IL RACCONTO SPECIALE DI DUILIO PERUZZI SUL MONDO AGRICOLO PRIMA DELLA MODERNITA’

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Casi fortunati hanno consentito di raccogliere, in questo libro, documenti più unici che rari – elaborati da Duilio Peruzzi – sulle condizioni economiche e sociali, nel cortonese, in un momento di transizioni cruciali: dall’agricoltura di sussistenza alla modernità.  A ciò ch’era noto – immagini a colori – su vita e lavoro nelle campagne – oggetto di mostre fotografiche e riprodotte nel mio libro Chj lavora fa la robba chj ‘n lavora fa la robba (2013) -, qui si aggiungono altre fotografie e la tesi di dottorato di ricerca del geografo Peruzzi: saggio interdisciplinare (geografico, agronomico, sociale, demografico) corredato da grafici statistici e foto bellissime.

Il risultato è una dichiarazione d’amore, per la terra d’origine, di questo ricercatore privilegiato: perché ebbe sott’occhio il futuro dell’economia agricola mondiale – vivendo negli Usa – e il presente italiano – essendo cresciuto a Cortona – pervaso di staticità secolari se pure alla vigilia di mutamenti robusti. Quali: l’esodo massiccio dalle campagne di migliaia di contadini verso “le luci delle città”; le forti tensioni tra protagonisti dell’economia rurale: mezzadri e proprietari “padroni” (termine usato dallo stesso Peruzzi); e novità introdotte nel podere: gestionali, meccaniche, chimiche, …

Il valore perenne della sua ricerca era chiaro a Peruzzi, tantoché, in Epilogo scrisse: “Una cosa è certa: questa comunità rurale equilibrata, autosufficiente e stazionaria, classico esempio toscano-mediterraneo di entità agricola fortemente stratificata, sia in senso fisico che socio-economico, è destinata a subire notevoli cambiamenti nel corso dei prossimi decenni. Questo studio può quindi diventare un’immagine su Cortona, e sulla Toscana, alla vigilia d’un cambiamento imminente. Questo, in ultima analisi, il suo valore duraturo”.

Peruzzi ripercorse le ultime fasi del ciclo esposto, da Pietro Cappannelli (nel 1887), nella Monografia sulle condizioni agricole del comune di Cortona. Peruzzi, geografo, e Cappannelli, agronomo, dunque, consentono raffronti tra due momenti storici distanti circa un secolo. Ambedue, Autori attenti agli stessi temi del mondo rurale: contratti mezzadrili, ambiente fisico e climatico, abitazioni e annessi agricoli, attrezzi, colture, allevamenti, concimi, popolazione, …  insomma, le stesse categorie pur interpretate, da ciascuno, con approcci personali. Con l’unica differenza notevole: Cappannelli s’avvalse d’illustrazioni grafiche, Peruzzi, invece, corredò il testo di foto a colori. Di rara bellezza ed efficacia descrittiva, usando, abilmente, diapositive. Materiale così innovativo che dovette svilupparlo in Francia (1956). Di recente, perfino, qualcuno ha pensato che non fossero foto risalenti agli anni Cinquanta bensì di persone travestite da contadini. Immagini preziose come documenti, pure capaci di suscitare stupore nell’osservatore. Colpito da quelle immagini bucoliche poetiche. Insomma, Peruzzi trasformò documenti scientifici in arte. Adottando un linguaggio: facile, piacevole, spettacolare, coinvolgente.

Ma come scaturì quel prezioso e magico prodotto intellettuale?

Merito iniziale fu della famiglia. Emigrata negli Usa, decise di far studiare Duilio in Italia, fino al diploma Magistrale a Castiglion Fiorentino, pagando il soggiorno cortonese, del bambino poi adolescente (dal 1931 al 1946), monetizzando residue proprietà fondiarie italiane, fino a spenderne gli ultimi proventi. E quanto incise su Duilio quel soggiorno cortonese è lui stesso a spiegarlo: “In questa regione e nei suoi dintorni, nel sud-est della Toscana, più in particolare la zona Chiana-Trasimeno di Cortona. (…) I miei genitori sono nati qui, i miei antenati hanno vissuto in questa zona per secoli e tanti dei miei amici e parenti ancora ci vivono. Per questo, una combinazione tra conoscenza diretta e convenienza ha influenzato la mia scelta di selezionare un argomento che trattasse di questa area incoraggiando così il mio ritorno in Italia nell’autunno del 1955”. A tutto ciò, va aggiunto l’altro aspetto decisivo: il vantaggio, per Duilio, di poter confrontare due economie agricole molto distanti: quella americana già modernizzata[1], e quella italiana in procinto d’esserlo, ancora immersa in vecchi retaggi. Mondo agricolo cortonese arretrato e conflittuale, in modo aspro e radicale, tra mezzadri e proprietari, contrapposti sulla gestione poderale e sulla ripartizione dei prodotti. (Nel dopoguerra, fu superata la divisione a metà a favore dei mezzadri, ma quel tanto o poco che scontentò sia padroni che contadini. Famosa la battuta attribuita ad Amintore Fanfani: “di un podere può vivere solo una famiglia!”). In definitiva, il nodo principale era l’assenza delle condizioni per realizzare quant’era avvenuto negli Usa: l’evoluzione del podere in impresa economica. Unica strada per affrontare il mercato, dando all’imprenditore/lavoratore motivazioni e strumenti per ottenere redditi dignitosi.

Ai ragionamenti preliminari – affettivi e di scienza economica – va aggiunto l’approccio non neutrale di Peruzzi che, pur mantenendo sguardi distaccati da scienziato, di fronte alla cruda realtà delle campagne cortonesi, spese parole di vicinanza alle condizioni contadine. Ai quali erano negate risposte a giuste attese di riscatto economico e sociale, costretti a subalternità frustranti.

Peruzzi- analitico – descrisse limiti e pregi offerti, a Cortona, da una realtà rurale variegata, spalmata su pianure, colline e montagne. Avendo messo a fuoco: fertilità dei suoli, piani colturali, dimensioni aziendali, condizioni abitative, infrastrutture (carenti), clima fisico, risorse idriche disponibili (scarse), fino ai criteri usati nell’insediare sul territorio le attività, allevamenti compresi. Insomma, nulla sfuggì alle sue indagini sui caratteri del territorio: geologici, agronomici, antropici, climatici, cogliendo dettagli utili a prevedere involuzioni o progressi delle condizioni umane, in ogni zona in cui sezionò il comune. Notando quantità di transizioni mai viste prima d’allora e incrociate convulsamente. Com’era il caso di ciò che Peruzzi definì “febbre” dell’emigrazione. Nel 1958, egli stimò perdite annue di 439 abitanti, diretti verso più direzioni: nazionali ed estere. Perdita solo in parte compensata da immigrati dal sud Italia. Tanto che, dai 31.910 abitanti, al censimento del 1951, si scese ai circa 22mila abitanti degli anni Settanta. Momento in cui il fenomeno migratorio si stabilizzò. Perciò, dato il calo demografico assoluto di circa 10mila abitanti, e calcolato il riequilibrio dei 5mila immigrati provenienti dal sud Italia, Cortona perse, in un ventennio, circa 15mila nativi. Metà della popolazione nativa!

Peruzzi evidenziò i caratteri peculiari della società cortonese: dipendente dall’agricoltura, che occupava circa il 70% della popolazione in età lavorativa; bassa presenza di addetti in attività industriali e commerciali (16,5%); mentre l’analfabetismo (18%) colpiva di più adulti ultracinquantenni, di cui due terzi erano donne.

Segnali involutivi, verso l’impoverimento, Peruzzi li vide anche osservando gli animali allevati. Dove c’erano capre, diffuse in passato, negli anni Cinquanta le considerò indice sicuro di “forte povertà”. Come notò, in certe zone, la scesa verso la povertà dalla sostituzione del mulo con l’asino: “più debole ma più economico e rapido”. Processo accentuato nella fascia collinare olivata, dove “asini di ogni colore, forma, dimensione, età, diventano parte integrante dell’ambiente collinare, quali elemento permanente del paesaggio”. Oltre che “(…) dal secondo dopoguerra, l’asino ha sostituito il più costoso cavallo in alcune aziende situate in pianura, ed è l’unico animale da tiro generico in grado di resistere all’impatto della meccanizzazione”. In definitiva, per Peruzzi: “nel quadro generale di un’economia rurale progressista, l’asino, così come opera in quest’area, è segno di arretratezza piuttosto che di progresso”. D’altro canto: “vacche e buoi lasciano il posto alla forza motrice meccanica: trattori e altro”.

Fatta salva la secolare ingegnosità contadina nello sfruttare ogni risorsa proveniente dai frutti della terra e dagli animali allevati – tecniche ataviche menzionate da Peruzzi -, il nodo irrisolto dell’economia rurale a Cortona, e in molte parti d’Italia, era la proprietà terriera. Che incideva negativamente sulle dimensioni poderali, non ottimali, e impediva il superamento della mezzadria. “I terreni possono essere più vasti di cinquecento ettari ma anche grandi come giardini, della grandezza d’un quarto di ettaro. (…) Questo esempio di proprietà fondiaria, per quanto sia profondamente radicata nella storia è fondamentalmente ingiusta; di conseguenza c’è irrequietezza in tutta la campagna. Il risultato è che, come in molte zone agricole italiane, la maggior parte dei giovani adulti si spostano verso i centri urbani più ricchi e industriali, verso aree metropolitane dell’Italia peninsulare e all’estero”. “(…) La Toscana rurale è politicamente di sinistra ed è anche cosciente dei cambiamenti che stanno avvenendo così che l’ambiente agricolo da solo non potrà per molto ancora supportare la sua gente per quanto riguarda i bisogni primari, e non soddisferà nemmeno i loro desideri”. A fine anni Cinquanta – per lo studioso italo-americano – tali elementi premonivano eventi futuri incerti. Idee maturate “durante gli anni che ho trascorso lì che ho conosciuto a fondo i modelli e i problemi del comune”.

Ai desolanti assetti proprietari fondiari, improduttivi, Peruzzi dedicò l’intero capitolo IV della sua tesi. Avendo stimato che la porzione agricola produttiva in possesso dei coltivatori diretti era modesta, come modeste erano le dimensioni poderali medie in loro possesso: 7 ettari; insufficienti a dare dignità imprenditoriale. Mentre la quota prevalente di superficie produttiva era in mano ai latifondisti, che s’avvalevano di mezzadri nella conduzione poderale. “La maggioranza delle persone che possiedono terreni non li coltivano, i padroni, considerati l’élite”. “(…) Si firma quindi un contratto e il mezzadro inizia a lavorare la terra. In questo modo diventa socio a tutti gli effetti del proprietario. In teoria, così è come funziona; in pratica, però, le implicazioni non sono così semplici. In realtà, l’agricoltore sta solo occupando una unità di terra o podere indipendente, che appartiene ad un altro”. Se ciò non fosse bastato, a definire antiquato e antieconomico il contratto mezzadrile, al pragmatico Peruzzi non sfuggirono altri difetti del sistema: l’assenteismo proprietario e il ruolo predatorio del fattore sia verso la proprietà sia verso il contadino. “Proprietari assenti che lasciano la gestione della proprietà al fattore o supervisore. Capita che il mezzadro si ribelli al proprietario, anche chiamato padrone, a causa della sua assenza, per l’incuria verso la proprietà, per la sua resistenza al cambiamento, per la sua mancanza di comprensione riguardo le necessità di migliorare: sia la terra che le abitazioni”. Nulla era cambiato, sull’insalubrità abitativa e sulle resistenze padronali a modifiche gestionali aziendali, da quanto descrisse Cappannelli, a fine Ottocento.  “In questi casi – aggiungeva Peruzzi- [il mezzadro] accusa ugualmente il supervisore fattore per il ruolo di intermediario che svolge e per i profitti, spesso dubbi, che tale posizione può comportare, e ai dubbi il mezzadro stesso contribuisce, senza intenzione, con la sua parte”; dunque, il fattore era un predatore che s’avvaleva dell’incolpevole complicità del mezzadro nel perseguire “profitti dubbi”. Per il contadino “il sistema della mezzadria è una permanente frustrazione; lavora la terra, ne raccoglie i frutti ma non la possiede. Sogna il giorno in cui vivere lui stesso dentro le mura proibite della villa godendosi gli stessi conforti e privilegi che il proprietario si gode oggi. Quindi si può dire che Cortona, e gran parte della Toscana, sembra essere un territorio ricco rispetto a vaste aree dell’Italia centrale e meridionale. Eppure, per lungo tempo, è stato centro di malcontento e dell’inizio di rivolte, questo mostrato bene dalla grande quantità di voti che i partiti radicali di sinistra raccolgono in quest’area”. Peruzzi descrisse quel paradiso in terra: vivere in una villa. Delle circa cento ville presenti a Cortona. Anche con accenti lirici, laddove parlò del boschetto annesso alla villa: “casa naturale e riparo dell’usignolo, il cui incantevole canto è il simbolo delle notti estive e primaverili”.

Nel sistema mezzadrile, era pure antiquata la diffusione della “coltura mista” nell’uso intensivo del suolo agricolo. Non a caso, definita economia di sussistenza. Nella quale ogni produzione era destinata: la metà al consumo del mezzadro, e l’altra metà conferita al proprietario. Cosicché, al mercato finivano quote minime di prodotti, in particolare: grano, vino, olio, castagne, legname e animali allevati; mentre rare erano esperienze di colture estensive, salvo modeste quote di tabacco e barbabietola da zucchero, e ancor più modeste quantità di ortaggi. Rari vigneti e frutteti, anch’essi, inseriti nel ciclo chiuso dell’autoconsumo. Finivano al mercato, in maggiore misura, i prodotti conferiti ai padroni, mentre non fu raro che le famiglie mezzadrili non coprissero i propri bisogni.

Quell’economia agricola definiva anche il paesaggio agrario. Con la parcellizzazione dei terreni in campi di ridotte dimensioni. Le cui caratteristiche salienti, in pianura, erano definite da fitte reti scolanti (fossi) e, ai bordi dei campi, filari di viti maritate ad aceri che ne reggevano i fili di sostegno a distanze regolari (dieci metri), anche in funzione frangivento. Mentre la fascia collinare, terrazzata con mura a secco di confine, era caratterizzata da olivi, messi a distanza, fungendo anch’essi da sostegno ai filari di viti, se presenti. In montagna, prevalendo boschi e castagneti, i campi erano coltivati alla stessa maniera della pianura e della collina. All’interno dei campi erano praticate le semine più disparate, secondo esigenze contadine e padronali. Salvo la monocultura in campi seminati a grano. Nei terreni restanti, vigendo il metodo della rotazione colturale, erano diffuse semine promiscue sullo stesso campo; dove potevano essere presenti varie specie d’essenze vegetali: orzo, avena, fagioli, fave, cocomeri, poponi, mais, saggina, rape, barbabietole, lino, canapa, prati stabili, piselli, pomodori, peperoni, ecc.  E, tra un ciclo colturale e l’altro, frequente era la fienagione. Ricavata da semine o da erbe mediche ricresciute spontaneamente.

A Peruzzi stette a cuore riferire molte sapienze contadine: tradizioni conviviali e solidaristiche tra contadini; nell’uso del suolo e delle risorse ambientali; nel cucinare e conservare cibi; nell’ottimizzare ogni azione, compreso il non “buttare” nulla: manipolando prodotti della terra o macellando animali allevati. Sapienze e condotte secolari, discese da bisogni di sopravvivenza, che nobilitavano una cultura materiale di gran valore, nella vita e nel lavoro, diffusa in ogni angolo del territorio. Cultura del lavoro e mentalità contadina (tipiche del Centro Italia), qualità essenziali nel boom economico italiano.

I volti contadini – ritratti da Duilio Peruzzi, espressioni serene e intelligenti di persone immerse intimamente nel loro mondo -, aggiunti alle fotografie sui cicli lavorativi – nei campi nelle aie nelle cantine nelle stalle e in fumose cucine – sono lasciti preziosi che, uniti alle sue analisi scientifiche, oggi, consentono di rivivere quel mondo di cui siamo figli e di cui residuano poche tracce. Passato di cui dobbiamo essere eredi orgogliosi e grati. Così come infinita è la gratitudine verso Peruzzi che fissò, nel ricordo, i caratteri salenti d’un mondo contraddittorio, fantastico, oramai mitico. Pieno d’energia, profusa nel trasformare un paesaggio straordinario e incanalare gli assetti odierni, socio economici, in Centro Italia. E – se è consentito il paragone – direi che il destino della civiltà contadina fu simile a quello della civiltà Etrusca. Così come energie e cultura etrusche confluirono a formare la civiltà romana, fino a rendere indaginosa la ricostruzione del profilo storico degli Etruschi, lo stesso accadde alla civiltà contadina confluita nella modernizzazione del nostro paese. Salvo che Peruzzi descrisse riccamente quel mondo estinto.

Alla tradizione storiografica cortonese sul mondo agricolo, perciò, va aggiunto il contributo speciale di Duilio Peruzzi.

Degli storici locali abbiamo ricordato Pietro Cappannelli, a fine Ottocento, che sviluppò temi, nella Monografia del Comune di Cortona (1887), ripresi da Peruzzi. Così come – in breve – ricordiamo altri autori cortonesi che fornirono preziosi contributi – recepiti pure da studiosi contemporanei, dei quali citiamo per tutti Giorgio Giorgetti in Contadini e proprietari in età moderna (1974) -, utili a focalizzare origini e sviluppo della mezzadria. Nel novero dei modi di conduzione aziendale affermatisi dal XIII secolo in poi. Quali furono, sotto fattispecie di concessioni: soccida, affitto, mezzadria, in alternativa al latifondo e al conto diretto, nelle modeste dimensioni aziendali. Lo studio – più volte ripreso dagli storici – sui peridi più remoti è di Luigi Ticciati, Sulle condizioni dell’agricoltura del contado cortonese nel XIII secolo (1892). Ricerca arricchita, con altri documenti, da Girolamo Mancini, in Cortona nel Medio Evo (1897); approfondita da Paolo Uccelli, in Storia di Cortona (1835); e da G. Fierli, in Della Divisione dei beni contadini e di altre simili persone (1797). Dove, dei patti agrari, sono riepilogate le ripartizioni tra padroni e contadini di: compiti, responsabilità (proibizioni e obblighi), produzione, cura  e possesso beni (scorte vive e morte). Senza dimenticare l’intervento del vescovo Giuseppe Ippoliti, nella Lettera parenetica, morale, economica (1772). Che suscitò violente reazioni dei proprietari cortonesi per le posizioni del prelato sulle ingiustizie inferte ai mezzadri: la mala conduzione aziendale e relazioni inumane usate spesso. La Lettera parenetica scosse anche ambiti intellettuali toscani. I quali, nel contrastare le teorie sovversive del Vescovo, furono costretti a riflettere su meriti e limiti dei contratti mezzadrili a proposito dei danni economici da essi derivati, ricadenti sull’intera società toscana: la miseria diffusa nella popolazione rurale e la resa economica scarsa ricavata dai poderi. Il Vescovo, in sintesi, evidenziò a fianco di motivi etici – su condotte discriminanti anticristiane verso fratelli umani – anche danni economici causati da sciatterie nelle conduzioni aziendali. Giacché fu in grado di dimostrarle, da esperto agronomo. La pietra sullo stagno lanciata da Ippoliti fu ben presto messa a tacere. Tuttavia, rimase quel messaggio forte sulle braci che covavano nella società, divisa tra interessi contrapposti: padronali e mezzadrili. Malessere, d’immani dimensioni, perdurato fino agli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, di cui Peruzzi fu testimone.

A qualificare le dimensioni del conflitto – prima sordo, fino agli inizi del Novecento, poi, caldo, al sorgere dei primi movimenti sindacali delle leghe rosse contadine – basta ricordare gli assetti sociali in quel periodo secolare. In cui, i patti mezzadrili coinvolsero la maggior parte della popolazione. Così come, fino agli anni Cinquanta del Novecento, oltre la metà della popolazione cortonese tuttora lavorava la terra. Fenomeno comune a gran parte d’Italia. Mentre, in altri stati europei (Germania, Francia, Paesi Bassi), gli occupati extra agricoli superavano i contadini già nell’immediato secondo dopoguerra.

Cortona, millenario insediamento civile, dunque, visse e crebbe grazie a risorse agricole, fin’oltre metà Novecento. Nelle statistiche risulta che, su ottomila comuni italiani, Cortona occupa la trentesima posizione per estensione territoriale: 342 Kmq. Potenziale enorme di cui la Città beneficiò. Quale centro direzionale economico, politico, amministrativo, e luogo culturale e formativo per eccellenza: laico e religioso.

Città, abitati e paesaggio ripetevano visivamente caratteri simili a gran parte dei territori dell’Italia Centrale.

Fino agli anni Quaranta del Novecento, il paesaggio – in toto elaborato dall’uomo – rifletteva anche i caratteri socio economici degli abitanti. Così come classificati nei registri parrocchiali – fino all’Unità d’Italia – in: miserabili, poveri, comodi. Senza escludere fasi transitorie tra gli appartenenti all’una o all’altra categoria. Spinta al miglioramento delle condizioni abitative – le più classificabili povere se non miserabili – venne dall’elettrificazione. Che riguardò, inizialmente, solo centri e nuclei abitati e non le case sparse contadine, consentendo di sostituire l’illuminazione (a candele, carburo, petrolio) con lampadine e portare “l’acqua in casa”. D’altronde – come osservò lo stesso Peruzzi – a un secolo di distanza, le condizioni igienico sanitarie insalubri delle case coloniche, descritte da Cappannelli, non erano mutate. Insomma, la differenza, tra benestanti “comodi” (preti, proprietari, professionisti) e lavoratori della terra, “miserabili e poveri”, era facilmente leggibile: da case malsane, oltre che dal colore scuro della pelle contadina e da mani ruvide e callose. Dicotomie ripetute: negli stili di vita, nella alimentazione, nel vestiario e nei calzari. A mo’ d’esempio, ricordo che – degli anni Trenta – raccolsi una fotografia nella quale la popolazione, d’una frazione campagnola (La Piana), si distingueva dagli ospiti, venuti da fuori tutti calzati, per essere tutti scalzi!

Caratteristica comune e costante nelle famiglie mezzadrili, prevalenti sui coltivatori diretti, era l’organizzazione gerarchica familiare. Ai loro margini, i braccianti. Le cui famiglie, qualora avessero trovato un podere a mezzadria, si sarebbero organizzate seguendo gli stessi criteri.

Capo famiglia mezzadrile era il capoccia, al comando della gestione poderale, rappresentante legale e referente unico presso il padrone. In genere, era il familiare più anziano. Il solo autorizzato a contrattare, allo scrittoio padronale, ogni aspetto della conduzione poderale e, financo, era tenuto a rendere conto su questioni interne alla sua famiglia, sulle quali doveva ottenere il beneplacito padronale. Come, ad esempio: quando e con chi maritare le donne di casa; se mandare o meno a scuola questo o quel bambino o bambina; se autorizzare o meno un familiare a staccarsi da casa, o a prestare servizi occasionali presso altri padroni al di fuori delle attività poderali; … Capoccia, tanto autoritario in casa propria quanto remissivo verso ordini e autorità padronale. Famoso il gesto obbligatorio del capoccia che doveva “rivolgersi al padrone col cappello in mano!”.  Autorità padronale non sempre improntata a civiltà e rispetto, quando all’arroganza non aggiunse ignoranza in materie agronomiche, recando danni a sé stesso ma, soprattutto, al più svantaggiato mezzadro. Il quale era stretto nel cerchio di controlli occhiuti quotidiani: di fattori e sotto-fattori, del prete, del maresciallo, di guardie campestri e di vicini invidiosi, sempre pronti “a far la spia” al padrone sulle trasgressioni contadine ai divieti, obblighi e regalie, pretesi dal padrone, iscritti nel patto colonico firmato alla concessione del podere. Ed era sufficiente la minima trasgressione ai patti e agli ordini padronali, insindacabili, che scattava subito la disdetta (escomio): l’allontanamento dal podere. Causa di rovine economiche di quelle famiglie marchiate d’infedeltà alla faccia di ogni altro padrone.

A dirigere questioni domestiche, la massaia. La quale gestiva in toto l’economia domestica, oltre al pollaio e all’orto, e dirimeva le beghe tra donne di casa, dove convivevano, quasi sempre, più nuclei familiari. Badava ai bambini quando le madri erano impegnate al lavoro nei campi a fianco degli uomini; perciò, era anche educatrice. E, d’intesa col capoccia, per le giovinette stabiliva le strategie matrimoniali: con chi maritarsi, previo consenso padronale (per secoli, i padroni esercitarono l’insolente privilegio dello jus primae noctis). E quando le bocche da sfamare erano troppe, per le risorse del podere, e le braccia superiori al fabbisogno, capoccia e massaia spedivano, ragazze e ragazzi adolescenti, per garzone o per serva presso altre famiglie. La massaia, dai prodotti del pollaio venduti al mercato, racimolava quel poco denaro utile ad acquisti minuti: cibi non prodotti nel podere, stoffe per abiti, medicine, calzature, materiale scolastico, … La carenza di denaro era il male comune a tante famiglie mezzadrili. Le quali, pur avendo bilanci postivi nella gestione poderale, spesso non ottenevano quanto di spettanza se non dopo lunghe snervanti trattative. L’inottemperanza al dovere dei saldi periodici era favorita dalla paura del mezzadro d’indispettire il padrone con le sue pur giuste richieste! Frequenti i casi in cui si procedé ai saldi colonici annuali dopo anni, se non decenni. Allorché, i padroni serbavano note su ogni singola partita contabile, positiva e negativa, mentre il mezzadro non sempre fu altrettanto diligente nel tenere traccia dei suoi conti, essendo passato tanto tempo tra un saldo e l’altro, e anche per scarse abilità contabili.  Nel secondo dopoguerra, furono copiose le vertenze per regolarizzare i saldi colonici, in presenza di rappresentanti sindacali (novità d’epoca repubblicana), come affermato dagli allora dirigenti sindacali Guerriero Nocentini e Quinto Santucci. (Testimonianze raccolte nel mio libro I Mezzadri, 1992). Così come accese controversie nacquero ai saldi a proposito di stime sul valore degli animali in stalla. I padroni sostennero validi i valori attribuiti alla sottoscrizione dei patti mezzadrili, risalenti all’anteguerra, mentre i contadini pretesero l’adeguamento delle stime ai valori correnti, essendo intervenuta una forte inflazione seguita alla Seconda Guerra mondiale. È chiaro come tali dispari valutazioni avessero enorme rilievo economico, considerata la presenza dei bovini tra gli animali in stalla, allora definiti nei libretti colonici, significativamente, “il capitale”.

Completavano le gerarchie familiari mezzadrili figure legate a specifiche attitudini: il bovaro e il cantiniere.

Dunque, le famiglie mezzadrili erano organizzazioni rigidamente gerarchiche disciplinate da ordini interni, di capoccia e massaie, ed esterni, derivanti da ordini verbali e obblighi, divieti e regalie contrattuali dovute al padrone o ai suoi agenti, i fattori. Costoro erano presenti nei casi di poderi di vaste dimensioni, spesso, inseriti in grandi aggregazioni poderali: le fattorie, appunto.

Oltre a vigere relazioni familiari complesse, da gestire, tra gli abitanti sotto lo stesso tetto – legami parentali non sempre stretti, specie in famiglie composte da più decine di persone[2]le famiglie mezzadrili erano imprese economiche. Dove, da uomini e donne, condividendo gran parte dei lavori, si esigeva da ciascuno impegni adeguati al sesso e all’età. Ricordiamo che anche ai ragazzi in età scolare, dopo scuola, erano assegnati compiti: raccogliere fogliame, o pascolare suini, pecore, oche. Disciplina e versatilità nello svolgere lavori più vari, in campo e in stalla, unite a vita risparmiosa e parsimoniosa, al consumo di pasti frugali (eccezion fatta in occasioni straordinarie: mietiture e battiture sulle aie o in eventi solenni, familiari e religiosi), alla modestia nel vestire e nel frequentare luoghi di ricreazione, furono tutti quanti caratteri – forgiati in usi secolari – che incisero da forza propulsiva nel miracolo economico post bellico. Nel frattempo, i contadini aggiunsero un carattere risoluto, nella solidarietà politico sindacale, maturato nelle spossanti battaglie mezzadrili – per rivendicare la riforma dei patti agrari – coincise con l’esodo massiccio dalle campagne, nel secondo dopoguerra. (Come già ricordato, a Peruzzi non sfuggì la confluenza massiccia di voti mezzadrili sui partiti radicali di sinistra). Liberate, quelle possenti energie – transitate da lavori contadini a impieghi nell’industria e nei servizi – connotarono le aree ex mezzadrili italiane quale modello di sviluppo virtuoso.

In definitiva, questo libro, ispirato da Duilio Peruzzi, è un’occasione unica per immergersi nei ricordi d’infanzia, per i più anziani, e, per i più giovani, un modo affascinante di gettare lo sguardo sul passato recente. A cui dobbiamo le attuali confortevoli condizioni di vita e le civili relazioni umane, rimosse disparità umilianti patite dai progenitori. Quale esempio, a sostegno del rispetto dovuto ai nostri avi, ricorderò l’episodio capitatomi negli anni Novanta (non oltre 30 anni fa). Mentre stavo consultando, nell’Archivio storico comunale, i registri parrocchiali “sulle famiglie per stato sociale ed economico” – nel passaggio dal Granducato di Toscana all’Unità d’Italia; anni Cinquanta Sessanta e Settanta dell’Ottocento -, l’addetto alle fotocopie mi chiese di vedere lo stato di famiglia del bisnonno Celestino. Quando lessi che, alla famiglia di Celestino, era attribuito “lo stato economico” di “miserabile”, l’addetto alle copie sbiancò! Ci fu la moda di farsi fregare soldi con farlocche ricerche “araldiche” familiari. Per conoscere la vera storia familiare, la ricerca seria va fatta in quei registri. Dove scopriremo che la maggior parte dei nostri avi fu occupata in agricoltura, e che, in alta percentuale, furono classificati “poveri” o “miserabili” e pochi “comodi”. Di ciò, non c’è vergogna; reazione ch’ebbe, invece, il copista. Anzi. Siamo grati a generazioni umili e laboriose che soffrirono con dignità.

Dignità di cui Duilio Peruzzi raccolse splendide prove in questo libro che – al passo con esigenze attuali di associare scritti a immagini per maggiore comprensione – suscita infinte sensazioni e riflessioni. Lasciandoci stupiti e ammirati per quel mondo dal passo lento che, a forza di braccia – al pari dei giganti dei miti e delle favole –, modellò un paesaggio contemplato da visitatori provenienti da ogni parte del mondo. Generazioni versatili, duttili, inventive anche nel trasformare i frutti della terra in cibo e bevande, così come furono rispettose dell’imperativo (prototipo di economia circolare): di non buttare nulla e valorizzare tutto dei prodotti della terra e degli animali allevati e cacciati. Generazioni costrette – da bramosie e prepotenze – a quotidiani esercizi di pazienza, sopportando vessazioni autoritarie, e ad esercizi di sopravvivenza: allorché dovettero, addirittura, “patire la fame” – anche se produttrici di cibo – a seguito di carestie e spoliazioni dei prodotti del loro lavoro, come fatto dovuto e legale. (I contratti agrari avevano forza di legge, collegati al Codice Civile (sic), alla cui stesura rappresentanze mezzadrili parteciparono solo dal primo dopoguerra in poi, dopo secoli di vigenza di quei patti).

Nonostante tutto, pur vessati e sacrificati, fisicamente e moralmente, c’erano momenti esistenziali contadini sereni e gioiosi.

Come nei loro rapporti con la natura e i suoi cicli: di cui si sentivano intimamente parte. Sentimenti, oggi, stemperati, se non mutati in caricature da tendenze new age. Mentre sono arrivati a noi stili di vita alienanti, convulsi, compulsivi, individualisti, e, nei gusti, condizionati e standardizzati, come lo sono città e processi produttivi nel mondo globalizzato. Tutt’altri rapporti, degli odierni, viveva il lavoratore della terra riguardo: a sapori e odori non artefatti; partecipando al concepimento alla nascita e alla morte degli animali (anche le persone nascevano e morivano in casa); alla posa di sementi e piante fino alla raccolta dei frutti; a percepire i respiri ciclici delle stagioni nelle ore del giorno e della notte;  a vivere un senso spontaneo del divino ispirato dalla natura e non da fantasiose elaborazioni di uomini religiosi, che pur vollero imporre, per controllare moralità e obbedienza contadina ai “superiori”: preti e padroni.  Fin dall’antico, la propensione contadina al sincretismo religioso, sfociato in superstizione – oggetto di studi sociologici e antropologici –non sfuggì alla Chiesa cattolica. Laddove sostituì miti, celebrazioni e implorazioni, a divinità precristiane, con propri santi, feste, riti e preghiere legate, anch’esse, ai cicli agrari; cercando d’infondere fiducia e speranza nella protezione soprannaturale sulla salute della famiglia e degli animali allevati e sul buon andamento colturale. Ricordo mio nonno paterno Beppe – non uno stinco di santo, bestemmiatore compulsivo e disertore totale dal frequentare chiesa e prete – che, però, nel “mese mariano”, ogni sera, in veste di celebrante guidava la famiglia alla recita del rosario; concludendo con una filza di litanie imploranti tutti i santi del paradiso, specie santa Eurosia: “proteggici dal fuoco dai fulmini e dalla grandine!”. Insomma, il contadino – superstizioso, in quanto esposto ad eventi atmosferici calamitosi, a disgrazie e malattie familiari e degli animali allevati – aveva la sua etica: nel lavoro, nei rapporti tra pari e verso le autorità.

Così come, pur tuttavia, non trascurava la cura di momenti gioiosi e giocosi: vivendo felice all’aria aperta, sbrigliando fantasie nelle feste pubbliche e domestiche, nei giochi popolari, nelle danze e scherzi anche sguaiati, praticando una sessualità arguta e trasgressiva; tollerata, purché non si fosse dato scandalo pubblico. (In tal caso, il capoccia avrebbe somministrato manesche rudi lezioni ai trasgressori, in ossequio al detto: i panni sporchi si lavano in casa!).

Tracce di quei momenti gioiosi sono, anch’essi, presenti nelle pagine di Duilio Peruzzi, pienamente partecipe delle atmosfere contadine.

Peruzzi fu, senz’altro, uno scienziato schiettamente popolare.

[1]Cfr. Guido Fabiani, Agricoltura mondo. La storia contemporanea e gli scenari futuri, Donzelli Editore, 2015.

[2] Cfr. M. Barbagli (a cura di), Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Il Mulino 1984.

Ferruccio Fabilli

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