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Il volume “Carteggio (1930-37) Alfonso Leonetti-Lev Trotsky – Alle origini del Trotskismo italiano e internazionale”, arricchisce il patrimonio della Biblioteca di Cortona. di Segio Angori
La Biblioteca del Comune e dell’Accademia Etrusca di Cortona, insieme ad altre preziose raccolte di documenti di storia contemporanea, conserva il cosiddetto “Fondo Leonetti” costituito dal carteggio intercorso tra Alfanso Leonetti e Lev Trotskij nell’arco temporale cha va dal 1930 al 1937, oltre che da un consistente numero di libri appartenuti a questa singolare figura di “marxista rivoluzionario internazionalista”. Il “fondo” in questione è pervenuto alla Biblioteca ai primi degli anni Ottanta, per un atto di donazione da parte dello stesso Leonetti. Figlio di un umile sarto pugliese, già nell’infanzia ebbe modo di essere testimone delle tribolazioni del mondo contadino e bracciantile meridionale, per poi incontrare quelle non meno pesanti vissute dagli operai di Torino, città in cui strinse rapporti di amicizia e di conoscenza con rivoluzionari di diverso orientamento, come Gramsci e Gobetti.
Quelle esperienze incisero fortemente sulla sua formazione e lo indussero ad impegnarsi politicamente; giornalista e pubblicista, fu tra i fondatori del PCI e direttore de L’Unità, fino a quando nel 1930 venne espulso dal Partito per le sue simpatie trotskiste. Antifascista, fu costretto a riparare in Francia dove, inviso anche agli ex compagni di partito, visse da clandestino anni di grandi ristrettezze economiche. Reintegrato nel PCI nel 1962, previa autocritica, non riuscì mai a vedere completamente risarcite le ferite prodotte dalle dispute che si erano accese più volte in seno ai gruppi dirigenti del Partito, dalle accuse di tradimento degli ideali rivoluzionari che le diverse fazioni e i singoli “rivoluzionari” hanno continuato a lungo a scambiarsi, dai sospetti che in certi momenti aveva dovuto subire.
Uomo di spicco nella storia del PCI, conobbe Cortona tramite l’amicizia con Umberto Morra, di cui fu ripetutamente ospite nella villa di Metelliano. Gli incontri tra i due, nel secondo dopoguerra, fornirono l’occasione per condividere il ricordo delle esperienze giovanili torinesi, per confermare la fedeltà di ciascuno di loro ai rispettivi ideali, per esprimere comuni simpatie verso liberi pensatori ma anche per confrontarsi sulle vicende della rivoluzione comunista e sul travaglio della sua evoluzione storica. Fu lo stesso Leonetti, agli inizi degli anni Ottanta, a volere – su sollecitazione di Ferruccio Fabilli, all’epoca Sindaco di Cortona, e di Giustino Gabrielli, capogruppo del PCI in Consiglio comunale – che Cortona custodisse gli scambi epistolari, sopra citati, che danno conto dei suoi rapporti con Trotskij e fu ancora Leonetti a condividere l’idea di affidare tale compito ad un istituto di cultura di solide tradizioni, come la Biblioteca pubblica della nostra Città.
Ciò detto è di tutta evidenza che il carteggio in questione costituisce una preziosa fonte di conoscenza dei fatti relativi ad un periodo cruciale della storia più recente: la corrispondenza intercorsa tra due dei più importanti esponenti della storia del comunismo (Lev Trotski, protagonista di primissimo piano della rivoluzione russa fino al momento della sua espulsione dal partito perché in contrasto con le idee e i metodi staliniani e Alfonso Leonetti, tra i fondatori del PCI, sostenitore di una prospettiva internazionalista, anch’egli espulso per aver espresso idee differenti rispetto a quelle gradite a Mosca ) offre l’opportunità di attingere ad informazioni inedite, a considerazioni, giudizi, confessioni, divergenze, denunce di manovre ed intrighi, sfoghi intimi, e via dicendo, di diretti protagonisti di quelle vicende, in sostanza a “fonti soggettive di primo grado”, assai più ricche e significative degli atti ufficiali cui si affida comunemente la storiografia nell’analizzare e studiare i fatti del passato. E questo non potrà che contribuire ad una più puntuale e veritiera ricostruzione delle vicende del troskismo italiano e internazionale.
Il merito della pubblicazione del carteggio in questione è di Ferruccio Fabilli che, come si è detto, influì non poco nella decisione di Leonetti di donare tale materiale alla Biblioteca di Cortona. Materiale “fragile” (brogliacci scritti a mano, fotocopie, certe in alcuni punti illeggibili o deteriorate), quello su cui si è lavorato, che in molti casi ha richiesto la traduzione dal francese (lingua comune ai rivoluzionari di diversi Paesi) e di questo si sono fatte carico Mirella Malucelli Antonielli e Valeria Checconi, la quale, dando una veste definitiva, ha riordinato e ad arricchito di note esplicative un testo che inevitabilmente risulta complesso, se non altro, per i nomi in codice e i sottintesi che caratterizzano la corrispondenza tra persone che temono costantemente di veder intercettati i propri scritti. Ne è venuto fuori un ponderoso volume di oltre 650 pagine, con prefazione di Giorgio Sacchetti, pubblicato da Edizioni Intermedia. Il testo offre uno spaccato della relazione epistolare intercorsa tra due “rivoluzionari di professione”, che si danno reciprocamente del “lei”, attenti a condividere la stessa terminologia politica e a chiarirne le varianti, che aspettano con trepidazione l’uno la lettera dell’altro per avere un parere, un giudizio, un assenso sulle idee e le iniziative da portare avanti.
La pubblicazione, in sintesi, ci sembra che abbia un doppio merito: consente, per un verso, a quanti coltivano interessi di carattere storico di avvicinarsi alla mole enorme di informazioni contenute negli scambi epistolari “di due profeti disarmati e perdenti che – come annota Fabilli – non riuscirono a realizzare granché di ciò che s’erano prefissati” ma che furono punto di riferimento per chi, in anni cruciali della storia europea, non si riconosceva nello stalinismo e, dall’altro, offre l’opportunità di valorizzare un aspetto del patrimonio documentario della Biblioteca che, oltre ad essere conservato con cura, esige anche di essere opportunamente fatto conoscere. Questo è stato ed è il suo compito fin da quando essa è nata, tre secoli fa, in seno all’Accademia Etrusca: essere un luogo di incontro tra la grande Storia e quella locale, due “storie” (o, se si vuole, due modi di guardare la “storia”) che si intrecciano sempre, assai più di quanto possa apparire a prima vista, entrambe da custodire gelosamente.
Sergio Angori
Giuseppe Cavallucci, impegnato onestamente nella vita sociale della Valdesse
Giuseppe Cavallucci, conosciuto come “Beppe della Mirella” per il forte legame della coppia ben assortita, fu personaggio reso popolare dall’impegno civico in Valdesse. Nel Partito (PCI, fino al PD), in Circoscrizione (di cui fu Presidente), e nella Società di Calcio a Pergo. Metodico e tenace, sempre disposto a rimboccarsi le maniche, anche in momenti critici in cui serviva uno deciso a tener la barra dritta.
Nei ricordi giovanili dell’amico comune Fernando Ciufini, colpiva l’aspetto di Beppe, ambrato dal sole, energico, zucca pelata, faccia squadrata, denti radi davanti, fidanzato con Mirella, riservata e fascinosa. Lui segretario della sezione comunista, e lei democristiana, molto religiosa.
Beppe, come tanti giovanotti degli anni Sessanta, ambendo a lasciare lavori pesanti e mal pagati – prima contadino e poi carpentiere -, frequentò scuole serali quel tanto che gli bastò per “entrare in ferrovia”. Oltre ad esser meno gravoso, quell’impiego gli lasciava abbastanza tempo per curare interessi personali e civici.
Presenza utile in ambiti in cui si decidevano iniziative a favore della collettività. Di poche parole, davanti a un problema era tra i primi a trovare la soluzione. Allo stesso modo, risolse il problema familiare della casa. A colpi di piccone, mazza, e martello, abbatté un seccatoio del tabacco in disuso – lungo la via provinciale per Mercatale, presso il Passaggio –, e, al suo posto, costruì, aiutato dal fratello Angiolino, una bella casa in bozze e pietra. Insomma, non passava il tempo girandosi i pollici. Anzi, finito quel cantiere, smessi gli abiti da ferroviere, si trasformava in allevatore di fagiani da ripopolamento. Senza esser cacciatore. Doppio lavoro essenziale per meglio favorire gli studi ai figli: un maschio e una femmina.
D’altronde, anche Mirella si prestava a integrare il reddito familiare, da brava cuoca, preparando pranzi su commissione. O anche a gratis, in ossequio a impeti spontanei di solidarietà: Nando ricorda, in occasione di morti in famiglia, la coppia, Beppe e Mirella, portare cibo da loro confezionato alla famiglia in lutto.
Morigerato e riservato, non beveva alcolici, non fumava, e non usciva la sera al bar, tuttavia Beppe interveniva, caricandosi di responsabilità e lavoro, nella sezione di Partito, in Circoscrizione – di cui fu consigliere e presidente -, e nella Società di Calcio, specie quando altri non se la sentivano di impegnarsi. Infatti, non era l’ambizione a spingerlo, ma la marcata attitudine sociale. Traduzione dell’atavico senso solidale che aveva caratterizzato secoli di storia contadina. Al bisogno, il vicinato dava una mano in caso di difficoltà, o anche, semplicemente, prestandosi a scambi di opere gratuite, circolando tra i contadini poca o nulla moneta. Tanta sollecitudine e presenza sul territorio ne fecero il referente naturale per tanti, alle prese con piccoli o più seri problemi. Fiduciosi che, da Beppe, avrebbero avuto comunque un qualche “aiuto”, o un consiglio.
Un momento lo turbò in modo particolare: la scissione del PCI. Beppe seguì la maggioranza nelle successive mille evoluzioni di quel partito. Non tanto loquace, teneva per sé il processo logico che l’avrebbe portato a scegliere. C’è da credere che, al fondo, scegliesse la corrente maggioritaria per restare in ballo, offrendo le sue energie e la sua presenza, che il tempo avrebbe dimostrato essere utile non tanto quale testimonianza politica, quanto, invece, fruttuosa al prosieguo di azioni positive nell’accrescere il benessere collettivo, del pur ristretto ambito locale.
Sempre a fianco di Mirella, anche in omaggio alla sua pressante religiosità, festeggiarono solennemente un anniversario di matrimonio nella chiesa del Bagno, a mo’ di rinnovo dell’originaria promessa.
Finchè non lo colse una malattia grave, invalidante. E c’è chi lo ricorda ancora deciso a non rassegnarsi all’invalidità. Riprendendo a camminare col girello, come da bambini, sforzandosi di recuperare i ritmi vitali giusti: nel movimento, nel sonno, nella conversazione… non era stato un chiacchierone, ma l’interlocutore era colpito, nelle sue difficoltà, dalle poche parole proferite: sagge, convinte, di grande umanità.
Molto può insegnare il suo ricordo, di uomo semplice, d’animo generoso. Con rammarico, non ci resta che considerare non tanto la rarità di tali persone, quanto il venir meno delle condizioni favorevoli a nuove fioriture di simili individui gentili e altruisti. Oggi l’istruzione non è un problema per chi voglia studiare, anche senza frequentare scuole serali. Come non mancano associazioni culturali, sportive, politiche, dove dare il proprio contributo di idee ed azione. È carente, però, – mi pare – quel sostrato ideale che dia la spinta allo sviluppo d’una socialità, individuale e collettiva, filantropa e serena, non aggressiva verso chi la pensi diversamente. Mancando, oltretutto, i sostituti dell’università politica popolare d’un tempo: i partiti. È di questi giorni la notizia del noto scrittore giallista anglosassone che ha abbandonato Facebook – piazza virtuale universale per antonomasia -, perché funestato da false notizie, odi e rancori, e cattiva educazione. Senza tacere il discredito gravante su certo attivismo politico che, quando non è farsesco, in recite false e tendenziose, nasconde impegni interessati a tornaconti economici, sfociando sino al peculato: tra i mali odierni il più diffuso e occulto, che dalla politica s’irradia alla società, e viceversa. Tali deformazioni son sempre esistite? Non lo escludiamo. Ma, oggi, l’assalto al potere, senza etica personale, è più sfacciato, incontrollabile, e diffuso.
Dunque, teniamoci buoni e onoriamo Beppe Cavallucci e i suoi simili.
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San Pietroburgo, notti bianche e ponti levatoi, culla europea d’arte politica e letteratura
Ancora incerti i futuri scenari turistici, voleremo nei ricordi d’un viaggio adatto a questo periodo, che feci con mia figlia Brunella, a San Pietroburgo, a giugno. Mese delle notti bianche, protagoniste nell’eccelsa narrativa di Dostoevskij.
Pietro il Grande zar di Russia (dagli undici fusi orari) costruì dal nulla una capitale degna dell’impero sterminato, dirigendo i lavori dalla Casetta di Pietro il Grande, nel cuore della Città futura. Cambierà nome più volte. Pietroburgo, in origine. Leningrado, bolscevica. Post comunista, rinominata San Pietroburgo, in omaggio al fondatore e a uno dei Santi, Pietro e Paolo, titolari della Cattedrale nella Cittadella fortificata. Suggestiva enclave densa di memorie zariste, sorta in area paludosa, infatti un leprotto è simbolo della Città, essendovi stato cacciato in gran quantità.
Alloggiando nel centrale viale Bolshoi, avevamo più alternative tra itinerari a piedi e in Metro, col vantaggio di quasi ventiquattro ore di luce, nelle notti bianche. Giorni in cui l’immensa Piazza del Palazzo d’Inverno, sede del Museo Ermitage, stracolma di gente si trasforma in macchina per spettacoli notturni: come quello del Vascello dalle vele rosse spiegate attraversare il fiume Neva; omaggio agli studenti neo diplomati. Dopo cena, vedevamo il campionato di calcio europeo (2016). Finite le partite, scendevamo per una birra e far due passi, essendo ancora giorno, era meraviglioso!
La Neva, nel gettarsi in mare, forma un reticolo fluviale. Noi eravamo vicini alla Cittadella fortificata Pietro e Paolo, in una delle isole collegate da ponti, certi spettacolari levatoi, consentono traffici urbani e fluviali. Eleganza, dovizia monumentale e architettonica in grande scala, sono i caratteri della Città. Al cui disegno urbanistico e architettonico – della Venezia o Rotterdam del Nord – partecipò il talento italiano Bartolomeo Rastrelli, nell’incantevole stile tardo barocco dai tenui colori pastello, firmando la Cattedrale della Resurrezione, l’Hermitage Pavillon e il Palazzo di Caterina, il Palazzo d’Inverno, il Palazzo Stroganov, il Convento Smolny. Altro italiano naturalizzato russo, Carlo Rossi lasciò tracce notevoli su piazze palazzi teatri in stile neoclassico; egli è sepolto nel Cimitero Tichvin presso il Monastero di Aleksandr Nevskij, necropoli dei Maestri dell’arte e della cultura. Tra costoro: Dostoevskij, Cajkovskij, Borodin, Rubinstejn, Stravinskij,…Puskin, vissuto a Pietroburgo, giace fuori nella tomba di famiglia. Scrittore amato, perseguitato dallo zar, esiliato per filo populismo contrario alla servitù della gleba, pur di famiglia possidente. I populisti, precursori dei rivoluzionari, compirono attentati mortali contro gli zar, come quello su Alessandro II, ricordato dal sangue sul pavimento nella chiesa del Salvatore sul Sangue Versato; dalle cupole a cipolla multicolori (stile neo bizantino). Altrettanto grandiosa la cattedrale di Sant’Isacco, neoclassica, cupola alta oltre 100 metri (su gigantesche colonne di granito rosso) da cui si gode un panorama unico. La Città, in appena 300 anni di vita, ha una storia intensa e cruciale per la Russia e l’Europa. Le collezioni museali dell’Ermitage, tra le più vaste al mondo; da qui partì la Rivoluzione bolscevica, condizionando 70 anni di storia nazionale e mondiale; nella seconda guerra mondiale, la Città subì il più feroce assedio delle truppe tedesche a cui resistette 900 giorni, perdendo per fame e per armi oltre 600mila abitanti, su poco più di 2 milioni. Oggi, supera i 5milioni. Senza dubbio, il Centro Storico “zarista” è di gran lunga più affascinante, anche se non escluderei una capatina alla stazione Metro Moskovskaya, per l’architettura del regime comunista: la Casa dei Soviet; la gigantesca statua di Lenin; e il Monumento agli Eroici Difensori di Leningrado. Il quartiere offre poi una sorpresa: l’imperdibile Chiesa di Chesma (1780), dedicata da Caterina la Grande alla vittoria sulla Baia di Chesma (1770). Perché così periferica rispetto al Centro Storico? In quel luogo la Zarina ebbe la lieta notizia, durante una battuta di caccia!
Ampi volumi architettonici e distanze enormi, in scala col ruolo di capitale d’un impero sconfinato. Ciò non scoraggi passeggiate, aiutati dalla Metro. Purché non facciate come noi due, che, visitata la fortezza Pietro e Paolo, volendo vedere la corazzata Aurora (da cui fu sparata la cannonata dell’assalto del Palazzo d’Inverno), camminammo a vuoto una mattinata… Aurora era in restauro! Meglio informarsi sulle “aperture”. Memorabile l’escursione da Piazza dell’Ermitage alla Chiesa del Salvatore, a Palazzo Singer (il produttore delle macchine da cucire) stile liberty, sede d’una fornita libreria; infine, imboccammo l’immenso viale Prospettiva Nevskij, finendo al Monastero Nevskij e al Cimitero Tichvin. Area frequentata da turisti e fedeli; dove si affittano fazzoletti copricapo per signore per entrare nella chiesa ortodossa. La guida, Maria Lomaeva, risultò preziosa per non perdersi nell’immenso Museo Ermitage, portandoci diritti alle collezioni preferite. Perdemmo la pittura francese otto novecentesca per una manifestazione commerciale in atto – per campare i musei s’ingegnano. Mancammo pure la Camera d’Ambra, nel Palazzo di Caterina, non avendo prenotato a tempo, la meta è molto ambita. La stanza istoriata in ambra, depredata nella seconda guerra mondiale, è stata ricostruita integralmente.
Avevo visitato Mosca post comunista, bella e interessante per conoscere la millenaria storia Russa, che, nel Novecento, riprese il ruolo di Capitale, ma San Pietroburgo ti rimane dentro: i suoi colori e la luce incredibile non ti abbandoneranno mai più, e ti strega la sua storia che rivisiti a ogni passo. Gli elementi culturali ed estetici sono sintesi mirabili d’un’Europa dal grande passato: nelle arti, nelle lettere, nella musica, in politica,… promettendo un futuro altrettanto radioso, anche solo conservando il bello che ha già, permettendoci di goderlo. Sebbene chi ha nozioni profonde su San Pietroburgo stimi che la sua vitalità presente sia all’altezza del passato. Di certo, è un lato diverso e straordinario della Russia e dell’Europa.
fabilli1952@gmail.com
Lungo i canali granitici della Venezia del Nord
Teatro
Palazzo della Marina
Scorcio dell ERMITAGE , con Maria Lomaeva (guida) e Brunella Fabilli
Arte rinascimentale italiana (Ermitage)
Notti Bianche (alle tre di notte circa)
Tomba di Dostoviesky
Palazzo Singer
Chiesa del Salvatore del Sangue Versato
Altro angolo visuale
Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo nella Cittadella
E’ urgente eleborare un progetto di riuso Dell’Antico Ospedale di Cortona
Svenduto in fretta e furia dalla precedente Amministrazione Provinciale, quando denunciammo il fatto ci fu persino una reazione risentita del Presidente, oggi, per la grande inaspettata fortuna che gli acquirenti si sono fatti da parte, è urgente che i nuovi amministratori Comunali Provinciali e Regionali mettano mano a un nuovo progetto pubblico sull’Antico Ospedale di Cortona. Non c’è dubbio che si tratta d’un impegno con la “I” maiuscola per dimensioni e prestigio dell’immobile. Com’è altrettanto certo che il momento sia quello giusto per sviluppare un serio progetto di recupero e destinazione dell’immobile. Patrimonio storico, affettivo, di inestimabile valore per Cortona, dal passato centenario, tuttavia indispensabile per il futuro quale elemento di sviluppo centrale nel cuore della Città. Per quanto la mia opzione su di esso sia l’uso pubblico, e nella sua interezza, potrebbero essere valutate anche proposte di privati, purché siano di comprovata capacità economica e realizzativa, e il progetto soddisfi interessi pubblici. Assolutamente da evitare il ripetersi dell’esperienza passata. Per cui l’antica struttura rischia seriamente di aver subito danni strutturali elevati, a partire dalla mancata manutenzione dei tetti in non perfetto stato.
Perché ritengo il momento giusto?
Come insegna la storia, da crisi drammatiche, come quella che stiamo vivendo causata dalla pandemia, se n’esce con massicci investimenti pubblici, non solo di tipo “assistenziale” a sostegno delle attività economiche e del reddito dei cittadini, bensì con opere strutturali che potenzino il sostrato economico accelerando audacemente la modernizzazione d’un paese in ginocchio. Infatti, per ora a parole, sentiamo sciorinare somme astronomiche, da parte del Governo Italiano e dalla Comunità Europea, ma se, fortuna volesse, dalle parole si passasse ai fatti, nessun dorma tra i politici, che nei fatti, volessero dimostrare capacità di risollevare l’economia! A partire dal più modesto Comune alle Province e alle Regioni. Ognuno nelle sue competenze, meglio se coordinate tra loro, deve sviluppare una progettualità coraggiosa. E questo è quanto è necessario, al nostro livello, al fine di trasformare una volta per tutte il “problema” Antico Ospedale in risorsa, quale esso effettivamente appare a qualsiasi occhio obiettivo. Non cieco, o politico di basso profilo, come quello di pochi anni fa. All’epoca, sulla infelice decisione della Provincia, ricordo l’imbarazzato silenzio della sinistra locale, non so quanto complice o quanto presa alla sprovvista, mentre l’atteggiamento della destra, anch’esso silente, pareva quello di chi godesse a veder cuocere gli altri nel loro brodo. Bene. Ora che i giochi si sono riaperti aspettiamo fiduciosi una progettualità degna di tal nome sul futuro di questo patrimonio pubblico, il più prezioso della Città, alla quale, fortunosamente, è tornato nella piena disponibilità. Basta ripetere errori e disattenzioni passate!
E qualsiasi decisione verrà presa sia frutto del pieno coinvolgimento dei cittadini, ai quali la politica dovrebbe rispetto, se non altro per ché l’Antico Ospedale sorse con il lavoro e i soldi dell’intera collettività. All’epoca non esistevano finanziarie immobiliari o Cassa Depositi e Prestiti.
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Paolo Civitelli architettò una scuola aerostatica
Leggendo sul Corriere Innovazione l’anteprima del Padiglione Italia: “Barche sopra Dubai”, all’Esposizione Universale (rinviata a ottobre 2021), che prevedrà tre grandi barche rovesciate, sospese in aria, ciascuna d’un colore del tricolore, ho ripensato all’architetto cortonese Paolo Civitelli, la cui tesi di Laurea fu il Progetto di scuola aerea, tipo mongolfiera. L’avveniristico Padiglione Italia, sintesi delle più avanzate tecnologie costruttive con materiali biologici e di riciclo, energia prodotta in modo naturale da alghe che fungeranno da climatizzatore e cibo, connessioni elettroniche a distanza con università e centri di ricerca, e, invece delle fondamenta in cemento, sarà fissata su strutture colleganti a terra su sabbia pressata, raccolta in loco…tanto avveniristico e spettacolare che gli Emirati Arabi hanno chiesto il mantenimento in loco del Padiglione per sei anni. Perciò ho provato dispiacere a non aver chiesto dettagli, allora, a Paolo sul suo progetto approvato dai professori, elevato a Tesi di Laurea. Paolo non si dava tanta boria. Gravemente depresso, ai buschi cambi meteo, si presentava nell’ufficio di sindaco chiedendomi il permesso di sostare seduto, giusto il tempo di scorrere in silenzio i titoli del fascio di giornali che portava sottobraccio. Ovvio, glielo consentivo. Instaurando, tra noi, dialoghi spezzati dai ritmi forsennati imposti da telefonate, e impiegati che andavano e venivano per firme o porre questioni urgenti. Paolo si scherniva dei nostri incontri, a ritmi meteo: ciclicità di cui, presumo, non fosse consapevole. Consideravo l’ospitalità dovere solidale verso persone tormentate dalla depressione, e verso i loro familiari oppressi da pesi altrettanto scioccanti. Com’era il caso di Bruna. Anch’essa, assidua, si presentava gli stessi giorni delle brusche variazioni meteo a prospettare traversie d’un figlio, ex ricoverato in manicomio, che, a suo avviso, non fosse ben seguito dai servizi territoriali di Igiene mentale, sostitutivi del manicomio. Ella, insoddisfatta e angosciata. Quegli incontri vertevano su presunte inefficienze e ritardi nell’ applicazione della Legge 180/1978 – la Basaglia -, sulle chiusure dei manicomi. In effetti, scontavo inesperienze non tanto sulle malattie, essendo Infermiere, quanto sulle cure prestate presso i Servizi territoriali d’Igiene Mentale, sui cui presto mi aggiornai anche per reggere le prevedibili obiezioni di Bruna. D’altronde, i Servizi territoriali furono costretti ad adeguarsi a nuovi scenari in breve tempo, dal 1978 in poi, chiusi i manicomi si passò alla presa in carico degli ex ricoverati sui Territori. Processo complicato pure dall’ampio spettro di sindromi, per età sesso e condizioni sociali dei “malati” da assistere, presso famiglie o case famiglia. Ricordo, a proposito, il caso d’una psicoterapeuta colta durante il lavoro da grave choc, tanto da interrogarsi, lei stessa, sulla propria adeguatezza a sopportare il carico di stress alle prese coi pazienti. A rivoluzione in atto – i malati non più rinchiusi – in primo luogo i sanitari ma anche le istituzioni pubbliche dovettero prodigarsi per soccorrere “malati” e parenti. Parenti, a volte, “disturbati” quasi quanto i loro cari. Inutile nascondere complessità e durezze di quei drammi. Infatti, com’era accettabile che giovani come Paolo capaci di portare a termine studi fino alla Laurea, con Progetti che definiremmo avveniristici, fossero colpiti da incapacità di adattamento tanto gravi? Prima di lui, avevo conosciuta la vicenda di Tullio. Altro giovane culturalmente dotato, fino a giungere alla Laurea in Ingegneria elettronica, le cui nebbie mentali invece di regredire si aggravarono al punto da pregiudicargli l’insegnamento della sua materia, l’elettronica, della quale era brillante cultore.
Paolo, pur protetto da affetto materno, scomparve precocemente. Lo stesso accadde a Tullio. Forse anche a causa di terapie che se, da un lato, alleviavano certi sintomi, dall’altro, pareva la cura stessa esser causa di dipendenze da farmaci e disfunzioni metaboliche gravi. Spero, nel frattempo, che sui farmaci siano stati fatti progressi, tant’era l’alienazione che pareva inducessero. Così come confido in passi avanti sulle pratiche assistenziali, agli inizi, non di rado, approssimative se non paternalistiche.
La casistica sulle malattie mentali è in continua evoluzione: dalle “schizofrenie” agli abusi di sostanze psicotrope, a fattori genetici e ambientali, Parkinson, Alzheimer, demenze senili, autismi, e, addirittura, sempre più frequenti “raptus” omicidi,… insomma una gran massa di disturbi comportamentali, descritti anche nel libro: “Malaria Urbana” (patologie della civiltà urbana) di Giovanni Berlinguer.
Le famiglie non devono esser lasciate sole. Solo pensando alla vicenda di Paolo che la malattia portò a morte precoce. A breve, seguito dalla madre. Pur non mancando l’affetto reciproco tra madre e figlio. Forse, i due, affondarono lentamente sommersi nelle sabbie mobili dei disagi mentali. Ma società e istituzioni fecero abbastanza in loro soccorso? L’interrogativo è d’obbligo. Se penso alla condotta d’una parte della collettività locale: quella di sfottere Paolo, crudelmente! Destino analogo capitò Tullio: insegnante in Valdarno, gli studenti, senza tregua, lo coprirono di dispetti e scherno. Pur non essendo psichiatra, sono certo che per i sofferenti di deficit mentali siano importanti le coccole, quando non esclusivo farmaco di certe malattie.
La “cattiveria”, di cui si dice siano capaci i bambini, tra loro, col più debole, negli adulti è inaccettabile, senza mezzi termini da definire: vigliaccheria vergognosa!
Spero di non essere facile profeta, ma così come abbiamo assistito persino a suicidi per depressione post crisi economica, prepariamoci ad assistere a fenomeni simili post corona virus. In tal caso, saremmo pronti, come individui e istituzioni, a offrire ai bisognosi una mano? Più cure e attenzioni, al prossimo in difficoltà, di quanto è accaduto nel recente passato?
fabilli1952@gmail.com
Enzo Barneschi, impegnato nella cura del patrimonio comunale e dei legami sociali
Se c’era da dare una palettata di cemento – al lavoro in Comune o per un amico in difficoltà o per attività ricreative – Enzo era sempre disponibile. Palettata di cemento, sinonimo della sua versatilità nell’affrontare i più svariati lavori manutentori di cui s’era impratichito beneficiandone il Comune, datore di lavoro viepiù a corto di operai specializzati. Così com’era depositario della mappa virtuale, dell’esteso patrimonio comunale, costruita nella sua mente in tanti anni. Efficienza e dedizione al lavoro che forse gli sono stati fatali. Pur non disponendo notizie precise sulle cause del suo male inesorabile, credo di non essere lontano dal vero ipotizzando che si sia infortunato un piede lavorando trascurandone il trauma, e che, sottovalutato, abbia avuto un decorso infausto. Da “combattente” che privilegia mantenere salda la postazione alla propria incolumità. Come tutti, dal carattere con spigolature ma affettuoso! Da ultimo, i nostri rapporti erano virtuali, lo vedevo seguire su Facebook le mie strampalate vacanze in giro pel mondo. Ancora, il 26 marzo, annotava sul mio articolo dedicato a Bruno Benigni, uomo politico impegnato fino alla fine dei suoi giorni a favore degli ultimi, i ricoverati nei manicomi e nei manicomi criminali, avendo contribuito alla loro chiusura. Enzo scriveva: “Bravo Ferruccio, anche io ho conosciuto Benigni, hai dato il giusto valore che meritava, senza aggiungere meriti di più del suo grande lavoro, e con tanta umiltà”. Sapevo il suo ingravescente stato di salute, ma Enzo era ancora quell’uomo sociale con cui avevo condiviso tanti anni di impegno politico nel PCI. Famiglia politica dispersa in molti rivoli, ma che, nei più sensibili, ha conservato l’dea prioritaria della cura del bene comune. Anche in questo impegno Enzo è stato infaticabile, dimostrando quanto la dedizione al lavoro di dipendente comunale fosse coerente con la sua passione sociale. Mi aveva mostrato, molto soddisfatto, la bella casa di famiglia costruita, in senso letterale, con le sue mani. Parlandomi affettuoso della sua giovane famiglia in crescita, senza trascurare l’ammirazione per il babbo, già anziano ma sempre operoso. Come il suocero Quinto, lavoratore infaticabile, rappresentante di quella limpida coscienza civica della generazione che, con sacrifici e sudore, trasse fuori l’Italia dalla miseria post bellica, fino al benessere e ai diritti di cui la nostra generazione ha goduto. Come ultimo saluto gli ho dedicato un articolo sulla fantastica colonna sonora che sale dalla Val di Loreto in questi giorni di silenzi irreali: canti di uccellini, latrati canini, muggiti bovini, ragli d’asini, rari scampanii, … che l’hanno accompagnato all’ultima dimora, uniti al pensiero mesto di tanti che l’hanno conosciuto e apprezzato lavoratore inappuntabile, generoso e, senza retorica, dedito come pochi alla tutela dei legami sociali e del patrimonio della collettività.
Ferruccio Fabilli
A Paternopoli e nell’Irpinia Felix a primavera esplodono i ciliegi
Raccolgo l’invito a riprendere i viaggi, appena sarà consentito, dall’Italia. Grazie alle offerte infinite nel nostro paese, scegliere una meta è arduo. Ho usato due canoni: uno sentimentale, in ricordo del devastante terremoto del 1980 che mise in contatto Cortona e Paternopoli (4 morti, 18 feriti, 406 senzatetto); l’altro infantile, dell’età in cui nulla era più goloso dell’assalto ai ciliegi – propri e dei vicini – dei quali l’Irpinia è coronata. A quarant’anni dal terremoto. Per quei luoghi paragonabile al corona virus odierno, avendo subito disastri con morti e distruzioni. Di cui fummo testimoni diretti, grazie ai generosi cortonesi che, coi mezzi raccolti, vollero recar sollievo a persone nel panico. D’allora, poche amicizie sopravvivono. Vivida è con Pietro Palermo, primo paternese incontrato al centro raccolta di Grottaminarda, allora assessore comunale alla ricerca di soccorsi. Bontà la Misericordia di Cortona – di Silvio Santiccioli e Francesco Moré – che dopo il terremoto incoraggiò la nascita d’una consorella a Paternopoli, altri amici recenti si sono aggiunti, funzionando ancora quel gemellaggio, grazie ai Presidenti Luciano Bernardini e Giovanni Tecce. Mentre tra i due Comuni gemellati, dalla memoria corta, l’amicizia presto s’è spenta.
Di recente, con Claudio Basco – che laggiù trovò moglie, Michelina, a una festa gemellare delle Misericordie – abbiamo organizzato un viaggio. Foriero di tante sorprese. L’Irpinia mantiene il problema dell’emigrazione giovanile, ma molti aspetti sono evoluti in meglio. La primavera ci avvolse colorata nel rosso verde dei ciliegi carichi di frutti turgidi, complice il satellitare indicandoci percorsi più brevi infilammo stradine, per valli e colline, nel paesaggio agrario florido per coltivazioni intensive tra vigne e oliveti, fino a Paternopoli.
Da un acrocoro nel comune di Castelfranci, sistemati in agriturismo, lo sguardo poté spaziare sul paesaggio Irpino, fantastico! Che mai prima avevo apprezzato nella sua vastità. Ondulato, coronato da vette montane, vi si nascondono tesori tra pliche verdeggianti: cittadine, chiese, musei e dimore storiche, riserve naturali, luoghi sacri, oliveti, cantine e vigne, prodotti agroalimentari naturali o abilmente trasformati.
Tra bevitori, chi non conosce i vini Taurasi, Fiano di Avellino, Greco di Tufo? Vengono da lì. La cantina Mastroberardino di Atripalda, la migliore negli anni del terremoto, ne faceva le sue bandiere. A essa si sono accodati produttori altrettanto validi. Da quei vini sono nate grappe omonime. A proposito del bere, la prima sera accampati nella Paternopoli terremotata, i cortonesi allestirono la cena da campo, ma la damigiana di aglianico scolata fino all’ultima goccia fu offerta in loco. Scoprimmo così a garganella il grande aglianico (vitigno preromanico, da “hellenico” d’origini greche) che, seguendo un disciplinare, diventa DOCG Taurasi. Prodotto entro i comuni di Paternopoli, Taurasi, Bonito, Castelfranci, Castelvetere sul Calore, Fontanarosa, Lapio, Luogosano, Mirabella Eclano, Montefalcione, Montemarano, Montemileto, Pietradefusi, Sant’Angelo all’Esca, San Mango sul Calore, Torre Le Nocelle, Venticano, in provincia di Avellino. Alcuni di questi luoghi resi familiari dalla TV dopo il terremoto – porzioni minori dell’Irpinia estesa in tre provincie: Avellino, Benevento, Foggia – sarebbero sufficienti ad appagare molte curiosità nel nostro viaggio ideale. Anche scorrendo solo una lista sommaria dei loro prodotti, molti dei quali DOP: broccoli di Paternopoli, nocciole, cipolle ramate, capicolli e salami, torroni, pane, pecorino, castagne, aglio bianco, tartufo, caciocavallo, ciliegie, …, offerti anche nelle locali trattorie, pizzerie, e ristoranti.
Una guida dice: “Visitate i piccoli borghi avellinesi e potrete dire di avere visto alcuni dei luoghi più belli del mondo. L’Irpinia è costellata di piccoli borghi medioevali arroccati sui monti dove il tempo pare si sia fermato”, sciorinando siti rilevanti: il castello Normanno e la Cattedrale romanica di Ariano Irpino; a Mirabella Eclano gli scavi dell’antica città Aeclanum, tra i principali centri della tribù sannita degli irpini; Gesualdo coi suoi vicoli e il Castello che lo domina; l’Abbazia del Goleto a Sant’Angelo dei Lombardi; Montella dal paesaggio bellissimo e il santuario di San Salvatore che domina un monte del tutto deserto; e, sempre tra i borghi più belli d’Italia, Rocca San Felice, e Monteverde, dal Castello dedicato al brigantaggio (dove il sottoscritto vinse un premio letterario, ed essendo circondato da pale eoliche, mi parve d’essere il modesto emulo di Don Chisciotte in cerca di ventura).
Per gli appassionati di trekking c’è l’imbarazzo della scelta. A partire dal sentiero E1 (unisce la Norvegia a Capo Passero, in Sicilia) che traversa il Parco Partenio. Il quale, a sua volta, offre una vasta scelta di sentieri circostanti. Di Mamma Schiavona: da Ospedaletto a Montevergine; tra le cime di Montevergine; via dei Cristiani: da Baiano a Summonte; la Bocca dell’Acqua; tra i due Campi: da Mercogliano a Montevergine; tra due vette: da Summonte a Montevergine; panoramico: da Monteforte Irpino a Campo san Giovanni; valle dell’Inferno; lungo la Trave del Fuoco, … alcuni esempi – tra i numerosi suggeriti al camminatore dal Parco Partenio – di angoli suggestivi, panoramici, naturalistici, storici, soddisfacendo tutti i gusti.
Senza tralasciare le feste folkloristiche disseminate in vari centri e periodi dell’anno. Iniziative recenti o consolidate tradizioni. Feste che legano gli addobbi barocchi delle classiche luminarie su strade ed edifici cittadini, ai fuochi d’artificio, spettacoli, balli, gastronomia. Sud tradizionalista ma non avaro, tutt’altro, dove per la gioia di vivere e ostentare benessere, in certe circostanze come nei matrimoni, si è disposti a spendere patrimoni per aggregare alla festa amici, parenti, e persino comunità intere.
Perciò, partendo da Paternopoli, troveremo amici desiderosi di suggerire il meglio per la nostra vacanza Irpina che può durare dal fine settimana a tutto il tempo disponibile.
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Gemellaggio MISERICORDIE (Moré e Santiccioli, per Cortona)
Amministratori comunali Paternopoli ai tempi del TERREMOTO (1980)
CILIEGIE, corallo rosso dell’ IRPINIA
La fantastica colonna sonora che sale dai cascinali della Val di Loreto
Decenni fa, in Valdichiana, era naturale che risuonassero voci umane confuse con varie espressioni animali di uccelli, cani, galli, maiali, bovi, pecore, asini … segni d’una agricoltura tradizionale ancor viva, insieme alle invadenze olfattive tipo la puzza di porcili e pollerie. Sinfonie naso uditive lentamente spentesi, cancellando così la diversità tra il vivere in città o in campagna; sempre gli stessi rumori: traffico, treni, ambulanze, e motociclisti rombanti nella buona stagione. Da casa, in collina, tale metamorfosi è percettibile – par d’essere a teatro per quanto giungono chiari i suoni dal basso –, se non che, ai piedi dell’altura, dalla casa colonica degli eredi di Gino e Piero Conti partono ogni tanto scoppiettanti avvisi di presenze bovine, e degli asinelli di Corrado e dei Milani, prodi allevatori. (Per fortuna, è chiuso il vicino porcile che, soffiando vento senese, ammorbava l’aria). Gino ci ha lasciato anzitempo, ma gli eredi mantengono la fattoria canterina di animali a ricordo che un tempo loro, nelle stalle e nei cortili, erano più numerosi degli umani. Ragliando e muggendo avvertono d’aver fame, o, forse, di soffrire solitudine e clausura. Il loro controcanto naturale, opposto ai rumori tecnologici dilaganti, è godibile compagnia. Dalla fattoria, nei pomeriggi festivi, partiva Piero per l’aeroporto a guidare un piccolo aereo per volteggiare sulla Val di Loreto, e, per quanto tecnologico, quel sorvolo rimarcava la festa, il bel tempo (col brutto non volava), e l’amicizia per i concittadini. Motivi di salute hanno distolto Piero dal volo, e le giornate risultano meno spensierate senza quei volteggi. Come se un passero stagionale rinunciasse al suo ritorno.
Un lontano legame incrociò le nostre vicende familiari. Nel podere a Casa Bianca di Piazzano, lasciato dalla mia famiglia mezzadrile diretta al podere di Caldarino, vi subentrò la famiglia Conti, retta da mamma Rosa. Mezzadri nelle stesse proprietà Catani di Montalla. Con Gino, per un trentennio, siamo stati vicini di casa e amici. Con Piero ci fu l’incontro d’una sera alla Polisportiva di Tavarnelle, dove, generoso, appena conosciuti si offrì di portarmi con l’aereo in vacanza all’Elba. L’evento non si verificò per i mutevoli casi della vita, non per volontà di Piero. Gino era assai attivo nella vita sociale. Piacente, pare fosse uno sciupa femmine, passava elegantemente dalla cura del podere e degli animali a serate galanti, allegro e vitale.
Nell’irreale silenzio indotto dal coronavirus, rotto dalle sirene spiegate delle ambulanze, fortunatamente, è ancor vivo l’allegro coro animale che rompe il silenzio senza precise cadenze, mentre i rintocchi delle campane han cadenze più prevedibili. E le sere delle vigilie festive non echeggiano più all’altoparlante i richiami di don Ferruccio, i quali, anche se inosservati dal sottoscritto, erano benauguranti a riprova del dimani al dì di festa… sperando che tornino feste vere.
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Giuseppe Berni l’agricoltore che pregava gli ulivi
Nella solitudine agreste, accentuata dal silenzio da coronavirus, potazzavo ulivi felice, in compagnia del mastro potatore scomparso, il saggio Beppe. Vicinanza speciale, di quelle che ci seguono in intime vibrazioni. Ondate di ricordi che il filosofo Emanuele Severino attribuiva agli “eterni”; avendo ciascuno i suoi “eterni”: persone care defunte. Da certi luoghi e situazioni riaffiorano. In questo angolo del Borgo, lo spirito di Beppe staziona ancora, avendovi trascorso una lunga vita a “pettinare” ulivi tanto bene da sottoporli al giudizio del prof. Lanari; fattore nella zona tra Montecchio e Manzano e docente di Agronomia alle Capezzine. Beppe non aveva fatto scuole tecniche, ma quella dei campi diretta dal babbo e da zio Romolo, avendo lui smesso gli studi alla quinta elementare. Per la regola contadina: “Se il giogo del lavoro dei campi non ti vien messo da piccolo, da grande non è più possibile”. L’assenza fisica di Beppe, però, è palpabile, deturpante quanto mancasse un dente anteriore al sorriso dei luoghi. Ne soffrono gli olivi, lentamente stingendo il verde turgido di salute e gioia trasmessa dalle sue cure maniacali. Ne soffrono le strade vicinali di Borro del Castelluccio e delle Scuole, dove, solo, stendeva il breccino riparando buche e riattando sciacqui; ora tutto va in rovina. Ne soffrono la perdita gli amici – come m’onoravo essergli -, avendo trasmesso a piene mani tanto buon umore e insegnamenti nella tenuta dei campi. Non indossando mai il cappello gallonato da maestro, pur essendolo. “Quando incontro una persona la saluto, anche se non la conosco! So quanto bene gli trasmetto”, gentilezze usate fin da ragazzo. Nelle conversazioni, sempre allegre, era capace, anche dopo i settant’anni, di capitombolare a terra per mimare le scene d’un racconto. E ci sarà di nuovo qui uno, come lui, capace di certe descrizioni della natura? “Avverto dei cambiamenti, come quello degli uccelli che non emigrano più! Quando ero ragazzo arrivavano tordi, quaglie; oggi non ci sono più! Sono comparsi gli storni, da almeno sette o otto anni, addirittura covano qui, non emigrano più. Dei pettirossi che in passato erano presenti, oggi non c’è quasi traccia… Le capinere erano fitte nelle lastre dei tetti, oggi quasi niente! Il mio tetto era pieno di rondoni – n’ero innamorato! – oggi chiudiamo le buche del muro, essendo quasi scomparsi. Spariti non perché la gente se li è mangiati, ma ne arrivano sempre meno. Avevo 17 buche sulla casa per i rondoni, molto utili per mangiare insetti, mosche e moscerini. Con il bestiame gli insetti erano tantissimi e i rondoni volteggiando, senza toccare terra, svolgevano un lavoro utilissimo nella pulizia dell’aria […]. Hanno una grande bocca come quella del cuculo, anch’egli insettivoro, come la spiatascia. Il rondone ha gambe piccole, le unghie, come per la civetta, sono la sua difesa. Non sta a terra anche perché non può difendersi con il becco, somigliando a un pulcino. Vivendo di moscerini, ha una vita aerea e depone le uova in alto sui tetti. Resta qui novanta giorni. Viene, fa l’amore, nascono i piccoli e poi, dal dieci al venti luglio riparte. Quelli che non partono muoiono, non facendo in tempo a salvarsi al caldo. […] Al posto dei rondoni sono arrivati gli storni, ai quali ho sparato, sono andato a distruggerne i nidi, cercando in tutte le manieri di ucciderli, ma loro restano. Siamo invasi da storni! Divorano tutto: grano, granoturco, ciliegie, uva. La loro carne è sgradevole. Arrivano animali nocivi e non tornano più quelli buoni, c’è uno sconvolgimento anche nel mondo degli uccelli. In cinquant’anni ho visto cambiamenti enormi!” Pensieri, vicende personali e familiari che raccolsi nel romanzo: Ascoltando il respiro di una notte d’estate, tra i miei preferiti. Dove l’ intrigante vita di Pio Colono (così l’avevo ribattezzato) rivela una visione positiva, fortemente legata agli affetti umani e persino agli adorati ulivi ai quali, emulo Francescano, dedicò la preghiera “Carissimo ulivo” “[…] Giovane sono maturato con la preghiera quotidiana: il Pater. Signore dacci oggi il nostro pane quotidiano… nonché – aggiungo – il grande alimento che mi sostiene nel corpo e nell’anima – piacendo al Creatore! – grazie all’olio! Quanto a te olivo, vengo a liberarti da quei rami che non fanno più frutto. Quei rami sono legna preziosa, che nell’inverno riscalda le mie membra e non patisco il freddo, quando sto al focolare, accanto a quel robusto fuoco, con la brace mi ci faccio una bella bruschetta, con il buon pane e il buonissimo olio, grazie olio!” Espressioni sincere d’una mente accorta nel denunciare la fine dell’arte contadina causata dalla Globalizzazione, annullatrice di tante culture tradizionali, come gli olivi secolari soppiantati da specie lavorate solo a macchina. Aveva capito tante cose, sul suo mondo in estinzione, prima che accadessero. Quella degli ulivi secolari è una causa pressoché persa. Basti guardare le nostre colline olivate per rendersi conto del progressivo abbandono a sé stesse delle piante argentee, tipiche di questo antico paesaggio, per motivi economici: non più redditizie; e motivi antropologici: gli anziani, che vi si dedicano senza calcoli di tornaconto, stanno scomparendo, e nuovi appassionati per gli ulivi sono sempre più rari. Dunque, non si tratta di nostalgie passatiste, di cui non sarebbe da vergognarsi, nati e cresciuti in mezzo alla natura come siamo stati… è un segno dei tempi. Se pure, sulle tradizioni alimentari contadine, sulla genuinità delle trasformazioni di materie prime (in salumi e conserve), sul modo di cucinare cibi, pare ci sia un’onda di riscoperte. Però è andata a perdersi l’affabulazione, la socievolezza, la cura delle cose proprie e dei beni comuni, come strade o sorgenti d’acqua fresca, di cui furono protagonisti quelli come Beppe. Che avevano quella dote sempre più rara – nell’epoca dei social e dei media -: di cui splendevano! La loro luce era visibile come aura speciale che li circondava, e capaci di trasmetterci quello splendore: amore assoluto per la vita e la natura.
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Alfonso Leonetti-Lev Trotsky, Carteggio 1930-1937, prefazione di Giorgio Sacchetti
Prefazione di Giorgio Sacchetti
Nell’epocale interrogativo di Alfonso Leonetti, reiterato in età senile, risiede forse la percezione dell’imminenza dell’ultimo atto di un travagliato percorso. Il muro di Berlino non era ancora caduto, ma quel socialismo da caserma, burocratico e oppressivo non poteva durare, certo meritando quell’epilogo rovinoso senza rigenerazione. Eppure quell’Idea che l’uguaglianza e la libertà non dovessero mai essere disgiunte sembrava riemergere dai gorghi della Storia, come un fiume carsico, leggibile in filigrana perfino nelle riflessioni di un vecchio comunista dissidente, di un trotskista dalle “venature libertarie”.
Quasi un secolo fa nella Russia sovietica si consumava l’estromissione di Trotsky, massimo protagonista della rivoluzione, dagli organi dirigenti del partito. In Italia l’inizio della vera fortuna editoriale del suo pensiero risale all’anno 1963 quando, per la prima volta senza demonizzare, usciva un importante studio dello storico Giuliano Procacci dedicato alla Rivoluzione permanente. Sempre in quegli anni veniva fondata la Samonà Savelli, editrice di orientamento affine che pubblicava un’importante antologia di scritti del rivoluzionario russo e un saggio di Silverio Corvisieri su Trotsky e il comunismo italiano; nel 1983 ci sarebbe poi stata la creazione del Centro studi “Pietro Tresso” con sede iniziale a Foligno in Umbria. Riguardo invece le fortune politiche e i primi passi di questa corrente del comunismo internazionale nel nostro paese l’indicazione per gli studiosi è stata, da sempre, quella di far riferimento alla fornitissima biblioteca di un illustre “trotskista pentito”, Leonetti appunto, con il suo archivio ubiquo e disseminato, suddiviso tra Fondazione Feltrinelli a Milano, Istituto Gramsci a Roma e Biblioteca comunale a Cortona.
Questo pregevole corposo Carteggio che i lettori hanno tra le mani, curato da Valeria Checconi e Ferruccio Fabilli, costituisce un’indubbia fonte primaria e un tassello fondamentale non solo per la ricostruzione delle intricate vicende novecentesche del trotskismo italiano e internazionale, ma anche per quelle più ampie e generali del movimento comunista. E merita un posto di rilievo nella nutrita storiografia specialistica sull’argomento. D’altronde le cesure estreme della corrispondenza, 1930-1937, racchiudono snodi cruciali sullo scenario geopolitico globale, con l’Europa in fiamme e sull’orlo del baratro.
Molteplici gli aspetti e le considerazioni che emergono dalla compulsa di queste pagine. La prima, abbastanza scontata, è che essendo i due corrispondenti protagonisti ed esponenti di primo piano di quella peculiare storia (quella del comunismo s’intende) che così tanto ha marcato il secolo XX, le informazioni inedite e le novità che qui emergono abbiano una valenza comunque ragguardevole. Esse cioè aggiungono ulteriori necessari elementi di conoscenza partendo proprio dall’analisi minuta e profonda di carte fino ad oggi misconosciute. La seconda considerazione riguarda proprio la natura di questi particolari documenti ed il loro trattamento per le finalità euristiche. È appena il caso di ricordare che, nella fattispecie, ci si trova di fronte alla pubblicazione integrale di fonti soggettive di primo grado, pregiatissime. Siamo cioè alla base della piramide, ad una profondità alla quale non sempre è consentito l’accesso agli storici. Nell’ambito di una strutturazione gerarchica documentale si comprende bene la differenza fra queste carte e, invece, gli atti ufficiali. I secondi sono, con tutta evidenza, il risultato di uno spirito mobilitante che sta a monte, elaborati su materiali di istruttoria che non sempre è dato di conoscere; e sono finalizzati alla comunicazione esterna efficace ed alla rappresentazione ottimale di sé dell’organizzazione, frutto in genere di sintesi e dibattiti, confezionati per durare in eterno o quasi. Considerate implicitamente memoria labile dagli stessi estensori – strumento della comunicazione intersoggettiva che s’immagina (a torto) “riservata” o, in ogni caso, inaccessibile agli estranei – le carte e la corrispondenza in genere, proprio per la loro funzione propedeutica ancillare rispetto alla stesura dei documenti ufficiali ci aprono invece, in quanto espressione estemporanea “sincera”, una inedita dimensione intima, libera e meno condizionata dal contesto. Quest’ultimo genere di fonti, spesso connotate da specifiche peculiarità, ci permette quindi di entrare nella psicologia degli attori e nelle dinamiche di gruppo utilizzando perfino dispositivi e approcci metodologici mutuati da discipline non prettamente storiche. L’euristica, quale scienza della ricerca, assume qui anche un significato più propriamente tecnico, ossia relativo all’atto concreto di esperire la materia prima. Così si mette a disposizione di chi voglia il risultato eccezionale di un “lavoro sotterraneo” nel quale si sono esercitate “le arti del minatore” indispensabili per la confezione del manufatto storiografico.
La presente pubblicazione costituisce la prova provata di come i fondi epistolari rappresentino uno strumento indispensabile di conoscenza. E ci permettano visuali inedite utilizzando ad esempio il metodo della cosiddetta network analysis, ossia attraverso l’esplicitazione di una “rete”, sistema / disegno strutturato di connessioni fra diversi punti, e magari di una rappresentazione sinottica sotto forma di diagramma. Ciò al fine di analizzare le attività svolte dai vari soggetti chiamati in causa, eventualmente finalizzate alla realizzazione di un progetto, oppure anche di tipo informale.
La terza considerazione concerne invece il rapporto di conoscenza amicale e di frequentazione intercorso tra il curatore dell’opera, Fabilli, ed il protagonista Leonetti, che non solo sta alla base della presente meritoria iniziativa editoriale, ma che ci fa intravedere un interessante “nesso comunicativo” intergenerazionale che ormai è quasi diventato una prassi nella storiografia sul movimento operaio in questi ultimi decenni. Insomma gli storici e gli studiosi formatisi culturalmente negli anni cruciali Sessanta-Settanta hanno spesso rivolto il loro sguardo d’indagine verso un’altra generazione-contro rassomigliante almeno nell’esprit alla loro, quella dei nati al volgere dell’Ottocento; forse alla ricerca inconscia di una possibile pedagogia rivoluzionaria, oppure di mere risposte alle inquietudini politiche e sociali poste dalla modernità. L’ultima considerazione attiene i contenuti insiti nello stesso soggetto narrativo che, anche nella disamina di quest’opera, ci rimandano alla categoria politica, culturale e soprattutto etica, del “tradimento”. Con una dinamica in parte analoga a quella già in atto per le masse cattoliche nei confronti dell’autorità millenaria dell’istituzione Chiesa, si instaura un vincolo di tipo ideologico fideistico, mutuato dall’attesa messianica del “Sol dell’avvenire”, nei confronti dello Stato sovietico. Ed era proprio nel nome di quella nuova fede che il movimento di simpatia verso la Russia rivoluzionaria si era istituzionalizzato nei partiti comunisti. Si creava in tal modo (e qui vale ancora l’analogia di cui sopra) quell’armonia artificiosa tra movimento e istituzione utile soltanto al perpetuarsi dei rapporti di potere, alla preservazione del nucleo originario da ogni istanza di contestazione. In tal senso ogni dissidenza doveva o essere riassorbita, oppure eliminata senza esitazioni; quindi ogni presa di posizione controcorrente rivestiva i connotati di “tradimento”.
Collocati in genere nell’arcipelago della dissidenza di sinistra, gli epigoni italiani di Lev Davidovich Bronstejn hanno una storia, un filo rosso che si dipana, senza soluzione di continuità, dal 1930 – quando “i tre” (Tresso, Leonetti e Ravazzoli) venivano espulsi dal partito comunista – fino ai giorni nostri, passando per la Nuova Opposizione Italiana e la Quarta internazionale. È un percorso costellato di persecuzioni, dibattiti estenuanti, scissioni in piccoli gruppi. I presupposti di questo movimento sono sempre stati quelli di un recupero puntiglioso delle fondamentali battaglie condotte da Trotsky, dal periodo prerivoluzionario alla NEP, fino all’affermarsi dello stalinismo, teorizzando la “Rivoluzione permanente”, denunciando la degenerazione dell’URSS e i crimini di Stalin, per un diverso rapporto partito-masse.
Il 17 febbraio 1962 “L’Unità” registrava una delle più cocenti sconfitte di questo movimento: Alfonso Leonetti, uno dei suoi massimi esponenti storici, rientrava nei ranghi del PCI, dopo avervi militato per nove anni dalla fondazione. Extra Ecclesiam nulla salus: “Fu un errore aver rotto con il Partito, poiché i fatti hanno sempre dimostrato che un comunista non ha ragione che nel Partito e con il Partito…”. Ma, non molti anni dopo, nel suo testamento politico – messo proprio come epigrafe all’incipit di questo volume – egli avrebbe riconfermato la sua identità di marxista rivoluzionario internazionalista nulla rinnegando delle lotte condotte “sotto la bandiera di Trotsky e della Quarta Internazionale”. Con una chiosa finale che piuttosto rimandava al valore etico e, aggiungiamo noi, anche esistenziale dell’Utopia.