Ipotesi giallo-noir sulla scomparsa di Augusto Cauchi

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CauchiChi è stato Augusto Cauchi?

Nell’immediato secondo dopoguerra le asprezze della guerra civile tra fascisti e antifascisti non si erano composte nella condivisione dei valori della  Repubblica, ciò nonostante le giovami generazioni cortonesi vivevano in armonia frequentando le stesse scuole, sport, tempo libero. Pur non indenni dai sotterranei risentimenti vissuti dagli adulti. In Città, il confronto giovanile tra simpatizzanti fascisti e antifascisti si sviluppava come il tifo nel calcio: scazzi verbali, sfottò, dispetti,…goliardia. E finiva lì. Invece, fuori Cortona, il giovane Augusto si calava di giorno in giorno in sfide sempre più manesche e violente. Augusto, nel cerchio dei compagni di Liceo, era amico di tutti, pur considerato fanatico nel vestire fascistoide: camicie e maglioni neri, stivaloni e guanti come in parata, dobermann al guinzaglio. Una macchietta che non si stupiva di chi lo considerava tale, accettando pure il soprannome di Gozilla, per movenze scimmiesche dovute alla precoce intensa attività da body builder. Amico di tutti, e coccolato da coetanee adoranti quel macho sfrontato. Il padre di Augusto cercò di frenarne irruenza e scarsa propensione allo studio mettendolo, a quindici anni, nel Collegio Militare Nunziatella a Napoli. Da cui, il ragazzo, dopo un anno, riuscì a farsi espellere! Anche se rimase legato a certi valori del mondo militare, come la perizia nel maneggio di armi e negli scontri corpo a corpo, e  sempre più preso dal mondo del padre, nostalgico fascista e intimo di Vito Miceli capo dei servizi segreti. Qui il racconto sarebbe lungo, incontenibile in poche righe, avendola già descritta nel mio libro (Il Nero dell’oblio della violenza e della ragione di Stato) l’entrata di Cauchi nel vortice malmestoso e tragico che caratterizzò, dalla fine degli anni Sessanta in poi, alcuni decenni italiani. Clima golpista, estremismi di destra e sinistra sanguinari, intrusione dello Stato in dinamiche sovversive – leggi “strategia della tensione” – avvalendosi di rami dei servizi segreti o attraverso la massoneria di Gelli, capo della loggia P2, senza escludere retroscena oscuri orchestrati da potenze straniere operanti in Italia (CIA, Intelligence Inglese, Palestinese, Israeliana, Russa, ecc.), le quali, col pretesto dell’anticomunismo e della fedeltà all’alleanza atlantica (NATO), resero l’Italia tra i paesi più instabili e insanguinati del Mediterraneo. Peggio stava solo la Grecia dei colonnelli.

Sempre più calato sulla linea di confine pericolosa tra legalità e illegalità, Cauchi sembrava convinto delle sue scelte. Militante e attivista del MSI aretino, non si sottrasse a frequenti scazzottate con i rossi, da cui, non di rado, tornava malconcio in classe al liceo (lo vedemmo persino rinunciare, causa ammaccature, alla sua materia preferita: la ginnastica!). In certe circostanze le risse erano altri a provocarle, in altre andava a cercarle, come gli capitò nella sede della Provincia di Arezzo, dove subì massaggi dolorosi da parte di energici infermieri del manicomio schierati dai rossi. Si può dire che Augusto per le risse aveva l’effetto della carta moschicida, persino il giorno del suo primo esame a Firenze, a Scienze Politiche, giunse in aula con gli abiti in disordine, avendo, di fresco, affrontato una zuffa. Ma il peggio doveva ancora venire. Allorché nel gruppo di neofascisti aretini ci fu chi prese la strada della lotta politica violenta con l’uso di esplosivi. Tra Natale e Capodanno (1975),  esplosero alcune cariche dinamitarde lungo la ferrovia, da Terontola ad Arezzo. Senza vittime e pochi danni materiali. Ma, forse, fu quello l’abbocco per giovani inquieti atteso da chi dall’alto faceva politica alle loro spalle. Diventati utili per addossare loro colpe gigantesche, come la strage sul treno Italicus. La reazione omicida di Tuti, considerato tra gli ispiratori degli attentati, alla vista dei poliziotti venuti a perquisirgli casa, per Augusto Cauchi fu l’inizio d’una vita rocambolesca con la fuga in Francia, sotto copertura dei servizi segreti italiani, avendo promesso loro che di far trovare il fuggitivo Tuti. Alle promesse fatte al babbo dal generale Mino [compagno d’armi in Africa del giovane Loris Cauchi padre di Augusto, generale che, non molto tempo dopo, precipiterà in elicottero con lo stato maggiore dei carabinieri di cui era comandante generale. Tanto per dire i tempi che correvano…] , venuto a Camucia a tranquillizzare la famiglia: “Starà fuori poco, giusto il tempo per chiarirne l’estraneità al sodalizio con Tuti, poi tornerà a casa”, seguì, invece, un’interminabile latitanza. Numerosi tribunali aprirono nei confronti di Cauchi procedimenti gravi: dall’acquisto di armi per conto di Gelli, alla mancata strage sul treno a Vaiano, e una caterva di attentati dinamitardi. Il babbo spese oltre cento milioni di lire per difendere Augusto in sequele di processi. Nei quali fu assolto dall’accusa principale, ciononostante ebbe sedici anni di condanna per partecipazione a organizzazione terroristica, senza avergli trovato addosso armi. Se, com’era  da sospettare, Cauchi fosse stato in qualche modo legato ai servizi segreti dagli stessi era stato scaricato. Latitante, poggiò sulla solidarietà dell’Internazionale Nera, rivelatasi insidiosissima. Contigua ai servizi segreti di vari paesi (Spagna, Portogallo, Cile,…) accomunati dal fondamentale vincolo di subordine alla CIA. L’ultima fuga di Cauchi, infatti, fu il rocambolesco attraversamento delle Ande, a piedi e clandestino, in rotta dalla Brigata Informatica della DINA cilena. Fuga di cui non volle mai raccontarmi i dettagli, temendo ancora conseguenze a trenta anni di distanza!  Giunto in Argentina si dedicò a ciò che non avrebbe mai pensato di far prima: lavorare duramente per sopravvivere. Era finita l’epoca dell’avventura, del mercenarismo, della dedizione totale all’ideologia. Al nuovo stile di vita, di commercio al minuto, si adattò bene e con successo, costruendo famiglia e una piccola fortuna in soldi e proprietà di immobili remunerative. Però, ultimamente, non si era trattenuto dal riavvicinarsi al mondo dell’intelligence da cui si era volontariamente estromesso. Nel cerchio di amici fece entrare agenti (neofascisti) dei servizi segreti argentini, con cui pensava di godere in pace gli ultimi anni di vita. Invece, da quelle frequentazioni è esplosa l’ultima fatale infelicità: emarginato e minacciato di morte dagli stessi che aveva accolto in casa intorno a fumanti azados.

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Augusto Cauchi, “Primula Nera”, è uscito di scena [prima parte]

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CauchiNon disponendo di dati certi sul destino del cortonese Augusto Cauchi, residente a Buenos Aires, ho pensato all’uscita di scena, che ben si adatta a un certa sua teatralità nell’approccio alla vita. Dalla pubblicazione del mio libro – romanzo della sua vita, Il Nero dell’oblio della violenza e della ragione di Stato, ci siamo tenuti in contatto tramite e-mail, fino ai sui ultimi auguri di Buona Pasqua di un paio di anni fa. Da lì in poi non ho ricevuto più risposte, neppure all’ultima e-mail in cui gli notificavo la scomparsa del suo camerata Albertone, con cui aveva trascorso estati in gran sintonia, zubbando da ragazzi, al campeggio di Badiaccia. Silenzio sospetto, dopo che negli ultimi 10/15 anni aveva ottenuto ospitalità, nelle vacanze estive, presso amici cortonesi. Generoso da ragazzo, non più giovane si era riciclato in allegro ospite altrui. Possessore di una quindicina di immobili messi a profitto in Buenos Aires, ricambiava, a chi l’avesse voluto, l’ospitalità a casa sua.

Pur considerandosi “super sportivo”, aveva il vizio poco salutista di abbondare la sera in whisky e Coca Cola, abbandonandosi ai ricordi di un passato con cui, a ogni costo, desiderava fare i conti. Allo scopo, considerò fondamentali i suoi racconti che raccolsi nel libro da lui stesso sollecitato. Sul quale non evitai  approfondimenti e raffronti con quanto trovai scritto sui giornali e sul web a suo nome, anche episodi non lusinghieri della sua vita: come i rapporti con Licio Gelli, e possibili contatti avuti con servizi segreti italiani, spagnoli, portoghesi, cileni, argentini… che egli non smentì. Sul  libro, l’unico errore che mi rimproverò fu la didascalia a una foto: chiamavo lupo marino un leone marino!

Dal punto di vista storiografico, due coetanei aretini, Augusto Cauchi e Luciano  Franci, disposti a raccontare parte della loro vita calata nella stagione terroristica, delle stragi e degli attentati negli anni Settanta (Italicus e Vaiano su tutti), la considerai una grande opportunità. Vissuto vicino a personaggi coinvolti in prima persona nella “strategia della tensione”, avrei tentato di approfondire un periodo storico oscuro e malmestoso di cui, come molti, avevo nozioni superficiali. Oltretutto, in letteratura, pochi neofascisti si erano confidati apertamente, con poche eccezioni come quelle capitate a Nicola Rao, riversate nella “Trilogia della Celtica”. Tantoché il mio libro è stato inserito nella biblioteca della Fondazione dedicata alla Strage di Brescia; ed è citato da Sergio Flamigni, tra i maggiori esperti italiani di terrorismo, e dallo storico Massimiliano Griner. Precisazioni che dedico a chi volle sindacare, ritenendolo assurdo, sul comunista indagatore in storie di neofascisti.

Polemica a parte, se uno scontò sulla propria pelle l’avere tentato di ricostruire il proprio travagliato percorso politico, attraverso un libro, fu senz’altro Augusto Cauchi. Il quale, da anni in pensione, dichiarandosi analista (esperto di spionaggio) aveva postato su You Tube, firmandosi Primula Nera, sue tesi sul terrorismo, sulla fine di Aldo Moro, sulla strage alla stazione di Bologna… Teorie non so quanto azzeccate, di certo originali. Ma quel che, presumo, gli abbia fatto perdere sonno e tranquillità, come notai nell’ultimo incontro allorché si imbottiva di forti tranquillanti, è stata la sua presunta contiguità con i servizi segreti strani e nostrani.

Dopo la strage di poliziotti fatta da Tuti a Empoli (1975), Augusto, ricercato per sospetta vicinanza con quel soggetto, nel mio libro dichiarava di essere fuggito dall’Italia d’accordo con i carabinieri, avendo promesso loro di aiutarli in Francia a catturare Tuti. Però – insisteva a dire Augusto – era una bugia, un escamotage per allontanarsi dall’Italia, giusto il tempo in cui si sarebbe chiarita la sua estraneità al sodalizio con Tuti. Comunque, gli feci notare, sul web circolava il verbale dell’ufficiale fiorentino del SISDE Federico Mannucci, in risposta a un sollecito dei superiori, in cui giustificava la fuga di Cauchi per l’impegno preso da costui nel trovare il nascondiglio di Tuti. Due fatti gravi, messi nero su bianco, per un “camerata” quale si considerava Cauchi: sospetto confidente dei servizi segreti, e impegnato a scovare un camerata in fuga!

Di colpo, Cauchi si trovò allontanato dai camerati di Buenos Aires, contigui ai servizi segreti argentini, con i quali spesso si incontrava in allegri convivi a base di azados, fino ad essere minacciato pesantemente…la vita di Augusto in pericolo! Quanto mi confidò con mezze parole a denti stretti. E, come si sa, tra le cose più pregiudizievoli per la salute c’è subire l’ostracismo sociale.

Cauchi aveva superato un mare di guai: da clandestino fuggitivo, con condanne sulle spalle a vari anni di prigione in Italia. Nonostante tutto era riuscito a ricostruirsi una nuova vita, una famiglia, lavorando duro nel commercio aveva accumulato un discreto capitale immobiliare, e, finalmente, aveva chiuso pure i conti con la giustizia italiana. Riabilitato, tutto contento aveva pure votato al referendum, in Italia, per la ri-pubblicizzazione degli acquedotti.  Tornare in Italia, ogni estate, era in cima ai suoi desideri. Finché qualcosa del passato controverso gli si è presentato nella sua crudezza. Per lo meno questo è quanto, presumo, gli sia capitato. Una storia controversa, dura, vissuta dalla nostra generazione, non dipesa sola dai cattivi comportamenti di quei ragazzi che presero strade pericolose, mentre vi erano sottese gravi responsabilità di un sistema politico su cui ancor oggi siamo in attesa di capirne gli esatti contorni e i responsabili. Se mai sarà possibile giungerci.

[segue parte seconda e ultima]

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Cauchicover il nero _NERO

La “Tabula Cortonensis” e le peripezie dello scopritore Giovanni Ghiottini [ultima parte]

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tabula cortonensisLa Tabula Cortonensis alias Tavoletta Ghiottini, divenne presto celebre: oggetto di mostre, convegni, articoli su riviste e giornali. Vortice mediatico in cui lo scopritore, Giovanni Ghiottini, venne coinvolto solo in parte. Stampa e televisione lo  cercarono, ma, vedi il caso, in una circostanza l’intervista rilasciata non venne  pubblicata, e una trasmissione televisiva alla RAI, con poche scuse, all’ultimo momento saltò. Ghiottini era considerato presenza imbarazzante. Ma lui, tosto, allorché veniva a conoscenza di una qualsiasi iniziativa pubblica, in cui si fosse parlato della Tabula, interveniva in modo silenzioso e pacifico, non senza creare imbarazzi con le sue magliette di denuncia sull’ingiustizia patita: ancora non gli era stata riconosciuta dallo Stato la giusta mercede! Nonostante che, da scopritore, fosse stato assolto dall’accusa di sottrazione indebita. Si tirava per le lunghe a compensarlo, col pretesto del sospetto che non avrebbe detto la verità sulle circostanze del ritrovamento. Delle sue spettacolari magliette di denuncia ne parlava  pure la stampa, ma senza sortire effetti a lui favorevoli. Anzi, dopo l’irruzione in casa sua di quattro pattuglie di carabinieri, sul far del giorno, alla vana ricerca di altri reperti, ebbe chiara la sensazione di essere tenuto stabilmente sotto controllo da allora in poi, “invece di mettersi a fianco di delinquenti veri”, rimuginava Giovanni. Presenze inquietanti a cui fece l’abitudine, non senza qualche scambio di battute salaci, in certe circostanze, durante controlli polizieschi smaccatamente pretestuosi.

In quel clima ostile e complicato, in cui si era cacciato, non gli mancarono gesti di benevolenza. Come quello di padre Celso, abate di Monte Oliveto, che l’invitò al suo monastero insieme alla famiglia. La sorpresa fu non solo la cortese accoglienza, ma la proposta  dell’Abate: “Comunica alla stampa che tua figlia, di dodici anni, ha decrittato la Tabula Cortonensis. Basta farne una fotocopia e leggerla davanti a uno specchio!… Sarebbe un bello schiaffo morale!”. Padre Celso era autorevole, e, con  , la cosa avrebbe potuto funzionare, ma Giovanni non se la sentì di coinvolgere nella vicenda la  figlioletta. Perciò non ne fece nulla.

Finalmente, nel 2000, otto anni dopo il ritrovamento,  uscì un volume, a firma di Luciano Agostiniani e Francesco Nicosia, Tabula Cortonensis. Giovanni maledì se stesso d’averlo pagato ben 250 mila lire per vedervi scritto il suo telefono di casa, l’indirizzo, i verbali dei carabinieri, gli atti processuali… alla faccia della privacy! oltretutto uscito assolto. Anche questa onta avrebbe meritato una bella denuncia, ma Giovanni, già sprofondato nei pensieri più neri, intese soprassedere dal farla.

Ci volle il cambio di direzione alla Soprintendenza Archeologica, da Nicosia a Bottini, per giungere finalmente alla composizione dell’accordo con Ghiottini. Al quale si riconobbero 130.000 euro (nel 2005) per il ritrovamento, detraendogli il 25% dall’importo di competenza (180.000) per il dubbio, non sciolto, sul luogo del ritrovamento. In questa storia quel dubbio resterà tale. Anche se don Benito Chiarabolli (parroco di Camucia), su un periodico locale, affermò che il ritrovamento era avvenuto ai “vivai”, cioè in via Gramsci tra le proprietà  dei vivaisti Felici, nel cantiere della ditta Edilter, e non alle Piagge come sostenuto da Ghiottini. Il dubbio era aleggiato pure negli atti di giustizia. Allorché il pretore di Cortona, Mario Federici,  assolse Ghiottini  dall’essersi impossessato degli “oggetti etruschi in bronzo da lui rinvenuti fortuitamente: due piedistalli, un incensiere, quattro verghe, una palmetta decorativa e sette frammenti di tavola con iscrizioni” , ma, nelle motivazioni della sentenza, scrisse che: “Tutte le prove esperite nel corso dell’istruttoria portano soltanto a mettere in dubbio l’effettivo luogo di ritrovamento”. Alla fine, l’incertezza sulla verità di Ghiottini fece comodo a molti. Ai carabinieri, verosimilmente, che, pur conoscendo i fatti, non ebbero sufficienti imput per far chiarezza, dato il groviglio di competenze e personaggi pubblici e privati coinvolti.  Agli uffici del Comune (Sindaco e Architetto), competenti al rilascio delle licenze edilizie, che, pur essendo loro pervenuto l’invito della Soprintendenza Archeologica di indicare sulle licenze l’eventuale “rischio archeologico”, non avevano ottemperato. Anzi, si tentò di negare l’esistenza in atti di tale prescrizione. Così come, misteriosamente, si bagnarono le polveri alla potenza di fuoco della Soprintendenza Archeologica, il cui potere di andare a fondo sul ritrovamento si diluì a tal punto nel tempo, che, alla fine, si sarebbe potuto chiudere la stalla a buoi fuggiti! Nel frattempo la Tabula Cortonensis passava di mano in mano, e in un passaggio se ne perse persino una delle otto tessere, in origine presente (spiegare ogni passaggio sarebbe lungo, forse, lo faremo in un libro tanto è densa questa storia), fino ad arrivare, a fine anni Novanta, nelle mani esperte del prof. Luciano Agostiniani e Francesco Nicosia, i quali pubblicarono l’esito degli studi, nel volume sopra citato. Gli oggetti, ma soprattutto la tavoletta, più attentamente studiata, parlava: non solo sugli usi e costumi commerciali e legali al tempo degli etruschi, ma  diceva  anche di provenire da un posto umido (non le Piagge), all’interno o in adiacenza di un immobile etrusco prestigioso, probabilmente, un grande tempio (di cui, ahimè, si son perse le tracce per sempre!)… Concludendo, auspichiamo che quella sia stata l’ultima smarronata generale accaduta nel cortonese, e che i nuovi preposti alla pianificazione e destinazioni d’uso del territorio siano più attenti e lungimiranti di coloro che li hanno preceduti, ai quali non può non andare che il nostro biasimo totale.

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Il cambio della guida a Cortona costringe tutti i partiti a riflettere e impegnarsi

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cortonaL’esito, in controtendenza nazionale, del Referendum del 4 dicembre 2016, segnando il sessanta per cento a favore del SI, faceva pensare all’esistenza a Cortona di un granitico elettorato “conformista” allineato alle indicazioni del PD. Mentre nel Paese vincevano i NO di un fronte largo: esteso dai residui comunisti ai nostalgici fascisti. Meno “conformisti” erano stati, invece, i risultati delle successive elezioni politiche, dalle quali usciva un PD intorno al 30%, mentre saliva, inaspettatamente, a primaria grandezza la Lega, spostando decisamente l’asse politico a destra, in precedenza, tradizionalmente, orientato a sinistra.  Assegnando, sulla carta, un ruolo determinante al M5S, che, com’era prevedibile, non lo è stato, date le strane regole di non formare coalizioni a livello locale, mentre a Roma avevano già cestinato la linea stringendo l’alleanza con la Lega, mascherandola da “contratto”, ma sempre alleanza rimane.

L’approccio alle elezioni amministrative del maggio 2019 è stato per ogni parte politica travagliato. Per primo il PD, che ha fatto capire alla Sindaca che era al suo termine, scommettendo su Bernardini sul quale, tuttavia, pesava di aver fatto parte della Giunta Basanieri. Niente primarie, né di partito né di coalizione. Ma quale coalizione? Coi comunisti il PD da quel dì aveva rotto, anzi, ultimamente aveva rotto anche con SEL e i transfughi di LEU, cacciando dalla Giunta l’unico loro esponente. Di fronte al pericolo di non farcela da solo, il PD ha in qualche modo portato comunisti e ed ex-comunisti a rinunciare a proprie liste, nella speranza di raccoglierne i voti in quanto unici difensori del “Comune di sinistra da oltre settanta anni”; mentre con LEU c’è stato l’accordo di non presentare il loro simbolo (almeno due simboli in meno dei resti della sinistra!) bensì presentarsi in forma di lista civica.

Non meno travagliato è risultato il compito della destra nel formare una coalizione intorno a Meoni. Da un lato erano speranzosi di avere finalmente una chance di vittoria, stando ai numeri delle elezioni politiche, dall’altro però molti si ponevano l’interrogativo: perché dovremmo  rinunciare (come partito o come persona) alla candidatura a sindaco a favore di Meoni che non ha neppure un partito? A sciogliere il nodo ha giocato l’esperienza di Meoni, nel muoversi tempestivamente  costruendo una vasta coalizione di centrodestra, lasciando fuori solo l’estrema destra.

Il compito del M5S è stato più facile nella scelta del candidato sindaco, dovendo  limitarsi al confronto  tra i propri attivisti.

Lo scenario prevedibile si è verificato: il candidato del PD andava al ballottaggio con poche centinaia di voti di vantaggio su Meoni.

Un caffè preso alla vigilia del ballottaggio con un vecchio attivista del PD, mi ha convinto di essere alla vigilia della svolta elettorale. Vera rivoluzione o rivolta elettorale. Quell’attivista,  turbato, mi pose un quesito: “Secondo te, come mai tutti ce l’hanno col ‘Vecchio Sindaco’ e col ‘Babbo’”? come gli era capitato di sentire nella stretta elettorale finale, andando casa per casa a sollecitare il voto per il candidato PD. Sorpreso, non più di tanto, ho glissato sulla risposta. La rivolta del popolo, a cui assisteva, aveva personalizzato, semplificando, le cause del malcontento su un sistema di potere di cui i due erano stati la punta d’iceberg. Altri dirigenti dello stesso partito e di partiti cespugli del PD insieme a figure apicali dell’apparato comunale hanno ridotto a zero, da oltre un trentennio, la necessaria dialettica politico amministrativa tra tutte le forze in campo, di maggioranza e opposizione. Gli affari del Comune ridotti a gestione privata dal “cerchio magico cortonese”. Incurante di critiche e suggerimenti che non rispondessero alle loro logiche: obiettivi personali, carriere politiche e impiegatizie, scelte amministrative,  tutto soggetto al loro placet. (Nel Corriere della Sera del 14 luglio, ecco ciò che ha detto ai suoi del PD Zingaretti, quel che in molti abbiamo sostenuto da illo die: “Troppo spesso questo partito è un arcipelago in cui si esercita il potere. C’è un regime correntizio che appesantisce tutto. Ci sono realtà territoriali feudalizzate, che si collocano con un leader o con un altro a prescindere dalle idee”).

Non che segnali di insofferenza e critica aperta a quel sistema di potere non fossero emersi, anche clamorosi, come accadde dieci anni fa con la nascita di una lista Civica, politicamente trasversale,  che portò ben 2 consiglieri in Consiglio comunale. Tra i motivi della nascita della lista Civica fu la defenestrazione del sindaco PD, da parte di un altro smanioso pretendente PD, senza concedergli la controprova delle primarie. L’apparente facile vittoria spinse il “cerchio magico”  a seguitare con gli stessi metodi di asfaltare chiunque l’avesse criticato. Con rinnovata arroganza.

Un po’ di storia. Dal 1995 il PCI non esiste più nelle liste  elettorali cortonesi. Ad esso sono seguite nuove sigle che, pure divise tra loro, ottenevano nell’insieme positivi risultati elettorali. Grazie al richiamo al “voto utile a sinistra” (quale sinistra democratica rappresenterebbe un sistema di potere personalistico ‘feudalizzato’, qualcuno può spiegarlo?), il cui Partito maggiore (pur cambiando spesso nome) offriva garanzia di successo e sviluppo di tante piccole e grandi ambizioni di carriera, purché con l’assenso dei capi bastone del cerchio magico. Alle logiche del PCI, che nelle occasioni amministrative cercava di aderire al meglio alle esigenze del Comune, cioè della gente, dal ’90, a Cortona, sono subentrate logiche di  gruppi ristretti, d’un cerchio povero di cultura di governo quanto arrogante e affarista. Gli elettori non sono stupidi, ci mettono tempo, ma alla fine afferrano il problema.  L’augurio è che, giunti al fondo, nel centrosinistra, nel suo insieme e nelle singole componenti, si faccia un bell’esame di coscienza, e si inizi a dare spazio alle energie migliori senza tutoraggi, soprattutto tornando in mezzo al popolo a parlare dei problemi da risolvere.

Compito impegnativo attende anche Meoni, a cui non mancherebbe l’esperienza per non copiare le cattive pratiche, sulle cui denunce ha creato la sua credibilità. Svincolandosi da logiche di partito, far crescere intorno a sé nuovi quadri amministrativi, coscienti della storia e della identità forte di Cortona, che si è creata nel tempo, seguendo il filo delle migliori pratiche amministrative, su cui innestare nuovi progetti di solidarietà civica e benessere economico. Perseguendo l’interesse generale della popolazione. È l’augurio di tutti. È, comunque, una vicenda i cui sviluppi avremo modo di vedere e valutare.

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La “Tabula Cortonensis” e le peripezie dello scopritore, Giovanni Ghiottini

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tabula cortonensisGiovanni Ghiottini (Indiana Jones per caso) carpentiere di Castiglion Fiorentino, di quelli che san far tutto nel cantiere edile, avviato al mestiere nella impresa cortonese Cateni,  mai avrebbe pensato di trovarsi al centro dell’attenzione mediatica nazionale e internazionale per un singolare ritrovamento, lavorando nel seminterrato d’una villetta alle Piagge di Cortona. Neppure avrebbe desiderato subire un processo per appropriazione indebita di oggetti archeologici, com’ebbe, né districarsi in una estenuante battaglia legale con organi statali, Ministero e Soprintendenza ai Beni archeologici – egli che misconosceva, persino, l’esistenza dei musei archeologici – al fine di ottenere la ricompensa spettantegli per legge.

Scavando in un seminterrato, per ricavare una rampa di scale, si trovò a raccogliere, uno di seguito all’altro: due candelabri, un grosso vaso, e sette lamelle bronzee dai bordi irregolari; spezzate grossolanamente, piegando, più volte, la tabella su sé stessa. Il proprietario aveva inteso disfarsi del documento, come oggi si farebbe stracciando un foglio di carta. Alla lamina scritta, di forma rettangolare, mancava solo la tessera finale, dove, forse, si sarebbe trovato data e firma del proprietario.  Ma non fu la ricomposizione della tavoletta – emersa, dall’abbandono, alla storia come “Tabula Cortonensis” -, invece, la prima preoccupazione di Giovanni fu avvertire del ritrovamento l’architetto Brogi e il padrone di casa Rosi per ricevere consigli sul da farsi. Consegna tutto alla Soprintendenza, gli fu detto. Cosa che fece in breve tempo. (Alzi la mano chi si sarebbe precipitato alla Soprintendenza  non senza, prima, aver curiosato sui reperti, interpellando esperti o sedicenti tali?). Era il 1992. Da allora, per un quindicennio, la vita di Giovanni cambiò vertiginosamente.

La prima disavventura seguì subito la consegna del materiale: denuncia penale e processo per sottrazione di materiale archeologico! Assistito da uno studio legale, assegnatogli d’ufficio, gli costò una fraccata di soldi: trenta milioni di lire! Nel frattempo, la stampa lo indicava, chissà perché, come “carpentiere calabrese”. Esito finale: assolto (nel 1995), perché “il fatto non sussiste”! Di quale reato, infatti, si sarebbe macchiato Giovanni nell’avere atteso alcuni giorni dal ritrovamento alla consegna alle autorità? Tanto più che accertamenti successivi, in sito, diedero esito negativo. Non si trovarono altre antichità sotto quel terreno. Al dire dei vicini, negli anni Sessanta,  nel posto era stato scaricato  materiale da scavi provenienti da altra zona cortonese. Ciò spiegava la vicinanza tra loro dei reperti: verosimilmente, mescolati a materiale nel cassone d’un camion. Bene. La prima domanda, di buon senso, da porsi sarebbe stata: fu indagata la provenienza del materiale di riporto? A Giovanni non risultarono indagini fatte in tal senso. Intanto, lui, fu costretto, in tutta fretta, ad aggiornarsi sull’archeologia e sulle competenze di questo o quell’Ufficio pubblico, per non finire come un topo in trappola. Ancor oggi, suonerebbe strano che sia stato l’unico, a Cortona, tartassato dalla giustizia per appropriazione indebita di materiale archeologico. Quando vox populi parlava di veri e propri traffici di reperti, negli anni dell’esplosione edilizia in Camucia. Dagli anni Sessanta in poi. Oltretutto, Giovanni aveva consegnato tutti i reperti, come risultò dalle perquisizioni, domiciliari e in auto, eseguite dai carabinieri. Perciò, quali motivi avrebbe mosso l’autorità a metterlo in scacco? Uno. Fondamentale. Non riconoscergli l’indennizzo, se messo fuorilegge.

Essendogli costato un botto di soldi ripulirsi dall’infamia di ladro, si domandò come avrebbe potuto avanzare la costosa procedura di richiesta d’indennizzo.

Frattanto, la storia della tavoletta bronzea era ascesa a interesse internazionale per la peculiarità: pochi reperti al mondo contengono testi etruschi di lunghezza pari alla Tabula Cortonensis. Che, giustamente, il bravo storico locale Santino Gallorini ribattezzò Tavoletta Ghiottini, in onore dello scopritore. Fosse stato un intellettuale, forse, l’avrebbero assecondato, ma si trattava d’un umile carpentiere. Al quale venne in aiuto lo studio Niccolai (interessato al guadagno, ma solo se ottenuto il buon fine), senza fargli cacciare soldi anticipati, sostenendolo nell’incerta battaglia legale per ottenere dallo Stato quanto dovuto. La causa, lunghissima, si concluse nel 2005. Dopo aver interpellato più Ministri (mai una risposta), un Presidente del Consiglio, Berlusconi, (risposta d’ufficio) e, finanche, il Presidente della Repubblica, Ciampi, (risposta, ancora, d’ufficio), ed essere intervenuto a manifestazioni, presenti autorità legate ai Beni Archeologici, in silenziosa protesta con  scritte beffarde sulle magliette indossate da Ghiottini. In un’occasione ne sfoggiò 5 o 6 con diciture tipo: “Chi riconsegna reperti archeologici (una croce funerea seguiva il testo), chi non li riconsegna ha (seguiva la foto d’una fiammante Ferrari)”. Era chiaro, l’ostacolo principale alla conclusione favorevole della vertenza risultava essere il decisore finale: il Sovrintendente archeologico toscano, Francesco Nicosia. Il quale riuscì pure a infiocchettare sulla stampa il racconto del “carpentiere calabrese” che avrebbe consegnato alle autorità la Tavoletta bronzea per nascondere ritrovamenti ben più importanti, nel tentativo di sviare la Soprintendenza. Inganno in cui, Nicosia, dichiarava, sprezzantemente, che non ci sarebbe cascato.

Un giorno, Giovanni fu chiamato a Firenze da Nicosia. Si trattò del primo  incontro tra i due, nonostante il lungo tempo trascorso dallo scangeo mediatico e dai fatti giudiziari accaduti. Nell’incontro, il Soprintendente – lui sì calabrese verace – chiese bruscamente a Giovanni: “Devi dirmi: dove hai trovato veramente quei reperti?” Domanda che gliela avrebbe dovuta porre da quel dì… Non è semplice riassumere, in poche battute, l’incazzatura di Giovanni e il finale burrascoso del colloquio, tanto che, l’archeologo per caso, scendendo precipitosamente le scale, ebbe timore d’un attentato alla propria incolumità!  [fine prima parte]

tabula cortonensis

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Ricciotti Valdarnini, primo sindaco comunista eletto a Cortona (1946), espulso dal Partito che aveva creato

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Valdarnini 2Ricciotti Valdarnini nacque ad Arezzo (1896), ma negli anni Venti, dopo scontri coi fascisti, si stabilì a Camucia con la moglie Maria Borri. Risoluto negli ideali, nel 1933 fu imprigionato “per aver svolto, insieme a Bistarelli Santi e Rachini Cesare, attività comunista creando in Camucia un aggregato di individui della stessa idea dei quali egli era il capo”. “Ammonito”, schedato, e vigilato dalla polizia, nel 1938 fu arrestato di nuovo alla vigilia del viaggio di Hitler in Italia, insieme a Sem Faralli e Antonio Marcelli, perché “persone da arrestare in determinate circostanze”.

Produttore di mattonelle di cemento, visse dignitosamente senza padroni. Nella passione politica, associò letture impegnative e direzione clandestina d’una ridotta ma efficiente struttura di partito. Autodidatta, raggiunse un buon livello di preparazione. Al passaggio del fronte di guerra, stampò un libretto: “ La Democrazia progressiva”. Conforme alla svolta di Salerno (1944), imposta da Togliatti al PCI, che prevedeva: l’accordo coi monarchici e gli altri partiti antifascisti (democristiani, socialisti, liberali, azionisti), e la rinuncia alla conquista del potere per via “rivoluzionaria”,  battendosi per il “progresso” in regime democratico. Valdarnini, per quattr’anni, fu il primo sindaco di Cortona eletto a suffragio universale (1946). Preceduto nella carica, dopo la Liberazione, da nominati dal Governatore inglese quale autorità occupante: Alessandro Ferretti, Camillo Buorbon di Petrella e Nibbi. Anni convulsi, la società piagata dalla guerra, il territorio, carente di sbocchi occupazionali, prevalentemente agricolo. Valdarnini sindaco s’ingegnò a combattere la “miseria nera” procurando lavoro ai tanti disoccupati presso grandi aziende agricole, e a riassettare disastrati servizi e infrastrutture vitali: scuole, fogne, strade, acquedotti,…(sua la Relazione consuntiva dei 4 anni, in Biblioteca).  A lungo, rimase la sua firma in piazza Sergardi a Camucia: una grande stella rossa centrale. Politico e amministratore, tentò la carriera parlamentare, candidandosi al Senato. Qui vennero al pettine i nodi dei conflitti con l’apparato burocratico della federazione aretina del PCI. In lizza con il concorrente Gervasi, da Foiano, buon pedigree politico e miglior sintonia con la federazione del partito, Valdarnini non fu eletto. Pur essendo Cortona tre volte più popolosa di Foiano, ma, nelle preferenze provinciali, i conti favorirono Gervasi. Nel frattempo, all’espansione organizzativa e dei consensi elettorali, i dirigenti aretini inviarono a Cortona, da altre piazze, funzionari politici professionisti più obbedienti. Natale Bracci al sindacato, da Terranova Bracciolini, e Luigi Agostini al partito, dal Casentino (anche se incarichi politici e sindacali erano scambiabili o sovrapponibili). Valdarnini rimase svincolato dall’apparato di partito, avendo preferito mantenere il mestiere di piastrellista. Leader indiscusso nella ricostruzione, e colonna portante in clandestinità: capo di attivisti sparsi nel vasto Comune che da lui si rifornivano di materiale propagandistico, notizie, e direttive dal “centro”. Fu pure collettore di materiale destinato ai partigiani alla macchia. Coadiuvato da attivisti, come Umberto Berni (Fagiolo), ricordato, incosciente e spavaldo, viaggiare in paese con un fucilaccio a tracolla! Compagni folkloristici ma efficienti, quanto la burocrazia stalinista del PCI. Contro cui Valdarnini ingaggiò uno scontro “autonomista”: in loco, le questioni dovevano essere risolte dai cortonesi non dall’apparato federale; finché fu processato ed espulso dal PCI accusato di “titoismo”. Da Tito, leader in conflitto con l’URSS fino alla scomparsa di Stalin (1953). In realtà, riferimento di Valdarnini e del suo seguito non era Tito ma Trotsky, teorico della “rivoluzione permanente”. Contrario al ruolo dell’URSS guida mondiale del socialismo, pur rispettandone le “conquiste”, contrario all’invadenza burocratica del partito sullo Stato, contrario al culto del capo Stalin, che aveva soffocato nel sangue il dissenso, inviando gli oppositori in carcere, nei lager, o soppressi, con o senza processi sommari.  Quello stalinizzato non era il partito atteso da Valdarnini, Ciro e Alfiero Cenderoni, Dino Baldi, Gino Rinaldi (Spallone), Fulvio Castellani (Punzino), Ettore Crivelli, e dai giovani Luciano Salvadori e Gino Schippa. Di Trotsky, ucciso con una piccozza in testa (1940), alcuni eredi ne seguirono le orme nella IV Internazionale. Alla quale aderirono i trotzkisti cortonesi, ospitando più volte il leader Livio Maitan, riunendosi le domeniche pomeriggio a leggere e discutere di politica, anziché seguire “Tutto il calcio minuto per minuto”, come faceva gran parte dei coetanei. Girava varia stampa comunista: “L’Unità” “Rinascita” “Il Pioniere”, “Bandiera rossa” bollettino della IV internazionale, “Il Programma comunista” e “Battaglia comunista” bollettini bordighisti. Alcuni del gruppo presero la via dell’“entrismo”, teorizzato da Trotsky stesso: siccome siamo pochi, entriamo con  le nostre idee in altri partiti e sindacati vicini al proletariato. Valdarnini era noto per sue definizioni lapidarie: “I bordighisti sono bravi ma duri…” e “Tante cose in Russia non tornano…” Così come ricorrevano accuse (dal PCI) contro lui e i seguaci: “I comunisti di Ricciotti dicono che in Russia non c’è più il comunismo!” o anche: “A loro non sta bene niente!” I compagni di Valdarnini – fino alla morte della moglie Maria (1965), da cui ne uscì prostrato – lo considerarono un caposcuola. Formatore che trasmetteva passione, di quelle che possono catturare per la vita intera. Una volta espulso, molti militanti del PCI lo isolarono, pochi gli tributarono, ancora, rispetto e riconoscenza, avendo egli sacrificato i migliori anni della vita a tesser trame antiregime in clandestinità. Senza di che non sarebbe sorto il PCI, forza travolgente e primo partito cortonese nell’ immediato dopoguerra. Ma cotanto merito non servì a impedirgli l’espulsione! Morì a 79 anni. La salma fu esposta nella Sala consiliare comunale, quale ex sindaco. E – col senno di poi – anche per meriti politici: essendo stato tra i più generosi liberi pensatori del suo tempo, filantropo ribelle a ogni sorta di autoritarismo prevaricante.

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Valdarnini 1Scheda segnaletica della polizia politica, dal libro: Il PCI cortonese -1921-1946 di Ivo Camerini e Giustino Gabrielli

I motivi del crollo politico della “sinistra” a Cortona vengono da lontano

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cortonaInnanzi tutto sfatiamo un mito: è la sinistra a governare Cortona o non già una lobbie di persone che da un quarantennio comandano scambiandosi ruoli tra loro?

Prima di rispondere, parliamo un po’ di politica generale. Dal 1990 non esiste più il PCI, che dal dopoguerra aveva avuto la maggioranza, per un periodo anche assoluta, in Consiglio comunale.  Uno dei motivi di tanto successo, anche in momenti di calo dei voti al PCI  (basta ricordare, nel 1985, il PCI nazionale calava mentre a  Cortona raggiunse l’apice della maggioranza assoluta) era dovuto al fatto che,  pur essendo la Giunta un monocolore comunista, avresti trovato in Giunta e in Consiglio comunale numerosi “indipendenti”, persone che non solo non avevano la tessera del partito ma avevano tutt’altre idee politiche. Perché era piena coscienza che la quantità di voti raccolta (tantissimi) non significava che le risorse umane e culturali interne al partito coprissero altrettanta capacità di dare le opportune risposte alla società in forte trasformazione, da agricola e artigianale in post industriale, dei servizi, del turismo,… Insomma bisognava (almeno) tentar di pescare nella società civile le competenze necessarie. Gli esiti non è che fossero sempre pari alle aspettative, ma, intanto, ci si  provava, guadagnando all’amministrazione persone che mai avrebbero pensato di fare il consigliere o l’assessore, men che meno insieme ai comunisti. E se qualcuno della squadra zoppicava, poco male, il resto gli veniva in soccorso. Non starò qui a giudicare se fu fatto tutto bene o se si poteva far meglio, essendo personalmente coinvolto a vario titolo fino alla fine degli anni 80. (Solo a mo’ di rimando storico ricordo qualcosa di ciò che si fece: la metanizzazione, le prime aree artigianali e commerciali, la piscina, il depuratore, l’avvio del centro convegni s. Agostino, i primi interventi sul Museo, molta edilizia popolare, compreso nel Centro storico, il ponte sull’Esse a Camucia, la palestra a Camucia,…per ora, basta così). Oltre al contributo degli “indipendenti” e il lavoro di squadra, avevamo avuto una eredità amministrativa ben strutturata dai predecessori,  una macchina comunale efficiente, e una contingenza finanziaria molto favorevole nell’accedere al credito. E noi la usammo, recuperando alla grande il gap che ci distanziava da città importanti come Arezzo.

Nel 1989, per la nota ragione del dissolvimento del PCI, le strade dei dirigenti e della base di quel gruppo si frantumarono pian piano, creandosi al vertice come alla base spaccature e incomprensioni, in molti casi mai risolti. Furono sciolte pure le Circoscrizioni che, come palestra politica per tutti i partiti, non erano male. Da lì si pescavano i futuri assessori e consiglieri comunali di ogni partito. Mentre negli altri partiti c’erano le “correnti”, nel PCI emersero alla fine, all’atto dello scioglimento, sotto forma di “mozioni”, trasformatesi poi in partiti. Il PDS e Rifondazione comunista (che, a sua volta, partorì i Comunisti Italiani) tutto sommato, pur divisi, quei partiti non persero i consensi precedenti dello scomparso PCI. A quel passaggio storico farei risalire molti “vizi” futuri della sinistra. Cambiare nome, ogni tanto, portava bene al partito, pur mantenendo gli stessi dirigenti. (Ricordo a proposito la battuta del prof. Karl Huber: PDS significa Partito degli Stessi! Lì per lì mi rose, ma aveva ragione!). Cioè a politiche nuove – al centro e in periferia – restavano al mestolo sempre i soliti con qualche cooptazione in più. Insomma, pur riuscendo nel nuovo millennio a distruggere – inesorabilmente – l’identità di “sinistra” dei soggetti politici sopravvissuti (un gran casino di nomi da ricordare, alcuni effimeri come le lucciole, dai programmi illeggibili, assurdi, che la gente votava sulla “fiducia” senza averci capito una mazza) in tantissimi della mia generazione di ultra sessantenni ci sono arrivati fino alla pensione, vivendo solo di politica! Evviva. Poi non ci si meravigli, come ultimamente sta succedendo, che la gente si sia rotta le scatole di quel teatrino (a destra e a sinistra è stato lo stesso) ed abbia votato in massa prima 5 Stelle e oggi Lega. Per disperazione!

Torniamo alle vicende del Comune. Seguendo lo stesso processo, dal Centro alla periferia,  a cosa abbiamo assistito? Crollato il PCI sono avanzate seconde e terze file con la fredda determinazione non solo di scalare tutti i livelli degli incarichi (normale ambizione) da consigliere comunale a sindaco a presidente Usl o Provincia, consigliere regionale, deputato,…ma con un’aggravante territoriale: costruendo un cerchio di comando con un nocciolo duro di alleati – cambiandosi i ruoli e cooptando nel cerchio magico solo persone affidabili e controllabili  – essere riusciti per 40 anni (e forse anche più!) a detenere a Cortona il potere! Come faccio a sostenerlo? non sarebbe neanche necessario farlo, perché in giro sono tanti coloro che han capito l’esistenza dei burattinai, pochi ma potenti. Mi limiterò a dare un indizio. Avete presente la lista Cortona Civica? Bene. Ci sono tante persone perbene e in buona fede, che mi auguro daranno il loro contributo al futuro amministrativo, visto che alla presentazione della lista sono intervenuti a sostegno ben tre ex sindaci. Ma, tra tutti costoro, chi ha raccolto un botto di preferenze? Un giovane, una persona impegnata nella società civile distintasi per meriti? No, è stato un “dinosauro” della politica locale che ha ricoperto, e potrebbe ancora ricoprire, incarichi istituzionali o in società partecipate, sempre collegate alla politica.

Quindi, qual è il mio augurio? Che il candidato sindaco del PD, Bernardini, chieda alla vecchia nomenclatura di ritirarsi e lasciarlo far da sé, con facce nuove non attaccate al filo dei burattinai occulti. Magari dando, prima del voto, segnali  in tal senso. Perché gli farebbe bene rimarcare anche platealmente questo scarto? C’è stato buon governo prima di lui? Certo. Quando si è trattato di gestire attività, ad esempio il turismo, dove il pilota doveva  solo tenere la barra dritta è stato facile. Le basi di tanto successo ricorrono al dopoguerra, persino alla vecchia Azienda di Soggiorno del commendator Favilli, bravo promotore. Ma sulla sanità ad esempio, cari miei, che fallimento! Avevamo un’eccellenza alla Fratta: l’ortopedia. Che fine ha fatto? Gli operatori se ne sono andati in una clinica privata perché l’azienda USL non avrebbe consentito loro di avere a disposizione quanto gli serviva. Cioè ne è stata “impedita” l’operatività, che invece nel privato è consentita loro, e, per fortuna dei pazienti, pagata dalla stessa USL!!! Sorvoliamo poi sul livello di sicurezza, in caso di ricovero d’urgenza alla Fratta, perché, da persona assennata, non voglio alimentare un discredito che danneggerebbe ciò che già è precario.

Formulata in modo diverso, farei una richiesta anche al suo contendente di centrodestra Meoni, (che, a modo suo, si è battuto negli anni a migliorare l’attività amministrativa del Comune) nella stessa logica della trasparenza: presenti la sua squadra di amministratori. Contentarsi dell’uomo solo al comando a molti piacerà, ma non a tutti.

Due parole, infine, all’improvvido candidato sindaco 5Stelle Donzelli: che i suoi elettori siano liberi di votare il sindaco che vorranno è lapalissiano. Ma che egli lo abbia “certificato” in un comunicato stampa prima della riunione del meet up, nel quale – per ipotesi – avrebbero potuto decidere diversamente, mi sembra un esordio infelice come “portavoce”. Designando – temo – il suo ruolo futuro all’insignificanza politica. Senza aver dietro un gruppo coinvolto  in ogni scelta non si può andar lontano.  Vista l’esigua differenza di voti tra i due candidati, un attimo di riflessione comune prima dell’uscita sulla stampa – penso – sarebbe stato meglio. Non sarebbe stato un pregio grillino votare su ogni decisione importante?

fabilli1952@gmail.com

SPREAD, ovvero arma di ricatto di massa (corsivo di Petruska)

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SPREADAnche a ridosso (prima e dopo) delle elezioni europee del 26 maggio si sta verificando il tentativo di ricostruire quel “clima”  da “spread” del 2011 che sfociò nel “golpe bianco” con l’incarico al neo-senatore a vita Mario Monti – nominato in 48 ore dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Un Senatore a vita si nomina per “meriti”,  ma, come riportò il settimanale Panorama del 19/03/2013, il professor Monti non ne aveva alcuno, né accademici né altri degni dello scranno senatoriale. (A meno che non contino – tra i “meriti – l’essere sato nei board delle banche d’affari!)

Il 99% dei media e delle forze politiche d’opposizione (cioè della reazione contro ogni “cambiamento” dello status quo) gridano che lo spread è aumentato per colpa del governo giallo-verde: un Governo che fa gravare alti costi sulle spalle degli italiani, un Governo incapace e dannoso (può darsi ). Sottointendendo: quant’era bravo il Governo Monti che salvò l’Italia, insieme alla Ministra Fornero, come si andava bene  col Governo PD-FI! col rigore, l’austerità, l’obbedienza ai parametri europei. Nonostante che il senatore Monti –  non molto tempo fa – abbia dichiarato che l’austerità serve innanzitutto a togliere sovranità agli Stati.   

In sostanza: lo spread è una balla colossale, una falsificazione immensa perché:  non ci saranno aste di titoli dello Stato prima di tre mesi! dunque oggi, lo spread  a 290 – 300 punti, fosse effettivo (considerando la volatilità) riguarderebbe quote minime di debito trattate nel cosiddetto mercato secondario. Non dimentichiamo che il debito pubblico italiano aumentò di quasi il 100% per gentile concessione del prof. Prodi al collega tedesco Kholl, come lo stesso irridente  Prodi ha ammesso.

 

Lo spread è il differenziale di tasso di rendimento, ossia gli interessi da versare ai gruppi finanziari privati, dei titoli italici in vendita rispetto al tasso di interesse dei titoli tedeschi. Perché referenti sono i titoli tedeschi e non di altri paesi? Perché l’economia tedesca è centrale e inossidabile? No.  Fu deciso a suo tempo, in prima fila dagli USA, per controllare la finanza della Germania e della nascente Unione Europea. (Gli USA considerano ancora l’Europa la perdente della guerra, non l’alleato, subalterna ai suoi diktat economici. Basta ricordare le “sanzioni”che gli USA fanno a destra e a manca, costringendo gli Stati Europei ad allinearsi, fottendo loro quote di mercato ricche, come quella Cinese, Russa, o Iraniana).

I media e i politici raccontano che sono i “ mercati” che decidono il differenziale di spread, è tutto falso: il differenziale  viene deciso dalle centrali del grande capitale finanziario straniero “globalista” e liberista.

Si vuole controllare, intimorire l’elettorato per evitare il “salto nel buio”.

Il vero salto nel buio è stato togliere agli Stati e alla Comunità Europea (al potere politico) il potere sul denaro da prestare agli Stati, avendone dato il potere eventuale alla Banca Europea (BCE, privatizzata!) di emettere Bond-europei; che, però, ad oggi non ha emesso, lasciando gli Stati alla mercè della finanza privata.

Petruska

Euro: una questione di classe

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europa I cittadini che andranno a votare per il rinnovo del Parlamento europeo devono sapere che la scelta non è se uscire o riformare l’UE, per il semplice fatto che la UE è strutturata in maniera tale da non essere riformabile né in senso democratico-progressivo-sociale e nemmeno nella direzione di una Stato Federale.

Basti pensare che poter riformare i trattati europei è necessaria  l’unanimità di tutti i 28  Stati membri dell’UE. Ora non bisogna essere particolarmente dotati per capire che ciò non accadrà facilmente. La ragione è che le condizioni economiche-sociali sono estremamente eterogenee e differenti tra gli Stati.

Gli interessi degli italiani non sono gli stessi  dei tedeschi, e non perché la Germania è particolarmente cattiva, ma perché non sussistono le condizioni giuridiche, economiche per una reale riforma dell’UE in uno Stato democratico sovranazionale.

La democrazia si fonda in una comunità e una comunità si contraddistingue per storia, cultura, lingua in cui i membri della comunità si sentono sufficientemente uniti per accettare di impegnarsi in prassi solidaristiche e politiche redistributive tra le classi e/o regioni.

 Senza demos (comunità) non può esistere democrazia sociale/solidaristica e il demos europeo semplicemente non esiste: tra i membri dell’UE abbiamo prassi sociali, storia, cultura, lingua differenti. È falsa l’idea che oggi stiamo assistendo al declino degli Stati nazionale. È l’esatto contrario.

 Quindi non si tratta di riformare l’UE o uscire dall’UE. Si tratta di scegliere se rimanere nell’UE così com’è, o uscire dal sistema dell’euro e recuperare autonomia economica, politica e democrazia.

Come disse il sociologo, prof. Luciano Gambino poco prima di morire: “Nessuna realistica modifica dell’euro sarà possibile, è la camicia di forza per impedire ogni politica sociale e progressista”.

“Tertium non datur”

Pertanto la domanda che ognuno di noi dovrebbe farsi, non è se sia nell’interesse dell’Italia restare o non restare nell’euro, ma se sia nell’interesse del lavoratore precario, del disoccupato, di quello che arriva a fatica a fine mese, della classe lavoratrice, e di chiunque sia interessato al rilancio di investimenti, produzione e occupazione.

 L’euro non ha fatto del male a tutti gli italiani. Anzi, c’è chi ci ha fortemente guadagnato.

Quindi quando andiamo a votare la prima domanda da porsi: “A quale classe sociale appartengo?” E cercare di capire tra i partiti in lizza “qual’è il più vicino?”.

 

Petruska

 

 

Nina Sokolova, la sommozzatrice che tenne aperta “la via della vita” nella Leningrado assediata (corsivo di Petruska)

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NINA SOKOLOVANove maggio 1945, l’armata sovietica  “accettò” la resa incondizionata della  Germania nazista. La seconda guerra mondiale non ha paragoni storici  per quantità di distruzioni e numero di morti: 50 milioni di cui 29 milioni sovietici.

 In un documento della CIA, di qualche anno fa, ancora non ci si spiegava come l’URSS avesse potuto reggere l’urto d’una armata di  9 milioni di soldati sotto il comando tedesco.  Vuol dire che contro il piano Barbarossa, nome in codice dell’invasori, fu combattuto da un popolo intero: uomini, donne, vecchi, giovani. Ciascuno mise le sue competenze per salvare la  Patria e l’Europa dal nazi-fascismo.

Un ruolo fondamentale, che determinò l’esito del conflitto, lo svolsero le donne  in  tutta l’URSS.  L’elenco  dei ruoli  svolti dalle donne in Russia durante il secondo conflitto mondiale riempirebbe pagine su pagine.Un ruolo di primo piano l’ebbe una ragazza, Nina Sokolova, la prima donna sommozzatrice.

 Fu lei a suggerire la costruzione di un oleodotto sul fondo del lago Ladoga, attraverso cui la città di Leningrado, assediata da truppe tedesche e finniche,  avrebbe ricevuto il prezioso combustibile durante il blocco durato dal 8/9/1941 al 27/01/1944. (Oltre trenta mesi di assedio durante i quale la gente moriva di fame come mosche, ridotta a cibarsi persino di cinture di cuoio lessate se non di peggio!). Pur immergendosi ogni giorno prendeva 300 grammi di pane al dì. Decine di migliaia furono i feriti e i morti causati dalla pioggia di bombe e dai colpi di cannone quotidiani.  Un martellamento infernale.

Durante l’assedio, il gruppo Sokolova recuperò 4000 sacchi di grano, mandati nella città affamata.

L’idea geniale  di Nina Sokolova fornì carburante alla città, aiutando a difendere Leningrado e salvare migliaia di cittadini. Oltre 45000 tonnellate di carburante furono trasportate attraverso il l’oleodotto sommerso.

Dopo la fine dell’assedio di Leningrado, Nina Vasilievna ricevette il grado di colonnello-ingegnere,  avendo trascorse centinaia di ore sott’acqua. Dopo guerra, Sokolova si dedicò all’insegnamento.

Tutti noi  dovremmo recuperare il concetto di appartenenza così come lo cantava  Giorgio Gaber.

Petruska