della direzione del MAEC e del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, un impegno insostenibile anche da Nembo Kid.
Oltretutto perché negare, a livello locale, di far fare una esperienza di direzione del MAEC, procedendo a una selezione tra giovani esperti di antichità, nel frattempo che Giulierini ha il suo bel premio (comprese tante gatte da pelare) in quel di Napoli?