GUIDO CALOSCI una vita immersa nell’odore dell’inchiostro

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Operaio tipografo negli anni ’30 del Novecento, deciso a mettersi in proprio, beneficiò indirettamente della Lotteria di Tripoli: allorché l’amico Alfredo Cariaggi – il cortonese vincitore sommerso da una montagna di quattrini – firmò a Guido le cambiali necessarie all’acquisto della locale “Tipografia Commerciale” messa in vendita dal Francini. Si trattava di una pioggia di soldi, ma a metà. Infatti, un altro cortonese riuscì a bloccare in tribunale la metà della vincita, pretendendone la divisione. Alla fine, Cariaggi la spuntò ricevendo anche l’altra metà del malloppo, ma quando il valore della lira era molto svalutato.

I locali della tipografia del nuovo proprietario Guido Calosci – classe 1892 – in via Passerini 4, al primo piano, si rivelarono inadeguati, anzi, pericolosi: incapaci a sostenere il peso delle attrezzature: una mattina, il pesante tagliacarte era precipitato nel piano sottostante! (Più o meno a quell’epoca, per la stessa causa – solai fatiscenti – durante una veglia funebre alcune persone precipitarono col morto al pian terreno).

Essendo costoso far impresa, Guido risparmiò anche sull’acquisto dei caratteri: scelse gli eleganti Elzeviro in quantità appena sufficiente a stampare, al massimo, ottanta pagine (cinque sedicesimi) d’un normale libro. Ricordiamo la pazienza certosina e la precisione richiesta, allora, per stampare una pagina: dovendo assemblare uno ad uno i singoli caratteri di piombo dentro una cornice di legno, detta “vantaggio”, nel formato dell’oggetto da realizzare: locandina, manifesto, rivista, o pagina di libro. Nel caso dei libri, una volta compilate e stampate le prime ottanta pagine, Guido doveva scomporle per riadoperare gli stessi caratteri nell’assemblaggio delle pagine successive; un cuci e scuci insistito fino all’ultima pagina. Non a caso, l’ho definita: “pazienza certosina”. Fino all’avvento delle linotype, paragonare il tipografo al monaco amanuense non è azzardato. E solo metodici alla Guido potevano dedicarsi a quel mestiere. Il quale si fece clienti sparsi in tutta Italia.

A partire da Cortona: il Comune, l’Ospedale, l’Accademia Etrusca, la Banca locale, poi vennero le Università di Palermo, Torino, Roma, Firenze, ecc. specializzandosi in testi di Diritto Romano e di Economia Politica. Volumi da comporre in greco ed anche con complicate formule algebriche. L’apertura del filone produttivo scientifico scaturì dalla pubblicazione d’una tesi di Laurea, premio universitario a uno studente laureato con Lode. Così presero contatti con la tipografia noti docenti:  Bonfante, Scialoja, Riccobono, La Pira, Segré, Sensini, Chiazzesi, ecc., che poi incaricavano importanti case editrici per la distribuzione e la vendita.

Problemi a Guido non mancarono. Come quando, ultimata la stampa d’un volume ordinato e pagato dall’“ebreo” torinese prof. Gino Segré, a mezzanotte si presentò il maresciallo dei carabinieri per il sequestro di tutti i volumi – già predisposti nelle casse per la spedizione -, in forza delle leggi razziali che proibivano pubblicazioni d’autori ebrei. Delle casse pronte, il maresciallo suggerì a Guido di nasconderne una per spedirla all’autore-committente una volta passata la “nottata”. E così fu. Caduto il Regime, la cassa dei libri raggiunse Gino Segré.

Non erano segrete le idee “sovversive” di Guido il quale, di famiglia socialista, durante un soggiorno di lavoro a Roma, abbracciò idee comuniste conservandole sempre, convinto dalla scandalosa disparità sociale tra i signoroni che viaggiavano in carrozze trainate da quattro/sei/otto cavalli e i morti di fame che languivano nelle strade della capitale. La categoria dei tipografi rappresentò antifascisti risoluti, fino allo sciopero. Anche a Cortona, gli artigiani – a fianco di operai e contadini – divennero antifascisti strenui e organizzati. Come raccontò Pietro Pancrazi, nella “Piccola Patria”, a proposito delle tipografie cortonesi che, nello stampare volantini o manifesti clandestini, si scambiarono i caratteri per confondere la censura. Pietro Pancrazi fu cliente assiduo di Guido, come il fratello Luigi, di cui si ricorda la battuta scambiata col commediografo Corrado Pavolini, incontrandosi in tipografia: “Anche tu hai questo vizio?!” Accomunati dallo stesso piacere di pubblicare scritti, simboli di vitalità culturale e di libertà.

Pubblicamente Guido dovette adeguarsi, indossando la camicia nera. Minacciato dal Podestà di cancellarlo dai fornitori degli Enti Pubblici, come padre ritenne prioritario far crescere i quattro figli: Enzo, laureato in Fisica alla Normale di Pisa, Adele, Giuseppe – continuatore dell’azienda, cambiandone la ragione sociale, da “Tipografia Commerciale” a “Grafiche Calosci”- e Sonia, che il prete non avrebbe voluto battezzare per quel nome esotico sospetto di filo-bolscevismo. Sebbene fosse il segreto di Pulcinella: Guido seguitava a condividere idee comuniste. Tantoché un dì, in una strada di Cortona, Ceppodomo (produttore di pastasciutta), vedendo Guido in camicia nera, commentò: “Tu sei come i fichi di Sant’Antonio: nero di fuori e rosso dentro!” Anche per i camerati era un rosso di cui, però, non disdegnavano la compagnia. Come quel giorno, nel ristorante al Torreone, riuniti a bisboccia, nel finale del convivio un fascista, fintosi ubriaco, tirò fuori la pistola urlando: “Dobbiamo farla finita con questi sovversivi!” e, premuto il grilletto, sparò a Guido. Il quale, sbiancando, cominciò a tastarsi e, con un filo di voce, pappagellò: “Dove so’ morto?!…” ma lo sparo fu a salve. Oltretutto Guido aveva trascorsi patriottici importanti: combattente nella prima guerra mondiale, e ben tre dei suoi fratelli v’erano rimasti uccisi. Mentre lui era tornato dal fronte sotto un’altra minaccia per la sua vita: la febbre spagnola. Quando nel vagone s’avvidero di lui febbricitante, in men che non si dica, scapparono tutti! Nel locale ospedale-lazzeretto, la malattia decorse benigna, non senza postumi: transitoriamente, Guido era svampito. Il medico, vedendo che ce l’avrebbe fatta, lo prese a cuore e una sera lo portò al Teatro Signorelli, dov’era in scena: “Il cardinale Lambertini”. Nella quale, il cardinale, in confessione, conobbe il vero assassino d’una persona della cui morte, invece, era stato incolpato suo fratello. Al fine di scagionare il congiunto, il cardinale si finse pazzo. A quel punto della commedia, si verificò un siparietto divertente: Guido, pensando che l’attore/cardinale pazzo stesse parlando con lui, iniziò a rispondere, finché l’amico medico fu costretto a portarlo fuori dal teatro.

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