Il contadino e la vecchia India, Bruschi Quintilio scultore in mostra, di Vanessa Bigliazzi

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Bruschi quintilio 2Lo scorso 5 aprile è stata inaugurata alla Fortezza del Girifalco la mostra La Vecchia India di Quintilio Bruschi. Come ha correttamente osservato il Prof. Marco Pacioni, intervenuto durante l’inaugurazione: «“Vecchia” sta per arcaico, atemporale e “India” è ciò che aiuta a evocare una dimensione fuori dal tempo cronologico».

A quasi venti anni dalla sua morte, l’articolo “Quintilio Bruschi , ex contadino, geniale scultore creativo del legno” pubblicato su questo stesso giornale da Ferruccio Fabilli (edizione del 15 maggio 2017) è stato uno stimolo importante per ricostruire la storia dello scultore e delle sue opere.

Quintilio Bruschi nacque in una famiglia contadina di Cortona nel 1912 e visse  nel cuore della Valdichiana: prima a Cortona poi ad Acquaviva di Montepulciano dove morì nel 2002.

All’inizio degli anni Trenta, fu artigliere e responsabile di un deposito di armamenti al Forte Santa Caterina di Verona. Durante la guerra combatté in Libia, dove fu ferito gravemente al cranio e fu costretto a rimpatriare. Aveva sposato nel 1937 Mafalda Crocini. La coppia non ebbe figli e poté vivere della pensione d’invalidità di Quintilio.

Bruschi iniziò a scolpire e a disegnare nel 1970, all’età di cinquantotto anni. Prima di allora non aveva mai lavorato il legno, eppure una mattina decise di procurarsi scalpello e mazzuolo e cominciò a scolpire il primo pezzo di legno che gli era capitato sottomano, finché non riuscì a creare una figura intera che avrebbe donato in seguito a papa Paolo VI. L’opera, ancora oggi conservata presso la collezione d’arte contemporanea dei Musei Vaticani, gli consentì di ottenere la Benedizione Apostolica del Santo Padre nel 1972.

Grazie alla scultura, Bruschi riuscì a liberarsi delle proprie angosce, rielaborandole e trasformando la realtà in un mondo immaginario. L’arte gli permise di superare una profonda crisi depressiva che molto probabilmente risaliva alla ferita subita in guerra. È come se dopo questa grave ferita le difese psichiche che esistono ordinariamente tra il conscio e l’inconscio, ossia tra le parti razionali ed emozionali fossero in parte cadute.

Bruschi realizzò imponenti sculture in rovere, noce, ciliegio, ma utilizzò anche vecchi copertoni di automobili, ritagli di latta e cartone.

Tra i suoi soggetti più frequenti, gli autoritratti e le raffigurazioni di donne e uomini da lui definiti «delle prime epoche». Queste figure hanno un carattere sacrale e allargano le braccia, esprimendo stupore e una riverenza ipnotica, quasi magica. Le sue figure femminili – busti e madonne a seno nudo circondate da animali senza nome – denotano una prorompente sensualità.

Intorno alle statue femminili ricorre una corona di nodi di querce, simbolo di fertilità. Il Bruschi esaltava la donna nella sua femminilità: il suo era un amore estetico puro capace di  vedere nelle forme di ogni donna qualcosa di vivo, di gioioso, di creativo.

Le sue opere richiamano le tradizioni artistiche di popoli esotici, come i totem delle tribù indiane, l’arte precolombiana e le raffigurazioni scultoree dell’isola di Pasqua.  Nei suoi lavori c’è una profonda commistione tra gli esseri viventi del presente e del passato, aspetto evidente già dalle colte citazioni che si nascondono nei titoli: “La carbonaia dell’800 che va sul monte a fare calorie per la famiglia”, “Il Duca D’Aosta”, “La Nonna”, “Infanzia”, “Il Faraone”, “ La Via Crucis”, “Minerva che nasce dalla testa di Giove”.

Ciò che sorprende è che Bruschi, autentico autodidatta, non ha mai avuto influenze tecniche e culturali: la sua è una creatività spontanea e singolare, che consente di inquadrarlo nell’ambito dell’arte naïf, istintiva e priva di una vera tradizione. Come ha scritto lo storico dell’arte Oto Bihalji-Merin, «come i bambini e i primitivi, i naïf non dipingono né scolpiscono ciò che vedono, ma ciò che sanno o credono».

In vita, Bruschi ottenne encomi, articoli, recensioni, buoni giudizi da parte dei critici e apparizioni televisive.  Nel 1990 venne insignito del titolo di Cavaliere della Repubblica dall’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

Poté mettere in mostra la propria arte in città come Torino, Bolzano, Bari e Palermo.

Uno dei più assidui frequentatori della sua bottega fu il giornalista e scrittore Ettore Masina che grazie alle sue recensioni dette al Bruschi una visibilità nazionale.

Le sue opere furono esposte per l’ultima volta nel 1997 presso la mostra Arte Necessaria ai Cantieri Culturali della Zisa di Palermo. Per il Bruschi, ormai ottantacinquenne, quest’ultima mostra rappresentò la consacrazione del proprio lavoro artistico. I suoi lavori furono esposti insieme alle opere di artisti come Fillippo Bentivegna,  Francesco Cusumano, Agostino Goldani, Tarcisio Merati, Salvatore Bonura, Franca Settembrini .  Alessandra Ottieri, curatrice della mostra, lo definì un outsider, un irregolare, accomunandolo ad altri undici artisti in grado di creare un’arte profondamente espressiva e di valore, pur essendo completamente autodidatti, di umili condizioni, in certi casi con problematiche psicologiche e senza nessun rapporto con l’ambiente dell’arte ufficiale.

La mostra, realizzata con la collaborazione dell’Associazione Cortona on the Move e del Comune di Cortona, resterà alla Fortezza del Girifalco fino al prossimo 5 maggio.

Vanessa Bigliazzi

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I soci fondatori delle Case del popolo, altruisti d’altri tempi

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Casa del Popolo di CamuciaTornando col pensiero alle condizioni sociali e politiche del secondo dopoguerra, si  comprenderà il fenomeno che caratterizzò alcune zone cortonesi dal rosso intenso – per l’alta concentrazione di comunisti e socialisti –. Dove la gente, con abnegazione, si ostinò a costruire ritrovi pubblici per attività ricreative e politiche: le Case del popolo.

Fin dai primi del Novecento, nel Capoluogo non mancavano luoghi di incontro,  dalle caratteristiche ricreative, culturali e politiche (cinema, teatro, bar, sale giochi e da ballo), come il Circolo Operaio Signorelli e il Circolo Benedetti. Nel resto del territorio comunale avresti trovato  pochi bar, e rare sale da ballo. I più diffusi e organizzati ritrovi per conferenze, giochi per ragazzi, erano adiacenze parrocchiali: oratori, cinemini, sale per feste e riunioni. Trenta o quaranta parrocchie, presidiate allora da un clero autoctono, addestrato non solo a dispensare sacramenti e dottrina cristiana, ma anche a tessere trame politiche filogovernative e anticomuniste,  in modo più o meno esplicito ed esagitato. Pure le sedi del Fascio, unico e incontrastato presidio politico territoriale durante il Ventennio, non furono così tante, insediate nelle frazioni principali.

Finita la guerra – iniziata l’acuta divaricazione politica tra i partiti del Fronte popolare di sinistra, da una parte,  e, dall’altra,  la DC e gli alleati centristi – sorse l’impegno, divenuto esigenza impellente, di costruire nelle frazioni più rosse e popolose ritrovi polifunzionali. Aperti, nelle intenzioni, alle varie tendenze culturali, sportive e politiche presenti nel luogo, non rappresentate dalla Chiesa. Nonostante le difficoltà materiali di molte famiglie, strette tra miseria diffusa e alla perenne ricerca di lavori spesso precari e malpagati, il moto a favore della edificazione delle Case del popolo fu così partecipato e virtuoso che, nel giro di pochi anni, fiorirono molte costruzioni. A mente, ricordo a Cignano, Montecchio, S. Lorenzo, Farneta, Chianacce, Camucia.

Tra i primi, a contrastarne la realizzazione, furono gli avversari politici del Fronte social comunista, e i preti. Nel ’48, la scomunica contro i comunisti ebbe ripercussioni anche sulle processioni, almeno in qualche parrocchia, dove, per l’assenza delle possenti spalle contadine, toccò alle donne sorreggere le pesanti stanghe delle statue sacre. Dimostrazioni tangibili del distacco massiccio dalle funzioni religiose avvenuto nelle campagne, per via della scomunica.  Alla quale reagirono tanti, indignati, dovendo scegliere tra due fedi: religiosa e di partito. Nel cerchio dei favorevoli a costruire Case del popolo,  insieme ai rossi, si aggregarono non pochi laici, indipendenti dai partiti e dal clero. Tra loro, a Camucia, si  distinse il farmacista Edo Bianchi. Il quale donò il suo obolo pensando al fatto positivo di una frazione che stava organizzando una nuova sede di svago e incontri. Per più generazioni, in quei ritrovi si formarono coppie di innamorati al ballo, vi si riunivano persone sprovviste delle prime televisioni, o in incontri politici e ricreativi, a partire dalle Feste de L’Unità, che presero campo in molte delle numerose frazioni cortonesi.

Il concorso popolare alla costruzione  andava dalla sottoscrizione di quote sociali, a fornire lavoro volontario e gratuito, o conferire, a gratis o a prezzi scontati,  materiale da costruzione: mattoni, cemento, sabbia, ecc. Nei primi anni, la gestione delle Case del popolo fu concorde tra socialisti e comunisti. Ma in virtù del maggiore attivismo dei comunisti,  più numerosi, e a seguito di certi episodi politici scatenanti polemiche tra i social comunisti (i fatti di Ungheria, la riunificazione socialista, e l’avvento del Craxismo), furono, spesso, i comunisti a egemonizzare le cooperative di gestione delle Casa del popolo.  Spazi  stretti furono concessi ai partiti minori di sinistra, PSIUP e Rifondazione Comunista. Gradualmente, furono allontanati dalla sede, anche fisicamente, i socialisti, che, a Camucia, trovarono ricovero in piazza De Gasperi. (Fino a non molto tempo fa, quel locale apparentemente abbandonato, alla scomparsa di Craxi dalla  scena politica, lasciava in bella mostra in vetrina una rosa nel pugno che nel tempo stingeva il colore). Infine,  sorte disonorevole è toccata alla Casa del popolo di via s. Lazzaro. Rimasta in mano agli eredi del patrimonio (non degli ideali) comunista, versa da anni  in triste abbandono: dettato dall’inadeguatezza della struttura a nuove esigenze? O pur anche dalla scomparsa di soci volenterosi a prestare gratuitamente mano d’opera e denari, come furono i primi fondatori, animati da incrollabile fede nel futuro dei loro ideali?

In realtà, quel che alcuni eredi dei soci fondatori hanno sommessamente lamentato è stata la carenza di informazione sui motivi dell’abbandono di questa Casa del popolo, che fa penosa mostra di sé in mezzo a Camucia.

Certo il destino delle Case del popolo è stato condizionato dalla loro duttilità strutturale a servire alle nuove esigenze aggregative e ricreative. Non c’è dubbio, però,  che dove i gestori si sono impegnati con lungimiranza ne hanno conservato l’uso sociale, in modi più o meno brillanti, ma pur sempre funzionali alla vita di paese. L’esempio più eclatante è a Chianacce, dove, resisi conto delle nuove esigenze, se n’è costruita, ex novo, un’altra. Negli anni Ottanta. Alla cui inaugurazione, addirittura, intervenne Alessandro Natta, allora segretario nazionale del PCI. Meno brillanti, tuttavia ancora aperte, le Case del popolo di Montecchio, s. Lorenzo e Cignano. Non che sia venuta meno l’esigenza dei luoghi di aggregazione laica paesana. Anzi. Specialmente con l’aumento della popolazione anziana, lo stesso Comune è stato sollecitato a provvedere. Da ricordare in proposito, l’impegno dello scomparso Angiolo Fanicchi per le sedi nuove di incontri realizzate a Terontola e a Pietraia. Modello che richiederebbe d’essere esteso laddove strutture private o parrocchiali non fossero in grado di fornire funzioni analoghe.

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La Grecia e i bambimi martiri del liberismo (corsivo di Petruska)

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bambini greciaNotizie non gradite al Potere politico-economico vengono censurate (vedi  il “crimine”  perpetrato su J. Assange),  o puntualmente taciute per falsificare la realtà dei fatti.

Federico Fubini, vicedirettore del Corriere della Sera, ha confessato a TV2000 (televisione vicino al Vaticano) di aver taciuto sulla terribile strage di bambini in Grecia morti per mancanza di servizi sanitari, cure, farmaci e cibo.

 Confessa di aver taciuto  consapevolmente la verità per non favorire  gli antieuropeisti.

I responsabili di questo assassinio sono gli autori dei memorandum della Troika, cioè EU, Fondo Monetario, Banca Centrale Europea  e il Governo greco di Tsipras.

Non si può dimenticare che tempo fa il Senatore a vita (per quali meriti sia stato nominato, dopo il suo governo si è capito!) Mario Monti dichiarò che la Grecia era stato il più grande successo della Comunità Europea, cioè  dell’euro.

 Il vicedirettore Fubini non si dovrebbe  perdonare, minimo andrebbe radiato dall’albo dei giornalisti. Ammette che lo abbia fatto per non favorire gli anti EU, sic! Cosa non  si è disposti a fare per giustificare le politiche liberiste e ingraziarsi  i propri padroni. Facciano però attenzione che il castello neoliberista sta crollando, e dalle macerie stanno scappando i cittadini europei consapevoli dell’inganno che a fronte delle ricchezze smodate per pochi ai più son tolti diritti e sicurezza sociale.

Nonostante la confessione sulla Grecia, il Corriere della Sera, insieme alle televisioni e a gran parte dei giornali continuano a  censurare o falsificare  sul conflitto in Medio Oriente e sulla situazione in Venezuela e su ogni altra situazione che deragli dal “pensiero unico” liberista.

Mentre la confessione del Corsera è dovuta  uscire dopo la denuncia dell’UNICEF che ha destato giustamente un’indignazione mondiale.

Che squallore!

 

Petruska

Sapere è potere – Potere è non far sapere (corsivo di Petruska)

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assangeJ. Assange ha svolto un formidabile servizio a tutti coloro che nel mondo hanno cari i valori di libertà e democrazia e di  conseguenza hanno il diritto di conoscere ciò che combinano i loro rappresentanti eletti.

Esattamente per questo motivo Assange è diventato un pericoloso criminale delle società “libere e democratiche”.

Il principio fondante di un governo è il potere. Il Potere (quello dispotico-criminale) conserva la sua forza rimanendo nell’oscurità. Esposto alla luce inizia e evaporare.

Assange ha commesso il grave di crimine di aver esposto il Potere alla luce, il che potrebbe portare all’evaporazione il Potere se la popolazione si rendesse conto dell’opportunità di diventare cittadini liberi in una società libera invece che soggetti di un Padrone che agisce in segreto.

I governanti  non hanno nulla che li possa supportare, al di fuori dell’opinione, e di conseguenza è sulla pura opinione che i governanti edificano il loro potere.

Per questo motivo i Padroni, i governanti hanno sviluppato l’enorme struttura delle relazioni pubbliche, un ente di propaganda.

Lo scopo principale della segretazione dei documenti è controllare le popolazioni e agire in segreto in modo che le masse rimangano al proprio posto, lontane dalle leve del potere.

 Il crimine di Assange è aver violato i principali fondamenti del Potere lobbystico-imprenditoriale.

 In realtà il Potere appartiene al popolo.

Petruska

P.S.  La Commissione Europea vieta le verbalizzazioni delle riunioni.

 

 Seconda uscita in questo blog del mio amico Petruska (Pierino)

Da Tsipras a Sanchez gli idoli della sinistra europea (corsivo di Petruska)

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PEDRO SANCHEZMa davvero in Spagna ha vinto la sinistra?

I socialisti spagnoli vogliono aprire una nuova stagione politica dove le istanze socialiste riprendono importanza con una chiara discontinuità con il passato?

Le prime parole del segretario Pedro Sanchez  dopo il risultato elettorale delle politiche , dove il Psoe raccoglie  circa il 29%,  “ con noi hanno vinto la democrazia e l’Europa, ha vinto il futuro. Mentre il passato e la restaurazione sono stati sconfitti”.

Lo stesso Sanchez ha provveduto a spegnere ogni speranza per coloro che pensavano a una discontinuità con le politiche neofasciste e liberiste dell’Unione Europea, (austerità e neoliberismo).

 Il segretario del Psoe dopo aver fieramente riconosciuto  in seno alla EU il golpista  venezuelano Guaidò . Ha sostenuto fieramente l’ex Presidente neo-nazista ucraino Poroshenko. Fiero nel mantenere l’immorale vendita di armi all’Arabia Saudita per la sua guerra allo Yemen. Fiero di aumentare le spese militari in seno alla Nato.

Per concludere, quest’idolo della sinistra europea si è lanciato in sperticati elogi della monarchia spagnola “abbiamo una monarchia rinnovata e esemplare nella figura di Felipe VI” . Sic! Sic!

Ancora “La Spagna ha fatto vedere a tutti, in questo voto, che le idee e le proposte dei progressisti possono battere il totalitarismo, il razzismo e la destra”.

Questa terminologia ripete, echeggiandolei, le narrazioni politiche fatte in Grecia (Tsipras) , e  in Italia (Renzi).

Tanta subalternità  alle politiche neoliberiste e tanta ambiguità politica non è beneaugurante. Anzi,  non è da escludere che alle prossime elezioni i franchisti di Vox potrebbero andare diritti al governo.

Petruska

ALEXI TSIPRAS

(Petruska è lo pseudonimo di un carissimo amico di cui ho deciso, d’ora in poi, di raccoglierne, sotto forma di corsivi, le sue battute politiche brucianti, con le quali mi “provoca” nei nostri incontri. E se susciteranno reazioni e commenti su Facebook, ne sarò ben lieto. F. Ferruccio))

 

 

 

Francesco Nunziato Morè, Commendatore, Grand’Ufficiale, Cavaliere, Ragioniere

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tutti-dormono-sulla-collina-di-dardano-di-ferruccio-fabilliLa prima volta in Ospedale da neoinfermiere, dalla bacheca all’entrata conobbi il nome di uno dei miei futuri capi: il Direttore Amministrativo, scritto in appendice a deliberazioni, comunicati, ordini di servizio. Dall’estensione dei titoli e mansioni, non poteva non incutere soggezione. Al contrario, di persona, si mostrò gentile e disponibile;  gestiva il potere conoscendo minuziosamente persone, cose, procedure e quant’altro fosse stato utile all’ammaraggio morbido, in quel pianeta, d’un pivello, quale mi presentai.

Alla scrivania di rado stava seduto, sempre in movimento dagli scaffali al tavolo, convocava continuamente questo o quel collega amministrativo per dare incombenze o chiarire il miglior modo di procedere nella quotidiana nassa di adempimenti. Elegante, in cravatta, giacca e pantaloni abbinati, capelli folti e candidi pettinati con cura, occhiali spessi con montatura dorata. Dai modi fini e formali, ma non creava distanze. Anzi, induceva ad affrontare subito il nocciolo della conversazione,  senza tergiversare in cerimoniosi inutili orpelli. Era la sua filosofia: nel lavoro, tempo e concentrazione erano preziosi alleati. Senza negarsi, però, a un sorriso sbrogliato il problema, o in occasione di ritrovi coi colleghi a festeggiare ricorrenze, o partecipando ai non rari convivi goderecci organizzati dal personale, in questo o quel ristorante. Era un gastro-resacato (mi pare), ma considerava il suo stomaco di acciaio, dandone ampie dimostrazioni a gambe sotto la tavola.

L’Ospedale era una specie di famiglia allargata, dato le tante ore di lavoro insieme, compresi i turni pomeridiani e notturni. Per l’attaccamento al lavoro, e la mole di impegni, spesso il Commendatore (così lo chiamavamo, i più) entrava presto la mattina e usciva nel tardo pomeriggio. Sapevamo, insomma, ch’era presente e rintracciabile al bisogno, senza difficoltà. Lui stesso faceva qualche visitina nei reparti anche solo per un saluto, o scambiare battute col suo allegro umorismo all’inglese: misurato e pungente.

Ma com’era giunto a Cortona? Ne parlava come la storia d’un innamoramento.

Nativo del Catanese, e impiegato per tanti anni al Ministero della Sanità a Roma. Già in quegli uffici, per meriti di lavoro, aveva guadagnato quasi per intero una sfilza di titoli onorifici: Cavaliere, Grand’Ufficiale, fino al massimo, Commendatore. Proprio da ministeriale era stato incaricato di recarsi a Cortona a controllare i conti dell’Ospedale. Una volta pensionato dal Ministero, questa Città gli era  piaciuta al punto da proporsi come impiegato presso l’Ospedale, che non gli era più estraneo. A proposito del clamore che seguì il pensionamento in massa di dirigenti ministeriali, si parlò di “pensioni e liquidazioni d’oro”, e se qualcuno associava Moré a quella fortuna lui ci rideva, lasciando nel dubbio. Comunque sia andata, il Commendatore – ben accolto dagli amministratori, vuoi per il positivo approccio da controllore, vuoi per la straordinaria esperienza maturata al Ministero – ben presto si fece una splendida dimora alle porte della Città, dove riunì e crebbe la famiglia. E da qui non si sarebbe più mosso. Dimostrando impegno e passione nel lavoro e nel volontariato – Governatore della Misericordia e presidente della cooperativa del periodico L’Etruria – avendo scelto, felicemente, Cortona città adottiva.

Discreto fumatore anche in ufficio – ancora non era partita la crociata dei divieti antitabagismo –, nei momenti caldi allentava la disciplina dell’eleganza stando in maniche di camicia, e, per me non senza sorpresa, rimpallava domande e risposte, dalle rispettive stanze, col fido vice ragioniere Mauro Ulivelli – altro strafumatore. Credo, l’unico autorizzato a chiamarlo Gegé. Gli anni Settanta assisterono a momenti di rinnovato splendore ed efficienza dell’Ospedale, anche per merito di Moré. Una specie di canto del cigno, prima della chiusura per confluire, con altri presidi ospedalieri, nel nuovo stabile della Fratta. Il Commendatore e l’Economo Salvicchi, in quegli anni dettero il meglio di sé da dirigenti ospedalieri amministrativi, avendo favorito trasformazioni radicali, in pochi anni Settanta. Con il restauro completo della struttura, decaduta e abbandonata dall’utenza, e con l’immissione di personale, per qualità e quantità,  idoneo a reggere degnamente i servizi attivi: Chirurgia, Medicina, Ostetricia e Ginecologia e Ortopedia. (Bisogna considerare la difficoltà di attrarre a Cortona specialisti d’una certa qualità, e farli rimanere, convincendoli che la struttura era degna non di un fugace transito ma di una definitiva collocazione). Senza quell’intervento radicale, le condizioni dell’Ospedale erano come se fosse in via di chiusura. Anzi, sarebbe stato meglio chiuderlo.

Moré era Repubblicano. Simpatia politica che gli si attagliava come gli abiti eleganti. I Repubblicani erano laici e ritenevano prioritario uno stato efficiente, perciò giusto. Anche se di lì a poco sarebbero scomparsi. Però, se non ricordo male, furono rari i repubblicani scovati con un po’ di “marmellata” in bocca ai tempi di tangentopoli, mentre negli altri partiti la “marmellata” era scorsa a secchiate! Il Moré repubblicano, oltretutto, era vicino a istanze popolari. E, di questo, n’ebbi esplicita testimonianza diretta. Allorché, quel ch’era il mio partito, il PCI, decise di cambiare nome e simbolo, incontrandomi, m’apostrofò: “Ma cosa stanno facendo i tuoi compagni? Distruggono il partito dei lavoratori?!… Mi sembrate tutti matti!… Se ne avessi le forze, lo ricostituirei io quel Partito!” lasciandomi di stucco. In genere ci si aspetta da persone mature tendenze moderate, ed era questa le mia convinzione sul Cav. Granduff. Comm. Rag. Francesco Nunziato Moré. Il quale, invece, m’insinuò il tarlo del dubbio su quella trasformazione politica che avevo accettato – oggi posso dirlo –, sconsideratamente, di buon grado. Si stava creando in Italia un vuoto assurdo.

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Il carteggio Leonetti-Trotskij (1930-1937), donato a Cortona, presto sarà pubblicato

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Foto LeonettiCon quanti, intellettuali e politici, transitarono nella villa di Umberto Morra si potrebbe scrivere un saggio storico sull’Italia del Novecento. Colto, generoso, spirito libertario, Morra ospitò menti combattive, creative, libere, che l’ebbero amico, consigliere, sostegno materiale. Del flusso di quei personaggi beneficiò Cortona. Basti ricordare, nel Palazzo comunale e al Teatro Signorelli, le conferenze letterarie di Alberto Moravia (a Metelliano, scrisse gli Indifferenti), o storico filosofiche con Alessandro Passerin D’Entrèves e Norberto Bobbio, amici di Morra. Tra costoro, con Giustino Gabrielli (allora, capogruppo PCI in Consiglio comunale) incontrammo un compagno anziano e gentile, Alfonso Leonetti. Primo direttore de L’Unità di Antonio Gramsci. Cofondatore del Partito comunista, nel 1921. Antifascista perseguitato, esule in Francia a fine anni Venti, espulso dal partito comunista nel 1930, perché contrario alla stalinizzazione del partito. Antifascista e dissidente comunista vicino a Trotskij, fino al ‘45 ebbe vita grama, senza mai rinunciare alla missione prescelta, maturata in gioventù, d’essere  “rivoluzionario di professione”. Giornalista  socialista e comunista, agitatore politico-sindacale. Figlio d’un umile sarto di Andria, nella Puglia contadina e bracciantile, dove sfruttamento degli agrari, abbrutimento, ignoranza e indigenza, umiliavano gran parte della popolazione. Personaggio rilevante per meriti politici, ma noto solo a pochi studiosi, per il motivo che la storia è scritta dai vincitori. La rottura di Leonetti col partito di Togliatti, e la conseguente espulsione, ne decise la diminuitio memoriae. Pur riaccolto nel PCI (1962), perché  onesto e rigoroso, come gli riconobbero Umberto Terracini, Camilla Ravera, e Palmiro Togliatti (da stalinista, convertito alla via nazionale al socialismo, policentrico rispetto al partito guida sovietico), tutti quanti antichi compagni di militanza politica e coredattori ne L’Avanti o ne L’Ordine Nuovo.

Sindaco negli anni Ottanta, conobbi Leonetti quasi novantenne (nato nel 1895, morto nel 1984), vivace, curioso, spontaneo. Amichevole. In brevi lettere, scritte a penna, suggeriva iniziative culturali, spesso accompagnate da note su  personaggi a lui cari. Tra questi, Camillo Berneri. Insegnante anarchico, ospite  di Morra a Metelliano, negli anni Trenta. Ucciso in Spagna dai comunisti staliniani.  Finché Leonetti donò a Cortona molti libri e un suo carteggio inedito (salvo poche lettere) con Lev Trotskij, dal 1930 al 1937. Depositato in  Biblioteca, nel  “Fondo Leonetti”. A oltre trent’anni dalla scomparsa di Alfonso, ho ripreso quella corrispondenza. Ordinata, recuperata fortunosamente, lo si capisce dalle varie grafie:  brogliacci scritti a mano, fotocopie, certe persino illeggibili. Scritti in francese – lingua adottata dai Trotzkisti -, ho coinvolto Mirella Marucelli di madre lingua francese. Traduttrice alla prima esperienza, presa da quel mondo d’esuli e perseguitati come il babbo, antifascista riparato in Marocco e Francia, all’epoca stessa del carteggio. Poi ho reso complice Valeria Checconi – studi classici e paleografici – per seconde e terze letture di testi molto estesi. In gergo politico, allusivi di personaggi sotto pseudonimo da meglio identificare – clandestini, esposti a controlli polizieschi e a spie avversarie non meno pericolose.  Oltre a dover illuminare, con note aggiunte, la strada al lettore. Questo lavoro di gruppo, presto, sarà reso pubblico a stampa.

Consapevole della sua fine prossima, il vecchio rivoluzionario, dubbioso sugli eventi futuri, salutandoci, l’ultima volta, esclamò: “Che dite, la talpa scava ancora?”. Per “talpa” intendeva l’idea rivoluzionaria della trasformazione socialista delle società capitaliste. Domanda mica da ridere!… Alla quale, di lì a poco, seguì la dissoluzione della Russia sovietica e la fine dei regimi staliniani nell’Europa dell’Est. Di riflesso, i partiti comunisti occidentali, tesi a schivare conseguenze dalla caduta del Muro di Berlino, cambiarono nome, obiettivi e categorie (classi) politiche di riferimento. Abbandonarono Marx, proletariato, socialismo,… accettando il neoliberismo, dietro ai socialdemocratici, salvo residui di socialismo classico tra progressisti, specie anglosassoni. Ciononostante, rimangono due potenze ispirate al comunismo: Cina, tra un po’ prima potenza economica mondiale, e  Vietnam, che ha sconfitto in guerra gli USA, forza militare planetaria. Cina e Vietnam però, ritenuti modelli lontani dall’ occidente, sono stati da sempre poco considerati. Intanto, tra gli studiosi, pescando su cataste di libri, si va da un estremo all’altro: da “Il passato di un’illusione – L’idea comunista nel XX secolo” di François Furet (1995), all’ “Attualità di Marx” di Giulio Sapelli (2014). In breve, è evidente quanto sia difficile e complesso rispondere al quesito di Leonetti sulla sua “talpa” scavatrice.

Protagonisti politici rilevanti del Novecento, saggisti di valore, la corrispondenza  Leonetti-Trotskij è fonte singolare nell’evocare momenti cruciali degli anni Trenta: diatribe mondiali tra comunisti stalinisti e antistalinisti; fervore e drammi parigini degli esuli antifascisti italiani; previsioni profetiche di sventure incipienti (Hitler al potere); e future, quale l’implosione del regime sovietico. I due, invisi a desta e a sinistra, furono tenuti sotto scacco pesante da governi, polizie e avversari politici, pur disponendo d’armi spuntate: articoli di giornale, pamphlet, e piccoli gruppi di agitatori politici. Riuniti nel nome di Trotskij, votati alla rivoluzione permanente, contrari al partito guida stalinista, contrari alla rottura delle alleanze con anarchici e socialisti (quest’ultimi, bollati social fascisti dalla Terza internazionale comunista), favorevoli a battaglie comuni con chiunque interessato a libertà e giustizia sociale.

Rileggendo il carteggio e gli scritti di Leonetti, un suo lascito è duraturo: in nome della libertà di pensiero e in difesa dei più deboli, non rinunciò mai a battaglie ritenute giuste, anche a costo di enormi sacrifici, subendo soprusi ed emarginazione. E non gli andò tanto male: prese una scarica di legnate fasciste, fu ridotto in miseria dagli stalinisti, tuttavia  salvò la buccia, Trotskij, invece , fu picconato in testa (1940).

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Foto LeonettiRitratto di Alfonso Leonetti, terracotta dell’artista Raffaele Fienga.

Lo sventurato rispose: Okkey!…Che gli fu rifilato per soprannome

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tutti-dormono-sulla-collina-di-dardano-di-ferruccio-fabilliL’interessato stesso raccontava l’origine del suo strano soprannome: Okkey. Durante un bombardamento, da adolescente, riparato in un cunicolo – non del tutto chiaro se consenziente o senza scampo –  fu preso da dietro da un aitante colored soldato nord-americano. Tra farsi sodomizzare o uscire allo scoperto sotto una gragnola di proiettili aerei, cedé alla libidine altrui, dando il suo assenso: Okkey!

Non si sa se la storia, tra i due riparati nell’interrato, ebbe un seguito sotto forma di mercimonio com’era iniziato: sesso passivo in cambio di fiaschi di vino. Non era da escluderlo dai racconti frammentari e allusivi, non reticenti, caso mai indecifrabili tra farfuglii da bevitore. Tuttavia, Okkey, nonostante l’episodico rapporto omosessuale, mise su famiglia ed ebbe dei figli; marito e padre, non è il caso giudicare quanto adeguato, certo sorretto da una paziente, per non dire, santa moglie.

Il vizio del bere l’aveva perseguitato fin d’adolescente. Cinquantenne, dimostrava una decina di anni in più: ingobbito, pareva poggiare le spalle all’altezza della cintola dei calzoni, e sdentato, a causa del gusto per i sigari, l’arco boccale gli s’era incavato; portando un cappelluccio a falde corte, andamento incerto, l’avresti riconosciuto a distanza.

Conversatore mite e gioviale, tra i nuovi vicini di casa tutti chianaioli,  si distingueva per inflessioni umbro-tifernate. Era stato operaio in varie attività, in particolare agricole, presenti in Val di Pierle: vigne, oliveti, mais,…e, soprattutto, tabacco, coltura in pieno boom in quella zona. Acque irrigue copiose e terreni adatti crebbero (e seguitano a crescere) ottimo Kentucky, utilizzato nei migliori sigari toscani.

Okkey gran parte della vita combatté, perdendola, la battaglia  contro l’etilismo. Cosciente delle sue sregolatezze, tormentato da continue sbornie, più volte era stato sul punto di guarire, aiutato in mille modi da medici premurosi: gli somministrarono persino vino misto a cenere, nell’intento di procurargli un disgusto tale da indurlo a smetter di bere. Ma l’astinenza durava poco. Per un verso o per l’altro, ricadeva. Anche se non perse mai l’illusione di riuscire ad affrancarsi.

La sua ubriachezza non era molesta, come si vedeva anche nei nostri paraggi: persone amabili da sobrie, ubriache malferme sulle gambe – che un soffio di vento avrebbe steso a terra – minacciavano questo o quello  brandendo coltellacci, trincetti, roncole, qualsiasi oggetto fosse capitato loro alle mani. Okkey, no. Calmo, pur mentalmente bollito, arrancando per strada nel tipico zigzagare etilista, salutava chiunque incontrasse, e, volendo, era possibile intrattenersi con lui ascoltandone storie strampalate riesumate da vicende grottesche capitategli. Era il suo modo pacioso di ottenere facili captatio benevolentiae. Anche se brillo, nessuno si prendeva gioco di lui con malanimo, casomai, assecondandolo, ci si sarebbe lasciati trascinare con ilare bonomia nei suoi ragionamenti bislacchi. Nel rione di Camucia, recente esito d’uno sviluppo robusto, Okkey era protetto dall’indulgenza di tutti. Gli stessi ragazzini – che se liberi, d’acchito, non avrebbero portato rispetto verso i più deboli -, in quel contesto, erano stati educati a far finta di nulla, o limitarsi al saluto, per quanto fosse un sardonico: Okkeyyy!!!.. lasciandolo però in pace.  Quel rione era avvezzo alla mescolanza di persone, in gran parte tra loro estranee, ma inculcate nell’atavica cultura contadina tollerante verso le bizzarrie della vita; sfiga e disgrazie avrebbero potuto colpire ogni casa. C’era il detto: fosse stato possibile portare in piazza la “croce” familiare, per scambiarsela, ognuno sarebbe tornato a casa con la propria.

La passione compulsiva di bere, soprattutto vino, in molti anziani era alquanto comune – “il vino è la poccia [mammella] dei vecchi!”, si diceva. L’alcolismo precoce ha cause comuni alle tossicodipendenze: compagnie sbagliate,  provare lo sballo,  scordare delusioni, … pensando, poi, di smettere a piacimento. Evento che accade, ma in casi fortunati.  E, in certe circostanze, l’esibizionismo trasgressivo è usuale tra i giovani. Okkey ricordava la moda della “passatella”, accostata al gioco della morra e delle carte. Nei bar o nelle bettole, spesso, il gioco, oltre ai protagonisti, coinvolgeva pure gli spettatori: il perdente pagava un bicchiere di vino ai presenti.  La “passatella” era un giro di fiasco tra gli astanti, da cui ciascuno trangugiava un bicchier di vino. I giri di fiaschi finivano a notte fonda, quando i più avevano caricato la sbornia. Sottrarsi al rito del bere, al proprio turno, era un evento neppure da considerare: si giocava, o si faceva codazzo al gioco, allo scopo di trincare a sbafo bicchieri a iosa. Chi più chi meno reggeva l’alcol, tuttavia, iniziata la “passatella” era vergognoso uscire dal cerchio. Okkey mai s’era sottratto, al contrario, tendeva a intrufolarsi nel maggior numero di brigate di bumbazzieri.

Gli ultimi anni di Okkey, conteso tra il bere e velleitari tentativi di smettere, si conclusero tristemente, funestati dalla morte d’un nipotino finito in un pozzo aperto. Quando le sere d’estate il rione si riuniva a chiacchiere, Okkey in forma diveniva un’attrazione simpatica. Con cadenza umbra, rievocando fatti e personaggi dei luoghi d’origine, allegro e leggero trasportava l’uditorio in tempi e luoghi fantastici, così particolari da sembrare un altro mondo, sconosciuto a noi ragazzi che non avevamo mai valicato i colli tra Val d’Esse e Val di Pierle. Eppure del tutto simili agli stessi personaggi che avremmo incontrati al bar, dal barbiere, al mercato: il boss, il porcaio, il professore sputasentenze, il politico sfegatato, il donnaiolo fanfarone, il fungaiolo baciato dalla fortuna sfacciata, lo strullo del villaggio,…tutto il mondo è paese. Ma, da ragazzi, non essendone ancora del tutto coscienti, scambiavamo beatamente per avventure esotiche gli sgangherati racconti del buon bevitore.

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Incontri inattesi a Chiang Mai, nord Thailandia, meta turistica internazionale

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thai-1Sorpreso ormai non più di tanto, nel gruppo di persone con guida locale parlante inglese l’unica di tale lingua madre era britannica; due studenti giovanissimi erano messicani, cinque peruviani, nonno nonna figlia e nipoti parlanti spagnolo dai lineamenti estremo orientali, mescolati a noi italiani formavamo una comitiva, per la mia esperienza, insolita. Una ventina d’anni fa, in tour nel Nord Thailandia, eravamo due italiani e otto di lingua inglese, oceanici: neozelandesi e australiani. Che dall’Oceania giungessero in massa nella “giocheria” mondiale era risaputo. Tra costoro, anziani pensionati a consumare il loro tramonto, e giovani impegnati nel gran tour post laurea. Invece non  m’era capitato incontrare persone distanti trentotto ore di viaggio, come i ragazzini messicani nell’escursione classica da Chiang Mai al Triangolo d’oro. Prova del fascino attrattivo di quei luoghi, del clima, della qualità della vita,  per viaggiatori da tutto il mondo. Essendo combinate molte giornate festive a ridosso di Capodanno, prevedendo mescole linguistiche straordinarie, ci siamo limitati a partecipare a una sola escursione organizzata da operatori turistici. Mentre, per fatti nostri, ogni giorno con autisti diversi abbiamo vissuto gran parte delle mete confusi tra  la gente del posto, in festa. Più affollati: i templi e il giardino reale, Royal flora nel palazzo Bhubing. Il richiamo religioso di folle consentiva osservare, senza l’assillo delle guide, il contegno dei fedeli. Come nel panoramico tempio Doi Suthep, sopra Chiang Mai, a oltre mille cinquecento metri di altitudine, circondato da foreste. Luogo sacro, amalgama di religioni presenti nel sudest asiatico. Più venerate le statue del Buddha. Coperto da stole dorate, il Buddha  è vestito nella stagione anche qui considerata  invernale, pur nella calura per noi estiva. Seguivano nella venerazione statue di monaci scomparsi in odore di santità, e un olimpo di divinità e figure mitiche religiose buddiste, induiste, confuciane, descritte nel libro “Ka”, di Roberto Calasso. A scelta, il devoto si prostrava al suo idolo, offrendo bastoncini profumati accesi, serti floreali e foglie d’oro. Altri pregavano facendo suonare, una ad una, lunghe teorie di campane bronzee di media grandezza, o percuotendo tamburi e gong rituali. A quest’ultimi strumenti, più rumorosi, erano applicati riduttori di sonorità. Onde evitare che la devozione si trasformasse in schiamazzo. Di fatto,  nonostante la massiccia adesione, tutto scorreva in sommessi brusii. Da estranei ammiravamo quell’esito spettacolare: presenze composte, a basso impatto sonoro. Nello scorrimento lento e silenzioso i fedeli non sembravano disturbati dai turisti, ai quali era chiesto solo il rispetto della quiete e di togliersi le scarpe. Stessa pacifica calca umana, in processione intorno allo stupa o all’interno del tempio-pagoda, notavamo al Wat Phra That di Lampang Luang. Circondato da vecchie mura ben conservate che racchiudono anche un antico tempio ligneo. Fuori le mura sostano carrozzelle trainate da cavallini, oggetto di foto ricordo, e adibiti a non saprei quali gite. La località si presta anche ad ameni soggiorni, nella cittadina adiacente il fiume. Comune ai più noti e frequentati templi è il mercato attiguo con ampia tipologia commerciale: vestiario, cibo di strada, gadget di cui sono ingordi i turisti. Tipica, a Lampang Luang, è la produzione e vendita di ceramica fatta a mano, tra cui un galletto. Del quale non conosco il significato simbolico. Presente nelle rivendite di cocci e anche in empori all’aperto di arredi da giardino. Dove trionfano tempietti montati su colonnette cementizie. Animisti e superstiziosi, i thailandesi, nel cortile di casa di fronte all’albergo o al negozio, collocano un tempietto pagoda, su cui posano ogni giorno: acqua frutta fiori e bastoncini profumati. In modo da ingraziarsi gli spiriti del luogo, perché  se trascurati potrebbero vendicarsi procurando guai familiari o aziendali. Qui al Nord, nei cortili, al fianco dei tempietti sono frequenti galletti colorati manufatti. Il Wat Phra Kaeo Don Tao, a Lamphun, è altrettanto venerato, avendo ospitato per 32 anni il Buddha di smeraldo, oggi a Bangkok. La piccola città ha numerosi templi e un museo, attestanti un passato prestigioso attraversato da varie influenze, compresa la birmana. In antico, il Nord Thailandia aveva il suo regno, Lanna (distinto da quello del sud), soggetto a invasioni  di vari popoli, compresi i Khmer dal regno di Angkor. Lasciando tracce nei loro passaggi. Tracce in gran parte incluse con cura nei contesti artistici e architettonici oggi superstiti. Salvo il caso visto a Feng, parco naturale caratterizzato dai soffioni boraciferi. Ai margini d’una specie di autogrill, con annessi soffioni nelle cui acque i viaggiatori bagnano i piedi, cautamente, o vi lessano uova, c’è un bel tempio abbandonato di ispirazione Khmer. Circondato da sterpaglie, senza crepe apparenti sulla  massiccia struttura lapidea, sovrastata da imponenti pinnacoli a forma di pigna, nei quali è evidente la rappresentazione stilizzata del monte Meru, l’Olimpo Indù. In attesa, com’è accaduto in tempi simili ad Angkor, che volenterosi bonzi lo riaprano al culto. Quell’abbandono striderebbe con la cultura tollerante thailandese, terzo paese al mondo per alta percentuale di lettori (meglio non sapere dove è classificata l’Italia!). Laddove sono ben conservati e frequentati circa 300 templi a Chiang Mai, molti inclusi nell’affascinante reticolo di viuzze del centro storico. O, proseguendo verso il Triangolo d’Oro in provincia di Chiang Rai, sono presi d’assalto dai turisti e considerati dai thailandesi luoghi di culto pure edifici strambi costruiti di recente come il Tempio Bianco (Wat Rong Khun o White Temple all’inglese) e la Casa Nera (Baan Si Dum – Museo Bandum), a poca distanza tra loro. Il mistero dell’abbandono del tempio angkoriano di Feng prosegue anche sulle guide ufficiali e su Internet. Dov’è possibile cliccare i nomi riportati in questi appunti ottenendo informazioni di dettaglio soddisfacenti molte curiosità, eccettuato il vecchio tempio, vittima pure dell’obbrobrio edilizio dell’autogrill. Non che scandalizzi tale presenza commerciale. (Gran parte dei templi, infatti, sono assediati da negozi e costruzioni  orrende, i bonzi di tutte le religioni hanno il senso degli affari). Però mi domando il motivo della damnatio del vecchio tempio.

Alla partenza per Chiang Mai, m’ero proposto di tornare a far visita a Salvatore,  costruttore della pensione in cui risiedemmo una ventina di anni fa. Al Soi 5, graziosa stradina nel centro storico. Per ricevere consigli sull’escursioni da compiere. Come bellissima fu quella suggerita da Salvatore: nelle foreste di bambù al confine Birmano. Non lontane dagli accampamenti del generale Khun Sa, il “Re dell’Oppio”. Dove scivolammo in un tranquillo fiume sopra una zattera di bambù.  La guida, non so quanto fantasiosamente, disse che nelle foreste intorno v’erano nascosti Top Gun statunitensi, lanciatisi dagli aerei schiantati nelle foreste per farla finita con la guerra in Vietnam. Trascorremmo una notte in una capanna a osservare, nel buio totale, il passaggio della cometa di Halley, sotto un cielo stellato da cui pareva essere avvolti. Assistemmo a una danza tribale, con gente disposta a spirale dietro a due suonatori di strumenti primitivi, a corda e a fiato, a oltre duemila metri di altitudine. Nello spiazzo illuminato da lumi stentorei a olio, anziani  sorridenti invitavano a bere un distillato di frutta alcolico, forte e odoroso di fumo, fatto alla buona.  Spettacolo al quale seguì una pipata d’oppio dei giovani compagni di viaggio. A me fu proibito partecipare dal compagno d’avventura (anche se, una volta letta sulla guida l’esperienza paradisiaca che avremmo perso, più volte ci siamo riproposti di tornare su quei passi. Ma, si sa, ogni lasciata è persa!). La guida aveva assicurato che l’indomani non avremmo avuto il trip da oppio…però se il giorno seguente, circondato da quei fumati, non mi fossi messo all’opera a raddrizzare la zattera di bambù saremmo marciti per ore nelle acque del placido fiume. L’oppio per residenti e turisti, fu detto, rientrava nei patti tra le autorità e le popolazioni montane convertite al turismo e a coltivare  ficus benjamin al posto delle piantagioni di papavero. Completò il pacchetto, indicato da Salvatore, una passeggiata sul cestello in groppa a elefanti, che, svelti e sicuri, marciarono tranquilli sull’orlo di precipizi. Sui depliant turistici, ancor oggi, si offrono simili escursioni con varianti facoltative: il rafting su zattere di bambù o su gommoni, e fare il bagno agli elefanti. Stavolta, il nostro gruppo ha scartato questa escursione. Non rassicurati, come invece fummo allora, dal buon Salvatore. S’è persa traccia dell’ex assaggiatore siciliano di oli d’oliva, che scelse di finire i suoi anni al caldo. Di per se sarebbe stata una notizia malinconica, ma non in quel contesto in cui si crede alla circolarità della vita nelle reincarnazioni. Se deceduto, Salvatore potrebbe essersi già reincarnato in uno dei tanti marmocchi che la Thailandia ha la ventura di sfornare in quantità impensabili nelle nostre vecchie società postindustriali, prostrate e disgregate dal globalismo.

Turisti fai da te, ogni giorno abbiamo riempito la vacanza con splendide visite.

Chiang Mai e dintorni hanno mille attrazioni, ben organizzate e curiose.

Parchi tematici, come quelli dedicati al recupero di elefanti in difficoltà (di moda, al momento, era partecipare al bagnetto degli elefanti; dal gossip veniva la notizia della presenza dell’ex compagna di Briatore, la Gregoraci, intenta a quella faccenda). O il parco per il recupero delle tigri, meno disposte, immagino, a farsi fare il bidet. In altre parti delle foreste, sono ricostruiti villaggi etnici, con capanne, attrezzi e persone agghindate alla maniera di varie etnie. Per poche centinaia di bath è possibile incontrare le cosiddette “donne giraffa”. Poverette a cui, sin da piccole, venivano applicati al collo anelli che ne deformano il collo, allungandolo. Speriamo che l’attrazione turistica per un fenomeno antropologico del passato non incentivi  altre giovani donne a quell’assurda tortura. (Amo i popoli orientali, ma ne temo la tentazione cinica: combinare business ed esigenze occupazionali di giovani povere). Fantastica s’è rivelata la visita ai giardini floreali intorno alla residenza  reale, poco fuori città. Esperienza sensoriale ed estetica di rara bellezza. Da scatenare il desiderio di scattare fotografie anche al più tiepido visitatore. All’aperto, o in condizioni climatiche indotte, si squaderna alla vista un campionario di flora, non solo tropicale, estraniante, in quei momenti, da ogni altro pensiero se non il rapimento nella magnificenza della natura, in sinfonie compositive prossime a perfezioni assolute.  Di notevole importanza cognitiva risulta anche la visita allo zoo. Presenti migliaia di animali (circa settemila), compresi due panda concessi per dieci anni dalle autorità cinesi. Evidentemente, convinte dalla serietà di quella gestione. Inesperto di zoo, senza opinioni sull’opportunità di tenere in cattività degli animali, tuttavia la bravura degli organizzatori non è in discussione. In poche ore, il visitatore può osservare specie animali senza segni di stress in ambienti salubri e ben tenuti. I numerosi mammiferi sembrano occupati a osservare e farsi osservare in giochi di sguardi tranquilli. O riposano nelle tane. Alla stregua del cagnolino di casa Piero, o dei gatti, pur liberi, che sonnecchiano in angoli disparati domestici. Lo zoo offrirebbe anche spettacoli  serali, a cui non abbiamo partecipato. Preferendo serate al ristorante, o seguendo impulsi turistici in shopping demenziali. Non mancando mille tentazioni. Inclusi il Night Market, il Warorot Market e le numerose manifatture circostanti la città. Introdotti nei laboratori di sete, ombrelli di carta, lavorazioni in pelle, argenti e pietre preziose. Situazioni, facile immaginare ad usum turistico, che svelano procedimenti produttivi. Lo sforzo richiesto è non cadere a eccessive tentazioni di acquisto. Perché a Chiang Mai, tra le tante cose da vedere che richiamano curiosi da tutto il mondo, è necessario vaccinarsi contro il facile acquisto, nel mare di ninnoli e oggetti artigianali che assalgono il turista quali sirene irresistibili.

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Scolari ai tempi del maestro unico. Gioie e dolori… da tirate d’orecchie!

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Maestra LuiginaE’ difficile dimenticare gli insegnanti incontrati nei percorsi formativi, su tanti, i ricordi risultano sbiaditi. Gli unici indimenticabili sono i maestri elementari. Anche se mi era capitato di cambiarne uno all’anno; e averne avuti pure tre in un anno.

Fondamentale la spinta iniziale del maestro o maestra, per noi torzoloni di campagna che parlavamo in dialetto, e non avevamo visto libri, lapis, pennini e quaderni, prima d’indossare il grembiule e il fiocco sul colletto bianco. Per fortuna,  ebbi la maestra Luigina Crivelli. Graziosa, giovane,  affettuosa. Forse, anche lei alle prime armi. Quanto intenzionalmente non so, lei non mancava di evidenziare le qualità del mio compagno di banco, Leonardo, ripetente in prima classe. Bravo a scrivere, leggere, e mano felice in disegno. Proprio così, si bocciava anche in prima! Nel caso di Leonardo senza ragione, se non nella discriminazione verso figli di povera gente. Luigina era diversa. Nella pluriclasse (dalla prima alla terza), non lasciava indietro alcuno, anzi, valorizzava le capacità  di tutti. Anche dei duri di comprendonio. Che c’erano. Non era un problema di somaraggine. I ritardi di apprendimento (a qualsiasi causa imputabile), a quell’età, andavano trattati con dolcezza e tenacia, come faceva Luigina. Tutti bravi a curare piccoli fenomeni, i maestri veri erano coloro che “cavavano il sangue dai rapi”, si diceva allora. Gli insegnamenti, Luigina, li trasformava in gioco. Mettiamo, ad esempio, per incitarci a scrivere i primi pensierini, soggetto verbo complemento, prometteva un regalino: giornalini delle banche orientati al risparmio, anche se non capivi il testo, erano illustrati, salvadanai metallici sponsorizzati dalla banca, dolcetti, giochini,… bastava poco. Quei premi valevano più di mille: bravo!   A Natale, fece a tutti un bel regalo. Il mio fu una carrozza western colorata trainata da cavalli, in plastica! Chi avrebbe sperato in quel giocattolo?! A casa, i grandi ci aggeggiavano rocchetti di legno con elastici, a mo’ di ruote dentate semoventi, scrandole, che imitavano il gracidio delle rane, fionde, carretti di legno, pensa palle – tronchetti di sambuco svuotati del midollo, con un legnetto spinto all’interno, sputavano pallette di stoppa -…ma, giochini di plastica, pochi genitori se li permettevano.  E se qualche discolo importunava, come il mitico Gnerucci, schizzando l’inchiostro del calamaio sul colletto bianco d’una bambina, si chiamava la mamma giustiziera. La quale, seduta stante, a suon di scapaccioni eseguiva una sonora punizione! Questa era la tranquilla vita scolastica nelle pluriclassi di Pergo. Con l’esordio felice, guidato da Luigina, che, dopo il primo anno, ci lasciò per un’altra scuola. Ci aveva preparato pure per le “recite” a Cortona, al teatrino di via Guelfa. Piccolini, facevamo il verso ai sette nani, cantando una facile filastrocca, traversando il palco. Poca roba. Ma dagli imbranati, ch’eravamo, era il massimo ottenibile. Volle, pure, farci il test del quoziente d’intelligenza. A noi risultò un compito facile, mettendo croci e segni su un questionario. Da adulto seppi, dalla maestra stessa, di cosa si era trattato. All’epoca, era parso come un cruciverba.

Finchè la mia famiglia, durante la crisi mezzadrile del dopoguerra, s’inurbò in Camucia. Nel giorno di un’eclisse solare, caricate poche cose domestiche sul camion –  residuato bellico – del rosso malpelo Marino Vinerbi, traslocammo dalla casa colonica di Caldarino alla Bicheca. Centro storico della Camucia proletaria.  A seguire il babbo, da mezzadro a bracciante agricolo, e la mamma, domestica anche per altri, e sferruzzatrice di  golfi e cappelli di lana.

A metà anno, proseguire la terza elementare fu traumatico. Passare da una paciosa pluriclasse a una monoclasse, sezione maschile, con un maestro che dire severo è poco. In classe c’era uno dei suoi figli, insieme ad Alfredino Bianchi, figlio del farmacista, e Gaetano De Judicibus, figlio del medico condotto. L’ambizione del maestro era forgiare una classe d’eccellenza. Passai, in un sol giorno, dai problemini, dettatini, temini di Pergo, alle equivalenze, all’analisi logica e grammaticale, al calcolo delle superfici piane e dei solidi e, non ultimo, a imparare a memoria brani di canti danteschi. Dalle poesiole che, fino allora, avevo mandato a memoria. I metodi dolci di Luigina erano ricordi remoti. Il maestro ci teneva col pugno di ferro. Se sapevi, bene. Altrimenti volavano scapaccioni, nocchini, in ginocchio alla lavagna, banco degli asini, tirate d’orecchie… Punizioni corporali, che, interiormente, bruciavano ancor di più. Ma, poi, che tirate! A uno scolaro, persino,  cedette la parte molle dell’attaccatura d’un orecchio.

Me la cavai alla meno peggio, passando in quarta classe. Forse, favorito dal partecipare al doposcuola del maestro Piva. Aiutava a fare i compiti e poi, fuori, a passeggio o a giocare. Il volto umano di quel semestre scolastico. Dopo il  pranzo, ottimo, preparato da Pasquina – risotto al pomodoro, cacio olandese, carne o tonno in scatola -, guidata dal maestro Piva, si riuniva una pluriclasse raffazzonata e divertente. Figli di operai e artigiani (si diceva iscritti all’albo dei poveri), ripetenti o in corso normale non importava,  formavamo una miscela indimenticabile.  Amicizie perenni tra coetanei inquieti e discoli, tra cui ragazzi ripetenti vicini alla crescita della barba, tutti curiosi di scoprire esperienze, specie di birbanterie. Da fare, subire, o schivare. Però, a ottobre, chiesi e ottenni asilo in seminario. Abbandonai l’insegnante terribile. Volando, in un solo anno, dalla quarta alla quinta classe, tant’ero stato preparato in quel semestre di fuoco. Trovando don Domenico Ricci, maestro affabile e burlone. Era destino, direbbero i vecchi saggi, imbattersi alle elementari in maestri simpatici o antipatici. I maestri, oggi, si possono scegliere, potendo spostarsi con mezzi pubblici e privati da una scuola all’altra. Un tempo non era così. Oltretutto, il maestro elementare unico di allora è stato superato. Ma questo è un altro tema.

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