RINO SCORCUCCHI, “Il POLLO”,  dette da bere vino agli assetati

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In una passeggiata domenicale, all’altezza di Bramasole, guardando in basso ci ho rivisto con la fantasia i “Polli” nella loro casa: Marsilio Scorcucchi, detto Rino, e il figlio Sergio. Dove, generosi e spontanei, m’avevano invitato a un pranzo allegro.

Quel soprannome “Pollo”, portato con nonchalance, fu trasmesso dal babbo di Rino.

Rubati in un pollaio sette  polli, gli stessi amici-ladri decisero di banchettarci. Mentre gli altri giocavano, il babbo di Rino s’incaricò di cucinarli. Ultimata la cottura, invitò i compari a tavola. Che, presi dal gioco, tergiversarono. Finiti i loro comodi, pronti a consumare il pasto, con grande sorpresa trovarono solo ossa spolpate! Così il babbo si guadagnò il soprannome “Pollo”, che trasmise agli eredi senza tassa successoria.

La qualità che colpiva subito di Rino era la giovialità, anche se avrebbe preferito indicare la sua migliore qualità nell’esser considerato un ‘compagno comunista’. Della specie rara sopravvissuta al crollo del Muro di Berlino. D’altronde, sentirsi questo o quello è la maschera che ognuno preferisce indossare; e va rispettata.

Da giovane attivista politico, aveva pure pagato con un processo. Durante un affollato comizio post-bellico, di quelli che calamitavano l’intero popolo (cortonese e italiano),  da sotto il palco d’un avversario politico lo disturbò (non ricordo di preciso) se con fischi o lanciando improperi, tipo: “vaffanculo” “buffone!” “vigliacco!” “sta’ zitto scemo!”… allora considerate offese gravi, che, oggi, farebbero ridere anche le forze dell’ordine. Venne fermato, e passò il classico brutto quarto d’ora. Rino era un passionale. Amava la vita, la  graziosa sposa e i figli, a cui aggiungeva l’altra famiglia politica: il Partito.

Di rado l’incontravi in abiti da festa, più spesso con quelli da lavoro.Artigiano edile e contadino nel podere di famiglia a Bramasole, piccola proprietà di mezza costa, dai terreni avari, ma coltivati con passione, specie la vigna e gli ulivi. L’abito da lavoro, normalmente, lo portava anche dopo cena, con gli amici alla partita a carte, o a prendere un caffè a…Terontola. Come quella volta che, insieme al solito ristretto giro di amici di zingarate, scesero in macchina (un’utilitaria, tipo la vecchia FIAT 600) alla stazione di Terontola. I bar di Cortona, a una certa ora, saranno stati chiusi? Ma, anche a Terontola, il bar era chiuso!

Anziché arrendersi, decisero di trasformare l’insuccesso temporaneo in una botta di vita: “Perché non andiamo a Roma a prendere il caffè?…” E così  fecero.

A Roma, sembrò loro poca cosa accontentarsi d’un caffè; qualcuno buttò là: “Che ne dite, andiamo a farci una mangiata di pesce a Napoli, dalla Zi’ Teresa?”. C’erano già stati, o circolava tra loro il mito di quel ristorante famoso ed elegante?

C’era un problema: Rino era vestito da lavoro. Non era il caso di rischiare tutti quei kilometri per esser cacciati fuori dalla porta per colpa d’un abito. La soluzione giunse da un parente romano di Rino, pure lui gioviale e appassionato di zingarate.

Rimediati abiti acconci, ebbero tutto il tempo di giungere a Napoli all’ora di pranzo per l’ambita pappata di pesce. Probabilmente la storia sarebbe rimasta nota alla stretta cerchia familiare, se non che, sulla via del ritorno, la vetturetta s’impuntò, costringendo l’allegra brigata a chiedere a buonanime cortonesi d’essere rimorchiati.

Produttore di buon vino, Rino non lo dispensava solo in famiglia.  Spontaneo e generoso com’era, se c’era sentore di festa o sagra (d’estate, i quartieri cortonesi  organizzano più d’una sagra: dalla bistecca al porcino, dalla lumaca alla ranocchia…) si presentava con una damigiana da cinque litri sottobraccio, offrendo vino senza spilorceria. Chiunque poteva berne a volontà. Generosità ripetuta spesso, incomprensibile per chi non fosse vissuto nella Cortona post-bellica di Rino, allorché fame e miseria dilagavano. E la carestia colpiva duro su quanti potremmo definire sbevazzoni, disposti a ogni sorta di sacrificio per un bicchier di vino. Come chi, per il mezzo litro, si faceva svenare donando sangue in ospedale, anche oltre i limiti temporali prescritti dai medici tra una donazione all’altra.

Memorabile fu l’episodio dell’urgente bisogno di sangue in sala operatoria, diretta all’epoca dal prof. Baldelli, che di corsa sguinzagliò il personale dovunque fosse possibile trovare sangue compatibile per una trasfusione diretta da donatore a paziente. In una bettola di via Dardano fu trovato un “volontario”, già alticcio. Ma la priorità era soccorrere l’esangue, che risvegliato cominciò a dare i numeri, peggio del donatore! Al contrario, Rino distribuiva gratis l’ambrosia dei poveri per il semplice gusto di star insieme in allegria. Stesso spirito con cui prendeva parte ai periodici scambi gemellari con la città di Chateau-Chinon. Dalla partenza in pullman al ritorno era un susseguirsi di battute, scherzi, gare a chi reggeva di più l’alcol. Ricordo alcuni del meraviglioso manipolo che ogni quattro anni tentavano di prosciugare le cantine della cittadina del Morvan, portando un uragano di simpatia… Da soli, Nando e Tenebrone, un pomeriggio al Torreone, “seccarono” una damigiana di vino! (Non saprei quanti litri fossero, basterebbe chiederlo a Elsa, figlia di Nando, che ancora ne ride divertita). L’ultima volta incontrai Rino, prima della sua ultima dipartita, sulle scale di casa d’un “compagno”, mentre usciva portando sottobraccio la solita damigianetta sgocciolata. Era accompagnato dal Vacca (Alfiero Palazzoli), che si mise in spalla a mo’ di violino il prosciutto che aveva in mano, dicendo: “Abbiamo fatto un piccolo concerto!…”, per palati fini, pensai. I prosciutti del Vacca abbinati al vino del “Pollo” erano musica celestiale.  Laborioso e allegro, Rino, avendo onorato nel miglior modo il precetto : “Dar da bere agli assetati” ed avendo afferrato le cose fondamentali della vita, di certo, se c’è, è in Paradiso

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