Nella mente di ognuno, la differenza tra la vita e la morte, riferita ad altre persone conosciute, è saperne l’esistenza e la possibilità o il desiderio di nuovi incontri se vive, mentre, se morte, ci si ingegna a ritualizzarne il distacco fino all’oblio, nella gran parte dei casi. Nel passato non lontano la scomparsa di un individuo era accompagnata dalla partecipazione della famiglia e da una comunità intesa come villaggio o come aggregazione sociale: partito, sindacato, associazione, … Consuetudine quasi scomparsa nell’epoca dell’atomizzazione familiare e sociale; nella stagione caratterizzata dalla solitudine, se non dall’indifferenza (apparente o reale) verso il prossimo. Infatti, non è raro vedere camere ardenti solitarie e funerali altrettanto deserti. Stentando a sopravvivere il senso di appartenenza di ciascun individuo ad una qualunque aggregazione come, in casi estremi, persino alla famiglia.
Quel che non cambierà mai è la singolarità del trapasso, nelle sue infinite espressioni: silenti, dolorose, angosciose, serene,…ogni morte è una storia a sé.
Avevo incontrato la morte, la prima volta in maniera sconvolgente, davanti al cadavere di mio fratello diciassettenne Leonardo che non si era risvegliato da un intervento chirurgico. Il sentimento prevalente, insieme al vuoto affettivo per la perdita del più intimo compagno di vita, fu lo stordimento nell’assurdo. Epilogo tragico nemmeno prospettato come vaga ipotesi dai medici curanti, che pure ebbero le loro responsabilità nel tenere un giovane decine di giorni in trazione col femore rotto e scomposto a causa di una muscolatura atletica, sottovalutandone dolosamente i rischi di una lunga attesa in piena estate in un ospedaletto d’infima qualità.
Passarono alcuni anni da quella frustata emotiva capace di sconvolgere la mente a mia madre e a me stesso, che fui incapace di proseguire gli studi intrapresi di medicina, costretto a ripiegare nella meno ardua formazione infermieristica. (A causa di una decaduta capacità di concentrazione e memorizzazione, indispensabili a governare la vastità nozionistica degli studi medico-chirurgici).
Così ebbi il primo impatto, da tirocinante infermiere, col dolore inteso come sofferenza fisica e psichica in una corsia di ospedale. Mentre accompagnavo un anziano e docile paziente al prelievo bioptico d’un frustolo di fegato, fu lo stesso malato a dire: “Questo ragazzo si sente male!” al medico e all’infermiere che avevano predisposto un siringone dall’enorme ago. L’associazione tra l’odore acre dei disinfettanti e l’impressionante siringa, che entrava nel costato per uscirne con un frustolo sanguinante di fegato, ebbero su me l’effetto d’un principio di svenimento: sudore freddo e pallore, notati dal paziente che avrebbe avuto ben altro a cui interessarsi!… Per fortuna non stramazzai a terra. Circondato da sguardi apprensivi e amorevoli, lentamente mi ripresi e fui in grado di riportare al letto di degenza quel paziente che lesse nel mio caos momentaneo un senso di partecipazione alle sue afflizioni, vere.
Quell’occasione si trasformò in vaccino: d’allora in poi riuscii ad assistere alle quotidiane manipolazioni mediche, anche intervenendo attivamente in situazioni molto crude ordinariamente presenti nella vita ospedaliera, senza più perdere il controllo di me stesso. Non solo, da allora considerai l’empatia con i sofferenti un tramite necessario tra chi assiste professionalmente e i malati che subiscono cure e manipolazioni nelle quotidiane battaglie per riconquistare la salute o per raggiungere tregue più o meno momentanee dalle malattie e dal dolore.
Dolore sparso in ogni angolo dell’ospedale, ma che in alcuni reparti è maggiormente concentrato e acuto, fino ad essere prodromo di morte, più o meno prevedibile. Curando le malattie si ha il vantaggio di prevederne pure il momento dell’evento irreparabile, previsione che, oggi, in molti casi è condivisa con l’interessato.
Un conto è immaginarselo, un conto è vivere in una corsia d’ospedale quale luogo di trapassi. Certo, medici ed infermieri devono costruirsi una solida corazza nell’affrontare quotidianamente lo spengersi di vite umane. Nella gran parte delle situazioni, oltre al malato e ai congiunti che l’assistono, l’infermiere, essendo il traghettatore più presente e conscio dell’imminente trapasso, nel diminuire i patimenti della carne cerca di dispensare parole di sollievo e illusione, finché la realtà non si fa stringente e irreversibile.
Condivido il sentimento comune che la morte migliore è di colui che non se n’avvede, come in un improvviso arresto cardiaco. Anche se, in ospedale, si tenta sempre il tutto per tutto pur di trattenere una vita, spostando sempre più in là il momento finale grazie a nuove tecniche e nuovi farmaci. Però, oltre certi limiti non si potrà mai andare e il trapasso è inevitabile, assumendo quei momenti, per ogni individuo, caratteri diversi, pur tra molte similitudini.
Il decesso intra-operatorio, di cui ho dato conto raccontando la prima esperienza personale, non è molto frequente per la scelta di non intervenire medicalmente senza un minimo di speranza, ed è assimilabile a chi scompare nel sonno. Tra i più “fortunati”. Negli infiniti altri casi avviene una sorta di battaglia, salvo i casi rari di chi attende “serenamente” di andarsene. Una battaglia segnata spesso dal terrore.
Ricordo il caso d’un motociclista deceduto andando a sbattere contro un albero. Trasportato in ospedale, già morto, notammo che nell’impatto fatale gli si erano incanutiti i capelli dallo spavento. Al contrario, l’operaio ucciso, perforando una galleria, da una massa di sabbia pareva addormentato; così come quel giovane motociclista, che, avendo arditamente impennato la motocicletta, s’era ribaltato rompendosi l’osso del collo all’istante. O come l’automobilista che, immettendosi nella strada principale senza avvedersi del sopraggiungere di un altro veicolo a tutta velocità, avendo anch’egli troncato l’osso del collo, pareva immerso in un sonno improvviso.
Dinanzi a quei cadaveri non era raro assistere al maggiore degli strazi nei congiunti; sofferenze improvvise che, mal ritualizzate, provocano effetti devastanti nei sopravvissuti, specie nelle madri di giovani ragazzi e ragazze.
Alla morte in molti casi si oppone resistenza, anche se in situazioni di incoscienza è l’organismo stesso a tentare la sopravvivenza, com’è nel caso di persone in stato comatoso che possono resistere ore, giorni, finanche mesi o anni in quello stato.
Su questi casi, in particolare, è centrato il dibattito sulla necessità d’un chiaro intervento normativo quanto più rispettoso della volontà del paziente (se espressa), o dei congiunti, se non espressa. In certi casi assistiamo ad accanimenti terapeutici, e ritengo non debba essere una “morale” pubblica a stabilirne i limiti, per quanto la gran parte dei medici interviene in soccorso silenzioso e coscienzioso a risolvere la questione: in modo umano e non ipocritamente moralistico.
Ben diversa è la resistenza alla morte in tanti altri casi, come nelle malattie degenerative, durante le quali è forte la volontà di vivere (o di farla finita) dell’interessato. In tali casi intervengono numerosi fattori a determinare i modi nell’affrontare malattie mortali, cercando, il paziente, ogni possibile appiglio più o meno razionale, più o meno confortato da letteratura scientifica. Ricordo i casi di pazienti che si sono appellati a ogni risorsa “terapeutica”, perfino alla stregoneria, a rimedi esoterici o a trattamenti medici non riconosciuti dalla medicina ufficiale. Non è il caso di giudicare, in questi casi, se l’atteggiamento sia più o meno razionale, per me vale il concetto di provarle tutte, senza escludere nulla, possibilmente consigliati da persone amorevoli, senza preconcetti e dotate di un sapere medico che, conoscendo i limiti della scienza, sa quanto possa valere la volontà di un individuo…anche di compiere prodigi, come nelle cosiddette guarigioni inspiegabili, rare, ma che ogni tanto accadono.
Un tale Luigi, di origini cortonesi dai simpatici baffetti, con cui feci amicizia in corsia, aveva contratto una leucemia inesorabile a seguito dell’uso di sostanze chimiche durante trattamenti fitosanitari. Aveva una gran voglia di vivere, ma, oltre le trasfusioni di sangue che lo tennero in vita per una ventina di giorni, non ebbe scampo. Mentre un altro operaio agricolo, vittima anch’egli di intossicazione per prolungati periodi di trattamenti fitosanitari senza adeguate protezioni, resisté solo una notte. Ricoverato la sera per insufficienza renale acuta, interpellato il centro milanese antiveleni di Niguarda, una volta saputo il prodotto manipolato dall’operaio, ce ne fu diagnosticata semplicemente la fine, non aveva e non ebbe scampo.
Più tribolata sembrava la fine degli alcolisti. Molti dei quali erano più volte caduti in episodi di allucinazioni, se non di coma epatico, ma che una volta smaltita la sbornia, riprendendo a bere, finivano per compromettersi gli organi irrimediabilmente. Come nel caso di un giovane barista di Foiano, a cui un edema generalizzato fece scoppiare e macerare la pelle fino alla cachessia finale, o, in molti casi, la causa della morte era lo scoppio incontenibile delle varici esofagee. L’agonia di costoro non durava a lungo, al massimo una intera notte di versamenti sanguigni sotto forma di vomito e feci. Osservando le facce delle assistenti, più spesso le mogli, ne capivi la rassegnazione, avendo vissuto accanto a quegli infelici congiunti da lungo tempo incamminati sulla strada di un lento suicidio. Spesso si trattava di persone giovani, che costringevano a toccare con mano gli effetti della temibile dipendenza alcolica: fisica e psichica, in persone dai caratteri, evidentemente, deboli, e dalle aspettative esistenziali insufficienti a intraprendere la strada della sobrietà. Devo dire, però, che non pochi forti bevitori conosciuti sono giunti fino a tarda età, essendo stati capaci di non superare certi limiti nei consumi alcolici (soprattutto vino) e di non ingurgitare mescolanze pazzesche di liquori (amari, vermout, vinsanti, …), quanto, invece, non erano in grado di fare quegli altri che si bruciavano la vita come un fulminante e non già come una candela…
Anche se molti l’avranno pensato: “non voglio morire!”, ho sentito uscire da poche bocche quell’espressione. Sebbene ci sono stati, magari esprimendosi solo in sguardi; senza distinzione di età o di credo.
Per quanto evento naturale, la morte, nella cultura generalizzata, è un evento temibile e terribile Anche per chi crede questa vita prodromica alla “vera” vita nell’aldilà. Se pure, a tale scopo, avevano orientato la loro etica e il loro spirito di rinuncia a tanti piaceri per raggiungere quell’agognato paradisiaco “aldilà” … ma, nella sua prossimità, la morte raramente è considerata quel sonno eterno e luce perpetua, predicato dalla religione, in attesa della resurrezione, bensì il sentimento prevalente è la fine di tutto, immersi nei tormenti del dolore.
Tanto vale godersi la vita…che già di suo può essere inferno o paradiso.
A me non piace fare facili moralismi affrontando l’argomento della morte. Ho solo un ricordo vivido delle ultime parole del beccaio Renzo rivolto ai congiunti: “Non piangete per me, ché mi sono divertito tanto!”.
Vissuto senza risparmio nella pratica edonistica consentita nel suo ambiente e nel suo momento storico: libertino ruspante e insistito (amava ricambiato le donne), praticando amicizia e convivialità, cercò di non farsi nemici, e trattò il prossimo onestamente, tal che, in punto di morte, fu lui stesso a confortare i propri familiari!