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Luca Fedeli, con “Nato tre volte”, esordisce da romanziere di talento
Su Luca Fedeli scrittore userei la metafora, da lui stesso usata, sulla produzione del miglior whisky torbato Caol Ila, dell’isola di Yskay. Un liquore assoluto. (Degno di accompagnare Michele – protagonista del libro – nel tentativo finale d’accopparsi). Liquore di lunga elaborazione. Materie prime scelte, attesa di anni per ottenere un nettare “alito di mare”, “invecchiamento medio 12 anni, non aggressivo, con profumi e delicati sapori di frutta e miele”. Così come eccellente è la riuscita del romanzo Nato tre volte: “distillato” pazientemente dall’esordiente (sessantenne) Luca Fedeli. Dov’è descritto un lungo tratto della vita di Michele, nel romanzo di formazione che si legge d’un fiato. Di ragazzo che si fa uomo. Cresciuto in provincia, respira e si dibatte nello stesso clima delle generazioni italiane negli ultimi trent’anni del XX secolo. Con linguaggio asciutto appropriato, Michele racconta in modo incalzante, curando i dettagli, fino a momenti quotidiani: di sé stesso, del contesto, di persone, azioni e reazioni. Riflessioni comprese, di Michele, svolte in tempo reale: sentimentali, culturali, politiche, di costume. Fluisce la storia, alla ricerca continua di qualcosa che appaghi il protagonista. Nel viaggio tormentato della vita, costellata da sorprese, delusioni, estraneazioni. Per dirla – in breve – alla Ionesco (maestro del teatro dell’assurdo): “Dio è morto, Marx pure, e anche io non mi sento tanto bene”. Le cesure di Nato tre volte rappresentano: la nascita biologica, l’esperienza politica bordeggiando ambienti del Partito comunista, e l’estraneazione finale. Alla ricerca di appigli sicuri, “maestri” di vita. Mancandogli questi, non ha alternative che la solitudine. Attraverso la finzione letteraria, Michele suscita riflessioni sul mondo contemporaneo. Sul rapporto tra i sessi, coinvolto nella libertà sessuale, rifugge legami stabili borghesi. Ne vede e vive i limiti: la fusione tra due estranei gli risulta senza vantaggi. Alla politica s’affaccia contrastato dalla famiglia piccolo borghese, che detesta la sua scelta comunista. Nel Partito, in teoria palestra di partecipazione, scopre incoerenze insensate: condotte di dirigenti pieni di sé, slegati dal reale, e l’assenza di “proletari”, la cui tutela dovrebbe essere obiettivo prioritario del Partito. Ma il peggio è dietro l’angolo: il Partito di sinistra si trasforma in istituzione elettorale neoliberista. “Ma allora ho perso la coscienza di classe. Ma come è stato possibile? Forse un segno dei tempi. Quasi me lo sentivo. Vediamo come va a finire”. Nasce un senso di colpa, in Michele, di qualcosa contro cui da solo nulla avrebbe potuto. Privato di grandi ideali, non ne intravede nuovi. Nonostante la progressiva alienazione dal mondo, Michele riaccende la memoria del lettore su elementi significativi del suo (nostro) passato: personaggi, canzoni, romanzi, libri, filosofia e film. Neoesistenzialista singolare, Luca tratta la vita di Michele in modo “leggero, lieve, sottile e allegro, come vorremmo che fossero sempre le nostre vite”, definizione che condivido dalla copertina del libro. (fabilli1952@gmail.com)
Meccanici di biciclette Cortonesi
Loriano Biagiotti Ferruccio Fabilli
NOTIZIE SUI PRIMI MECCANICI DI BICICLETTE CORTONESI
Hanno collaborato: Giuliano Berretti, Pasquale Brogioni, Angiola Capecchi, Maria Teresa Capecchi, Graziella Casucci, Sergio Catani, Carlo Galletti, Ornella Galletti, Giorgio Giusti,
Rita Giusti, Silvano Giusti, Giacinto Gori, Maurizio Lovari, Emilio Marconi, Giuseppe Migliacci, Antonio Raspati, Elma Schippa, Tiziano Schippa, Danilo Sestini, Alessandro Trenti, Erino Trenti, Paolo Zappacenere.
Presentazione
In occasione della nuova edizione della “Cicloturistica La Cortonese” – che si svolge a luglio -, è nata l’idea di raccogliere notizie e fotografie sui riparatori di biciclette presenti nel Cortonese nel secondo dopoguerra. Quando la bicicletta divenne mezzo di locomozione di massa nelle nostre campagne
Partiti con poche conoscenze su quanti artigiani fossero dediti a riparare e vendere biciclette, – incontrato l’interesse, tra amici e parenti, sui pionieri di un’attività tanto diffusa – la raccolta dati è cresciuta in quantità e qualità. Avendo impegnato in tale ricerca solo una parte del tempo richiesta dall’organizzazione della nuova edizione della “Cicloturistica La Cortonese”, siamo consapevoli che il resoconto avrà molte lacune sui fatti e nomi da noi recensiti. Tuttavia siamo lieti di avere svolto una prima cernita importante, e niente vieterà ad altri di completarla.
Il merito di questa scrematura è aver gettato il primo sguardo su aspetti non secondari della nostra storia recente, ed offrire la conoscenza, anche ai più giovani, su quel mondo oramai scomparso, di cui tutti siamo eredi.
Nel raccontare la vita dei primi meccanici di biciclette, ci siamo limitati ai tratti essenziali che li caratterizzarono: epoca e luoghi in cui operarono, e la loro professionalità, spesso poliedrica. Un saper fare misto di bravura e adattamento ai bisogni di una clientela non sempre agiata. Anzi, diremo, in genere piuttosto povera e sparagnina. Erano tempi in cui le famiglie dovevano far quadrare i conti con tanti sacrifici. Ma erano anche tempi in cui c’era fiducia nel futuro, e la mobilità era un investimento prioritario per uscire dalla staticità secolare del mondo contadino.
Le belle fotografie allegate aggiungono immagini tangibili allo scarno racconto. Anche se mancheranno al nostro lettore quegli elementi di vita reale, caratteristica di un’officina meccanica: gli odori di gomma, mastice, olio, nafta,… e, soprattutto, non è riproducibile, in fotografia e nel racconto, il clima umano che le caratterizzava. Clima diverso e tipico, da meccanico a meccanico. Insomma, non era lo stesso entrare in quelle officine o in una di quelle odierne (dominate dalla tecnologia, paragonabili a sale operatorie). Nelle officine del passato, era entrare in un bric a brac di oggetti, e imbattersi nel caotico via vai di persone alla ricerca di risolvere i propri problemi, riparare o acquistare biciclette, o, semplicemente, scambiare chiacchiere.
Il Presidente della Cicloturistica La Cortonese
Loriano Biagiotti
Prefazione
Già fa onore agli organizzatori – della prossima edizione ciclostorica La Cortonese – aver abbinato l’evento sportivo al tributo alla memoria dei pionieri cortonesi meccanici di bicilette, andandone a scovare i ricordi tra amici e parenti. Segno di grande rispetto e amore per i primi che sulla passione comune per la bicicletta (che unisce generazioni lontane nel tempo) investirono la loro vita professionale.
Tirato in ballo – da Loriano Biagiotti e dagli amici compaesani della Polisportiva Val di Loreto – a mettere ordine alla raccolta di notizie, ho avuto anch’io un piacevole tornaconto. L’occasione di integrare le mie conoscenze sulla vita, dunque, sulla storia materiale Cortonese, aprendo il capitolo, molto interessante, su quanto importante fosse stata la diffusione della bicicletta nella transizione della società: da prettamente agricola al boom economico. Che significò lavoro per i giovani – apprendisti e meccanici alla ricerca di alternative ai lavori contadini –, e le officine meccaniche divennero osservatori importanti sullo sviluppo economico. A cui l’inventiva degli artigiani dovette star dietro, adeguandosi. Infatti, insieme all’uso massiccio delle biciclette, si fece incalzante: sia la necessità della loro manutenzione, sia assecondarne l’uso sportivo del mezzo, sia seguire la diffusione della motorizzazione. Dalle bici ai ciclomotori alle vetture, i passaggi furono rapidi. Non a caso, vediamo crescere un’estesa rete di pompe di benzina.
Non secondari furono gli effetti sociali indotti dalla massiccia mobilità. Un tempo limitata da vincoli padronali (ogni acquisto importante doveva essere accordato dal padrone al contadino) e da consuetudini sociali (solo gli uomini potevano uscire di casa per “affari”). Le famiglie da strutture gerarchiche si trasformarono – gradualmente – in forme lineari: uomini e donne alla pari, ogni giorno, impegnati a uscire di casa alla ricerca di lavori anche saltuari, giornalieri.
Nel racconto troveremo le officine protagoniste anche culturali, politiche, e, persino, nel pettegolezzo. La gente vi si rivolgeva principalmente per curare i propri mezzi di locomozione, ma non era raro trovare in officina persone a chiacchiere su qualsiasi argomento: era una democrazia senza freni inibitori!
Ecco, in sintesi, il risultato della nostra pur fugace ricerca, sulle capacità versatili, in più tipi di prestazioni, degli artigiani meccanici, e sulla rete di relazioni e iniziative (in prevalenza, sportive) che scaturirono nelle loro officine.
Ferruccio Fabilli
LA BICICLETTA PRINCIPALE MEZZO DI LOCOMOZIONE NELLE CAMPAGNE
L’esplosione in Italia dell’uso di biciclette, come mezzo di locomozione, avvenne tra le due guerre. Tuttavia, l’apice della diffusione, nelle campagne tosco-umbre, fu raggiunto nel secondo dopoguerra. A ben vedere, la bicicletta, allora, rappresentò la metafora di quanto avveniva nella società: un gran movimento. Alla ricerca di lavori più remunerativi della mezzadria; rompendo definitivamente vincoli secolari imposti alla mobilità sociale, pressoché statica. Chi nasceva contadino ci moriva, e, spesso, sempre sotto il tetto natio o in abitazioni poco distanti.Nonostante la propaganda fascista spingesse per la diffusione delle automobili, a fine anni 40, in Italia circolavano poco meno di 4milioni di biciclette, mentre auto e motociclette erano poco presenti nei comuni rurali come Cortona. Più che la volontà di non motorizzarsi, miseria e povertà limitavano l’acquisto anche di biciclette. Ritenute conquiste ambite, dalle famiglie che se le potevano permettere. Molti possessori di biciclette le tenevano nascoste in casa, temendo d’esserne derubati.
Nel secondo dopoguerra – alla ripresa economica dalle macerie della guerra -, aumentata la necessità di locomozione, facendo sacrifici e usando anche le magre economie del pollaio, nelle ancor numerose famiglie contadine (a Cortona, rappresentavano più del 70% degli oltre 30mila abitanti), la bicicletta si rese indispensabile. Per andare ai mercati settimanali, dal dottore in farmacia dal veterinario dalla levatrice, a sbrogliare pratiche burocratiche in fattoria o negli studi professionali, concentrati nei centri maggiori. Luoghi a discreta distanza da casa, com’era lo stesso raggiungere le stazioni ferroviarie di Camucia e Terontola. Sottolineiamo, di nuovo, che gli abitanti di Cortona, fin oltre gli anni 50, superarono le 30mila unità, tanto per dare l’idea della massa brulicante in movimento.
Insomma, la bicicletta da mezzo di locomozione delle forze dell’ordine (maresciallo), del prete (anche se, agli esordi, la Chiesa ne proibì l’uso ai preti e alle donne), e di pochi altri, divenne obiettivo ambito d’ogni famiglia. Nel frattempo, il mezzo evolveva tecnologicamente. In virtù dell’industria che forniva bici ai campioni sportivi, divenuti popolarissimi bontà le imprese dei fantastici Fausto Coppi e Gino Bartali. Bici più leggere, col pignone a più cambi, freni a filo di acciaio in luogo dei freni a bacchetta, … Anche se le bici più diffuse erano dalla meccanica semplice. Una ruota dentata ai pedali, e nella ruota posteriore un pignone (ruota libera con corona dentata più piccola), freni anteriori e posteriori; in rari casi erano presenti le componenti luminose: “il dinamo”, “il lume”, e “il pomodoro” posteriore. La meccanica popolare era al risparmio. Distinte in due categorie: bici da “uomo”, con la “canna” tesa dritta dal sottosella al sotto manubrio; e da “donna”, in cui la canna interna di rinforzo era curvata in basso. Alla distinzione meccanica non corrispondeva sempre il sesso dell’utente. Per gli uomini era indifferente l’uso dei due modelli. Ma le donne stesse, al bisogno, inforcavano la bici da “uomo”, pedalando sotto-canna. Allo stesso modo, cavalcavano le bici bambini e ragazzi dalle gambe corte. Pur sacrificati in quella posizione, avresti visto ragazzini sfrecciare pedalando. Su quel mezzo spartano potevano salire anche due persone (o più, esagerando!). La “canna”, sormontata di lato (all’amazzone), con le gambe tutte da una parte, era destinata al passeggero.
I parcheggi a pagamento delle biciclette
Ricordiamo il film “Ladri di biciclette”, di Vittorio De Sica, che rappresentava quanto fosse preziosa la bicicletta nel secondo dopoguerra, e quanto i rischi d’esserne derubati erano alti. Perciò, a ridosso delle stazioni ferroviarie (Camucia e Terontola), sorsero depositi a pagamento. Un posteggiatore a Camucia fu il dirigente comunista, nonché ex sindaco di Cortona, Ricciotti Valdarnini. Anche altri si ingegnarono in quella attività, alle pendici collinari di Cortona, a Sodo, Camucia e Campaccio, non essendo tutte le persone in grado di pedalare fino al cocuzzolo di Cortona.
I PRIMI MECCANICI CORTONESI, RIPARATORI E VENDITORI DI BICICLETTE
Per imparare il mestiere di meccanico di biciclette non c’era scuola, se non tramite l’apprendistato presso officine avviate. In epoche remote, i riparatori di biciclette si specializzarono in tale attività via via che prese campo la diffusione del mezzo. Ma, in origine, le officine erano promiscue: un misto tra fabbro e meccanico, perciò, polifunzionali. Dove si tentava ogni genere di riparazione metallurgica e meccanica. Invalso l’uso in massa delle biciclette, il lavoro non mancò per alcuni decenni. Alle riparazioni, i meccanici aggiunsero il commercio di mezzi nuovi e usati.
Un tempo – va sottolineato – mezzi di locomozione o attrezzi da lavoro erano riparati fino all’impossibile. Quando cioè ne veniva meno il possibile riuso. Perciò, in tema di riparazioni, il lavoro era tanto. L’uso familiare promiscuo dello stesso mezzo – di più persone anche inesperte – prevedeva cadute e forature, su strade in prevalenza imbrecciate e in terra battuta, mentre i materiali non erano sempre di qualità, pregiudicando la durata delle parti d’attrito delle bici: copertoni, camere d’aria, raggi, freni, corone, catene, pignoni, pompe a piede o pompe a mano,… Avere un mezzo riparato, anche con segni evidenti come una saldatura rifatta, non era vergognoso.
Sartini Michele
Michele Sartini, classe 1939, ha iniziato a lavorare giovanissimo come muratore per poi aprire l’attività di marmista col cognato. Col trascorrere del tempo e l’avanzamento del boom economico, i suoi lavori sono entrati nelle case degli abitanti della zona. In tanti hanno avuto a che fare con questo uomo: buono, gentile, intelligente e simpatico. Michele era anche un grandissimo estimatore della Polisportiva val di Loreto, sempre presente con azioni e partecipazioni agli eventi sportivi. Il monumento in granito, all’ingresso dell’impianto, è opera sua offerta nel 1994 alla Polisportiva. Il suo hobby era collezionare mezzi di locomozione vintage, ed era un piacere entrare nei suoi garage per riscoprire molteplici mezzi ed oggetti degli anni passati. Con la sua passione, ha salvato dalla rottamazione centinaia di oggetti che, forse, erano passati per le officine dei meccanici che andiamo a descrivere, e che, oggi, rappresentano un patrimonio inestimabile. Purtroppo un malore improvviso, nel 2021, ce lo ha portato via ancora troppo presto, ma rimarrà indelebile il suo ricordo nei nostri cuori. Vogliamo dedicare questo ricordo alla cara moglie di Michele Anna, e alle figlie Manola, Manuela, Marcella, Mariella, che lui amava in modo speciale.
Domenico Trenti, detto Menco del Cerrina
Nato e morto a Cortona, 1912- 2002. Domenico Trenti, operando nei pressi di Campaccio, fu versatile in varie attività imprenditoriali, compresa la rimessa in loco di biciclette. In famiglia, ricordano la venuta notturna, al lume di candela, del prof Rino Baldelli a procurarsi da Domenico due copertoni di ricambio per auto, nell’immediato dopoguerra. Dunque, era già nota la sua qualità di trovarobe, compresi campanelli e altri pezzi di ricambio per biciclette. Molto dinamico, oltre ad aver allestito una qualificata officina meccanica per bici, si dedicò anche al commercio. Non solo di biciclette. Perciò, era conosciuto nella bassa Toscana (Arezzo, Siena, Grosseto) e nella vicina Umbria. Commerciava bici della nota marca milanese Olimpia, e i tubolari D’Alessandro. Nella sua officina, transitarono più meccanici e apprendisti, giovani. Alcuni cambiarono mestiere, altri proseguirono in proprio l’attività, altri ancora unirono il mestiere alla pratica sportiva, correndo in bicicletta. Domenico – è quasi certo – fu il primo organizzatore cortonese d’un gruppo sportivo dilettantistico col marchio proprio: “Trenti”. L’officina era retta dal meccanico Silvio Cortonicchi (Silvio della Colomba) – che seguitò in proprio il mestiere e, infine, si convertì al commercio d’elettrodomestici -, e dagli apprendisti: Angiolo Archinucci (Il Sordino), in seguito, apprezzato pozzaiolo; Camillo Manciati, poi fattore nel Senese; Evaristo Marconi e Giovanni Catani proseguirono in proprio. L’altro apprendista, Andrea Diacciati, discreto dilettante, fu pure campione regionale dilettanti a Viareggio. Diacciati era il campioncino del gruppo sportivo Trenti: gambe potenti ma poco tenace, si scoraggiava facile. Allora interveniva Domenico. Con voce sonora – standogli alle costole – gli lanciava urlacci d’incitamento. I ciclisti del Trenti parteciparono a gare in zona (a S. Marco, S. Angelo, Camucia) ma anche a gare più note: come le “Tre Valli Aretine”. Dove a Diacciati – in fuga sul Passo della Consuma – una foratura gli negò la vittoria.
Invogliati dalla presenza del gruppo sportivo Trenti, altri giovani si avvicinarono alla pratica sportiva, ma pochi superarono la prova iniziale obbligatoria: dieci giorni di seguito a pedalare chilometri in bici a ruota fissa, per formare massa muscolare. Il rischio di finire “cotti” era alto.
Il mio informatore, Erino Trenti, nipote di Domenico, ricordava dilettanti cortonesi impegnati anche in altri gruppi sportivi, quale il Frescucci, nipote di don Bruno, che correva per la “Fabianelli” di Castiglion Fiorentino, e Orlando Galletti, meccanico e corridore di talento. Che se la batteva alla pari con Giovanni Corrieri, gregario di Gino Bartali. Galletti, meccanico di bici, aveva l’officina a Cortona in via Guelfa. A Cortona c’era anche Dantino, che aveva l’officina dietro il distributore di Piazza Garibaldi a Cortona.
Superbo Rossi
Nacque a Torrita di Siena, dai genitori Amerigo ed Elvira Garzi, il 12 dicembre 1909. Superbo lo era di nome e di fatto, nella veste di riparatore di biciclette. Sul muro esterno della bottega – tra Piazza Sergardi e Via Lauretana – era appesa ogni sua mercanzia: bici usate, copertoni, manubri, ruote, cerchioni e altri materiali utili alle riparazioni. In diparte, era parcheggiata la sua Vespa bianca: sempre linda e allisciata alla perfezione. Da notare che, durante le giornate lavorative, mai nessuno lo vide indossare la tuta da lavoro e neppure il grembiule. Con ciò che segue, è possibile farsi un’idea delle caratteristiche dell’uomo tutto d’un pezzo: indossava pantaloni scuri ben stirati, camicia bianca con maniche rimboccate, cravatta scura, gli occhiali poggiati sulla punta del naso.
Qualche aneddoto ne completa il carattere.Un suo conoscente raccontava di quando – tramite il suocero – da Cortona portava all’officina di Superbo, a Camucia, materiali di ricambio per bici, e il conto da pagare. Al pagamento della merce, in fondo al suo laboratorio dal pavimento sterrato, Superbo si accostava a una catasta di cartoni, impilati perfettamente uno sull’altro, quella era la sua cassaforte! … Spieghiamo meglio: alzava uno di quei cartoni e, al punto giusto che solo lui sapeva, tirava fuori un rotolo cilindrico di denaro, dove spiccava il taglio lenzuolo da 10.000lire, della misura di cm. 14,6 x 6,3.
In qual modo migliore si sarebbe potuto definire quell’uomo, se non: superbo, orgoglioso e preciso? Quelle erano, in fondo, le sue caratteristiche salienti.
Purtroppo, un brutto giorno, il buon Superbo dovette chiudere baracca e burattini: un improvviso incendio incenerì tutto quanto! Così finì la sua storia da meccanico.
Morì il 10 marzo 2001. Abitava a Monsigliolo, con la moglie Silvia Nerozzi (detta Mimma) e la figlia Tecla.
Ruben Schippa
A Camucia – scendendo in basso in Via Lauretana – si trovava l’altro riparatore e venditore di bici, comprese quelle da corsa delle marche più note a quel tempo. L’artista delle due ruote rispondeva al nome di Ruben Schippa. Famiglia di origini perugine, nacque a Cortona il 26 marzo del 1906. Dei “biciclettai” camuciesi, forse, era il più organizzato. Concessionario della Legnano, la bicicletta al tempo più in voga. Ruben era il punto nevralgico dei giovani praticanti il ciclismo, emuli delle gesta dei campioni Bartali e Coppi. Dalle prime ore del mattino, la sua bottega si riempiva di clienti, molti provenienti dall’Umbria, e da numerosi corridori dilettanti. In una di quelle mattine, nel corso d’un allenamento, proprio Gino Bartali ebbe un guasto meccanico al cambio per cui ricorse alle cure di Schippa. Un fatto clamoroso avvenne dopo che il campione fiorentino entrò in laboratorio. Alcuni clienti presenti, con veloce passaparola, informarono l’esterno della celebre presenza. Si narra che trascorsi 7/8 minuti, tra dentro e fuori, intervennero una sessantina tra tifosi e curiosi, continuamente inneggianti, ad alta voce, il nome del grande grimpeur.
I figli si Ruben erano due femmine e due maschi. Al più giovane Gino (detto il Kid), gli fu imposto quel nome in onore a Bartali. L’altro aneddoto – che molti sportivi locali ricordano – è che Ruben Schippa fu tra i primi calciatori del Camucia. Si raccontava che Ruben si recasse ad allenarsi alla Maialina indossando spesso un maglione arancione. Quel fatto avrebbe ispirato i colori arancioni alla squadra Camuciese: le “Meranguele” (locuzione chianina per definire le arance).
In conclusione, bisogna ringraziare per le informazioni raccolte i figli del Kid, Giordana, Emma e, in particolare, Tiziano che ha portato una borsa di foto familiari.
Il fratello di Ruben, Renato Schippa, fu altrettanto stimato esperto meccanico di biciclette, ad Ossaia, dove aveva anche un distributore di benzina.
Giovanni Catani, detto Il Nanni o Il Baffo
Nato il 03/05/1921, morto il 26/03/1991. Iniziò l’attività alla scuola di Menco del Cerrina, passò poi a lavorare da Ruben Schippa. Si mise in proprio, dapprima, in via Lauretana davanti al cinema Cocchi. Qui faceva il rimessaggio di bici a favore degli abitanti della campagna (San Lorenzo, Montecchio, Centoia, Cignano, Fasciano, Gabbiano), che giungevano a Camucia transitando dal passaggio a livello ferroviario. Immessi in via Lauretana, lasciavano le bici nei negozi di Schippa o di Catani, per proseguire a piedi verso Cortona. In seguito, Nanni si trasferì vicino al passaggio a livello, in locali di proprietà Turini, dove lavorò fino alla pensione.
Molto bravo a costruire e centrare le ruote a biciclette e motocicli. Carattere introverso, di poche parole, bell’uomo, simile a un attore dai baffetti alla D’Artagnan. L’officina – nel capannone periferico a sud di Camucia, vicino alla falegnameria Marchetti – lo avvantaggiava rispetto a Schippa nel rimessaggio di biciclette, essendo la prima rimessa incontrata sul percorso dei campagnoli. C’è da immaginare che il vecchio sodale, Schippa, non fosse tanto contento della concorrenza.
Nanni fu anche direttore tecnico della squadra ciclistica “Germanvox-Wega”. Allestita dai fratelli Giorgio e Romano Santucci, con Ianito Marchesini nell’ammiraglia. In squadra, tra gli altri, un Sartini e Massimo Castellani considerato l’atleta di punta, fuorché in salita…
Nanni era una persona particolare: nervoso e sempre in tensione. A costui – come si suole dire – anche una rugia sembrava una trave! Bastavano cose di poco conto a mandarlo su tutte le furie; praticamente, il Catani era sempre incavolato.
L’episodio d’un mattino. Si presentò un certo Beppino, abitante a Fossa del Lupo, proprietario d’un “Guzzino” con cui si era fatto tutta la strada a piedi. Infatti, quel giorno, non c’era stato verso di avviare la moto. Nanni, lasciati gli arnesi sul banco, cercò sollecito di accontentare il cliente. Numerose furono le prove per riavviare il motore: cambio della candela, la corrente arrivava ma… niente! quindi altre prove, continue e faticose, cercando di mettere in moto il mezzo anche a spinta. Dopo ripetuti calci al pedale della messa in moto, purtroppo, non ci fu verso di accendere il motore… Al culmine della perdita della pazienza, Nanni svitò il tappo del serbatoio: era completamente asciutto…! A quel punto ci fu un’esplosione clamorosa: in primis, sparò una fila di moccoli variegati, improperi d’ogni genere rivolti all’ormai ex cliente, e, per ultimo, un minaccioso: levati dai coglioni! e qui non ci venire più!
Altri due episodi, invece, qualificano positivamente il suo mestiere. Un giorno Gino Bartali – avendo attaccato la bici al chiodo – giunse da Nanni per proporgli la vendita delle sue biciclette dal marchio “Bartali”. In poco tempo, l’affare fu concluso. L’altro episodio importante accadde dopo la disputa d’un “Trofeo Cougnet”. Si presentarono, all’esperto artigiano, il campione toscano Franco Bitossi accompagnato da un dirigente della Filotex, i quali proposero a Nanni di assumerlo meccanico al Giro d’Italia. Lì per lì Catani ne fu orgoglioso e lusingato. Però, per quel ruolo ambito, avrebbe dovuto lasciare suo malgrado per diverso tempo la famiglia… fatta quella riflessione, il Nanni non ne fece niente.
Evaristo Marconi, detto Varisto
Nato il 14 febbraio 1920, morto il 24 novembre 2005. Anch’egli iniziò la sua attività alla scuola di Menco del Cerrina. Nel 1955, si trasferì a Cignano, lavorando in una bottega nella zona di Ospizio, presso la famiglia Pucci. In seguito, si spostò presso l’abitazione di Fernando Faralli – dove c’era il sale e tabacchi e il distributore -, iniziando anche a vendere motocicli e bici.
Con l’abbandono delle campagne da parte dei contadini, e la conseguente mancanza di lavoro, si spostò a Camucia, in via Firenze. Continuando a vendere biciclette Bianchi, di cui era concessionario, e motorini: Garelli, Fucs, ItalJet, …
Al termine della sua attività – a Camucia in via di Murata -, negli anni ’90, cedette la bottega a Fortini Gianluca, odierno titolare del negozio di bici più fornito della zona.
Pasquale Brogioni, detto Pasquino
Nato il 12 aprile 1936. Meccanico al Sodo, poi a Tavarnelle. Apprese l’arte di meccanico da Vito Viti. Artigiano che aveva l’officina al Sodo nel palazzo dei Corbelli, lungo le ritte, davanti a villa Laparelli. Poi, Pasquino gestì in proprio l’officina. Infine si spostò – a fine anni 60 – a Tavarnelle, sotto la propria abitazione. Particolarmente amico di Armando Galletti, meccanico del Campaccio.
Pasquino era, al tempo stesso, appassionato cacciatore e profondo conoscitore della fauna selvatica, dedicandosi anche al soccorso di bestiole ferite o in difficoltà. Capace di curare e nutrire: tartarughe, faine, istrici, volpi, …, però, se commestibili, con lui, potevano finire anche in padella!
L’altra grande passione di Pasquino fu la politica. Per molti anni, nei fondi di casa sua, si riunivano gli attivisti comunisti del Pci; di cui, alla sua chiusura, ne fu orfano inconsolabile, come lo furono molti. Questa sua forte politicizzazione rossa non fu rara tra gli artigiani cortonesi. Basti ricordare che, durante il fascismo e nel dopo guerra, alcuni esponenti di punta comunisti furono artigiani. Uno importante fu Ricciotti Valdarnini – già ricordato per il rimessaggio bici e produttore di piastrelle, a Camucia –, e l’altro, Cesare Rachini, restauratore di mobili antichi. Le botteghe artigiane – si è già detto – erano luoghi di incontro molto frequentati, dove si parlava di tutto.
Santi Capecchi, detto Schiaccino
A Sodo, prima di Pasquino, lavorò un altro meccanico proveniente da Fratta, Santi Capecchi: gentilissimo e intelligente. Esperto nel montare il motore MOSQUITO – prodotto nel 1946 dalla ditta Garelli – su biciclette da passeggio, trasformandole in motorini economici. Anche Santi faceva rimessaggio di biciclette per gli abitanti provenienti dalle frazioni di Fratta, Santa Caterina, Fratticciola, Creti, Ronzano, incamminati verso Cortona. Santi, assunto dalle Ferrovie, abbandonò il mestiere. La rimessa di biciclette fu tenuta aperta da Camillo e Sofia Migliacci.
Interessante notare la scelta di molti meccanici nello svolgere l’attività in luoghi ai piedi della collina, a intercettare i campagnoli in difficoltà nel salire in bici a Cortona. Dove c’era l’Ospedale, il Comune coi suoi uffici, e il mercato settimanale. Lasciata la bici nei rimessaggi proseguivano a piedi, fino alle porte della Città. Dove taluni cambiavano le scarpe pesanti per indossare quelle ritenute meno rustiche. I titolari di rimesse che erano meccanici si prestavano a riparare i cicli, approfittando della sosta.
Mario Giusti
Padre affettuoso e sempre lieto, nasce a Cortona il 07/11/1929 da Andrea e Ida Toto Brocchi, ed ivi deceduto il 17/12/1992. La passione per la meccanica nasce terminata la scuola da apprendista presso l’autofficina di Moreno Crivelli, a Cortona. Per poi mettersi in proprio nei locali di via Nazionale, ed ancora in via Guelfa a Cortona. Infine, approda meccanico presso l’Autoservizi Autobus, della Società Cortonese. Nel 1969, rileva in via Nazionale, sempre a Cortona, un negozio-officina con varie tipologie di prodotti: articoli sportivi, biciclette, motorini, cambio gomme auto e moto, elettrodomestici, ecc. sapendo fare quasi tutto in ogni branca artigianale elettromeccanica. Era l’arte di arrangiarsi, ma in una specialità eccelleva: abilissimo meccanico di auto e moto e, soprattutto, dell’amata bicicletta. Che ha aggiustato e venduto per circa 20 anni, con rivendita dei prodotti Edoardo Bianchi, Legnano, Trarovi, ecc. La passione lo porta ad essere meccanico ufficiale della squadra ciclistica locale: la “Cortonese – Ristorante Tonino”; anche i figli, Giorgio e Silvano, entrano a far parte della bella squadra ciclistica Cortonese, con grande passione e motivazione.
Simpatico l’episodio successo in occasione della vittoria, ad Olmo, di Massimo Capecchi detto Tonio (ciclista della “Cortonese – Ristorante Tonino”), allorché, al suo arrivo vittorioso, il babbo lanciò in aria il cappello che ancora volerebbe per aria… infatti, non fu ritrovato!
Durante le gare ciclistiche, gli interventi di Mario erano veloci e professionali. Non solo vendeva biciclette, ma le costruì anche da sé: una bici-tandem da corsa a due posti, molto bella e veloce, (si può dire che in pianura era più veloce d’un motorino); e una bici-tandem Graziella a due posti, per villeggiatura al mare. Quando la stella nascente Jovanotti, Lorenzo Cherubini, fece i primi passi con successo nel mondo della canzone, Mario Giusti faceva il tifo per lui, felice e onorato di aver aggiustato biciclette a lui e ai suoi bravi fratelli. Mario non fu solo meccanico, ma cittadino molto impegnato per la “sua” Cortona e il territorio. Per diversi anni, fu Giudice di gare ciclistiche Enal-Dace (foto tesserino); Consigliere del Terziere San Vincenzo di via Guelfa; Consigliere dell’Azienda Autonoma Soggiorno e Turismo di Cortona; Rappresentante dei Commercianti; Presidente del Consiglio all’Istituto Professionale Femminile “G. Severini”.
Armando Galletti
(Marzo 1909 – Gennaio 2004). Nasce al Campaccio. Adolescente acquisisce abilità ed esperienza trasmessegli dal babbo Virgilio (1881 – 1954) nell’attività di fabbro, nelle branche: attrezzi lavorativi d’ogni genere, e ferro battuto artistico/ornamentale.
A 28 anni (1937), Armando viene assunto alla SAI AMBROSINI di Passignano. Assunzione subordinata alla perfetta esecuzione del cosiddetto “capolavoro”. Che in quella occasione fu la “squadra-riga”. Risultante dall’incastro a “coda di rondine”, disposto a 45° su due pezzi, uno “maschio” l’altro “femmina”, che, accoppiati alternativamente in un senso o nell’altro, risultavano in riga perfetta, o in squadra, dall’esatto angolo di 90°. Armando consegnò il lavoro due ore in anticipo, sulle cinque concesse per l’esecuzione della prova. Nei sei anni e cinque mesi alla “SAI”, svolse l’attività di “operaio qualificato aggiustatore”. I fatti dell’8 Settembre 1943 segnarono la chiusura della “SAI”, e, a fine ottobre dello stesso anno, Armando lasciò l’azienda mettendosi in proprio.
Iniziò aprendo bottega a Camucia in via Lauretana. Ubicazione oggi non identificabile per le numerose trasformazioni edilizie, lavorando da fabbro e riparatore di mezzi di locomozione del tempo, soprattutto biciclette. Rimase a Camucia 11/12 anni. Alla morte del babbo Virgilio, nel ’54, torna al Campaccio nella bottega paterna, dando continuità alla lavorazione tradizionale del ferro battuto, contemporaneamente impegnato nella crescente attività di meccanico di scooters e motociclette, la cui diffusione aumentava in parallelo alla ripresa economica.
Verso la metà degli anni ’60, tornato nuovamente a Camucia – che già stava rivelando i primi segnali del florido e veloce sviluppo – affittava un locale a pianterreno nell’edificio al tempo sede dell’ex-Mutua, ma lì la sua attività fu esclusiva sui motori.
Armando nutrì sempre grande passione per la bicicletta, in particolare per il ciclismo agonistico. Al passaggio delle corse si entusiasmava come un bambino. Passione trasmessagli da Orlando, fratello maggiore d’un anno. I due condivisero la pratica sportiva, partecipando alle prime gare paesane. Quando Orlando apparteneva ancora alle categorie giovanili dei non tesserati, prima di approdare, con buoni successi, tra i dilettanti, nella seconda metà degli anni ’20 del secolo scorso.
Negli anni ’70, fu il figlio di Armando a cimentarsi nel ciclismo agonistico, seppur a livello amatoriale. Armando, per passione della bici e per abilità, costruì al figlio un telaio da corsa, equipaggiato della stessa componentistica montata sulle biciclette dei professionisti. Fu acquistata una serie completa di tubi “Columbus”, dello spessore 0,4 mm. Armando approntò il telaio sulle misure antropometriche del figlio, fissando le congiunzioni (dopo sagomatura delle stesse), ai tubi ed ai forcellini, tramite “spinatura” prima della saldatura per brasatura. La brasatura consiste nel collegare i pezzi metallici tramite un metallo d’apporto, senza fusione dei pezzi da assemblare. Il metallo d’apporto in ottone, usato da Armando, penetra per capillarità tra le parti da unire. Fu necessario, prima del telaio, costruire la “dima”, onde assicurare il perfetto allineamento delle ruote. Particolare difficoltà risiede nella piegatura dei foderi della forcella, foderi che vengono forniti diritti. La forcella è parte complessa e fondamentale, in quanto costituisce il principale contributo alla guidabilità della bicicletta. È composta dai forcellini, foderi, rinforzi, testa e tubo sterzo. Dalla forcella dipende il comfort e la sicurezza della bici. Ma, quella del figlio, non fu l’unica bici da corsa costruita da Armando. Molti anni prima, all’incirca diciottenne, aveva già costruito un telaio da pista, con rapporto fisso, senza cambio né freni al fratello Orlando che, oltre a gare su strada, si cimentava anche in varie specialità della pista. Ci sono riscontri a testimoniare l’esistenza, negli anni ’20, di velodromi in provincia di Arezzo. Il più importante era a Campo di Marte ad Arezzo, dove sorgeva lo storico stadio “Mancini”, nell’area ex Standa e degli attuali giardini. Altri impianti per le riunioni in pista erano a Cesa e Marciano della Chiana. La bici, costruita al fratello Orlando, risultò molto leggera considerando i materiali a quel tempo disponibili e, quale ulteriore accorgimento, fu equipaggiata con cerchi in legno.
Adolfo Berretti, detto Dolfo del Beretta
Da Montanare, apice della Val d’Esse, dal figlio Giuliano – rinomato meccanico di auto storiche e nuove – ci giunge il racconto del babbo Adolfo Berretti (1917- 1992), descrivendone un percorso professionale particolare: fu anche riparatore di biciclette. Figlio di Giovan Battista, esperto di motori a vapore, Dolfo imparò a manovrare e mantenere in funzione le complesse macchine trebbiatrici del grano. Occupando intere estati in quel lavoro, anche caricando sulle spalle i pezzi delle macchine per condurle fino a luoghi impervi. In inverno, babbo e figlio, si occupavano di macchine per spremitura delle olive al mulino Brecchia di Mercatale. Dolfo, per mantenere la famiglia, si ingegnò in più attività anche contemporaneamente. Nel tempo, aprì un distributore di benzina; riparava ogni mezzo di locomozione meccanico, biciclette comprese; vendeva gas in bombole; riciclava oggetti. Ad esempio, coi bossoli delle bombe di cui si riforniva a Grosseto, Adolfo costruiva lumi a carburo. Prodotto molto richiesto. Basti pensare che negli anni Cinquanta ancora erano vaste le aree Cortonesi non elettrificate. Altro riciclaggio, di cui fu esperto Adolfo, quello dei motorini in dotazione ai paracadutisti alleati. Una volta scesi a terra, i paracadutisti avevano in dotazione piccoli motorini ripiegabili (come le biciclette Graziella), in modo da essere di poco ingombro, già carichi di miscela, pronti per la fuga dai pericoli. I soldati, una volta al sicuro, abbandonavano quei motorini in miniatura, ma efficienti. Dolfo ne andava alla ricerca, per poi rivenderli. Come si può constatare, l’arte di arrangiarsi non aveva limiti per chi avesse avuto abilità nell’uso delle mani e della fantasia. Come fu naturale, al venditore di bombole di gas domestico, attrezzarsi anche a costruire lampade a gas.
Frugando ancora nella memoria, Giuliano Berretti ricordava un altro riparatore di biciclette, Dino Caneschi, al Campaccio.
Il Campaccio di quei tempi fu veramente prodigo di esperti meccanici di biciclette. Non c’è da meravigliarsi. Se abbiamo inteso bene – durante la ricostruzione in periodo post bellico -, essendo sviluppata una mobilità di massa, in prevalenza di ciclisti, fu strategico per i meccanici insediarsi alle pendici del cono collinare di Cortona, dove, gran parte di viaggiatori, parcheggiavano la bici per proseguire a piedi. Nell’occasione, era possibile chiedere al meccanico qualche riparazione. In quella logica, al Campaccio fluivano ciclisti d’una vasta area comunale, comprendente la Val d’Esse, e le zone più lontane di: Ferretto Pietraia Terontola Riccio Ossaia Castagno,… frazioni e campagne molto popolose.
Fratelli Tariffi, Enrico e Giuliano
Giuliano Tariffi imparò il mestiere di biciclettaio da apprendista meccanico presso Ruben Schippa a Camucia. In seguito, col fratello Enrico, aprì un’officina a Ossaia, alla Chiassaia. Successivamente, a fine anni 60, i fratelli trasferirono officina e abitazione lungo la statale 71, dove aprirono anche un distributore di benzine.
Ciro Marchesini
Nella porzione cortonese della Val di Pierle, a Mengaccini, Ciro Marchesini aveva un’officina da fabbro e meccanico di biciclette. L’attività di Ciro, nel tempo, è evoluta in seno alla sua famiglia. Oggi, gli eredi lavorano infissi metallici.
Pasquino o Pasquale Neri, detto Pasquino del Fallani
In centro, a Mercatale – dove attualmente è collocato il bancomat della Banca Popolare di Cortona – Pasquino gestiva un’officina da riparatore di bicilette. Ancora un esempio di artigiano polivalente (al fine di procurarsi la pagnotta). Al mestiere di meccanico aggiunse l’attività di benzinaio e noleggiatore di auto da rimessa.
Gino Paci, detto Trainicche
Gino Paci nacque il 21 maggio 1910 in località Fratta da una famiglia di coltivatori diretti, terzo genito di cinque fratelli (tre maschi e due femmine: Giovanni, Maria, Gino, Giuditta e Palmiro). Fin da giovane, oltre aiutare i genitori nella conduzione del podere, aveva la passione per la meccanica, soprattutto di biciclette e moto. A venti anni prestò servizio militare come autiere per cui, oltre ad approfondire la sua passione, ebbe l’occasione di prendere la licenza di guida per camion. Tornato dal servizio militare iniziò la professione di meccanico di biciclette ed ebbe la fortuna di acquistare anche una moto di seconda mano. Dopo qualche anno fu richiamato alle armi, sempre come autiere, in occasione della guerra in Etiopia, per due anni circa. Una volta congedato, si rimise a fare la professione di meccanico, ma ancora una volta lo scoppio della seconda guerra mondiale – nel 1940 – lo vide sul fronte di Albania prima, e poi in Grecia e Jugoslavia, dove fu fatto prigioniero dai partigiani di Tito, che l’impiegarono come addetto al vettovagliamento e al bestiame. Partecipò suo malgrado alla liberazione di Sarajevo e, solamente alla fine dell’anno 1945, fu lasciato libero di tornare in Italia. Una volta a casa, aiutato dalla famiglia, fece costruire una piccola e modesta abitazione, accanto alla casa paterna nella frazione di Fratta dove installò la sua officina di biciclette. Per più di venticinque anni esercitò la professione di meccanico di biciclette, ma non solo. Veniva, spesso e volentieri, anche richiesto di aggiustare attrezzi da lavoro agricolo (ad esempio pompe irroratrici per verde rame) e utensili da cucina (paioli pentole brocche ecc.). Nella sua professione di artigiano, si prese cura delle biciclette da corsa dei corridori locali (Marzio Marziali, Loris Magi, Giuseppe Ferri ecc.) che correvano per lo più per le società ciclistiche Faiv di Terontola e Fracor di Levane. Maturata la pensione, continuò fin quasi alla sua morte – avvenuta nel 1996 – a prendersi cura delle biciclette di amici e conoscenti. Durante la sua attività di artigiano ha venduto le biciclette marca Legnano, Bianchi, e in ultimo la Vilier Triestina, inoltre i motorini 48cc di marca Cimatti e Benelli.
Infine, è giusto ricordare un aneddoto relativo al soprannome con cui era conosciuto da tutti Gino, ovvero: Gino de Trainicche. Si racconta che – nella seconda metà del 1800 – il nonno di Gino spesso trascorreva le notti in campagna, alloggiando al capanno, a “badare” animali e colture dei campi dai ladri. Durante una di quelle notti, si incontrò con il famoso bandito aretino Federico Bobini detto Gnicche. (Nato il 13 giugno 1845 a Colcitrone, morto in conflitto a fuoco con i carabinieri, il 14 marzo 1871, a Tegoleto) Pare che tra il bandito e Gino fosse nata una certa amicizia. Gnicche trascorreva parti delle nottate a parlare delle sue avventure rocambolesche. Da qui il soprannome Trainicche.
Per concludere, qualche spiegazione sulla composizione della lista dei meccanici. Nella fretta di stringere i tempi, ci siamo divisi i compiti: a Loriano la cura delle fotografie, a me, Ferruccio, la stesura del testo. Senza darci criteri espositivi, ogni nuova figura che ci veniva ricordata l’abbiamo subito inserita nel testo. Noterete che su qualcuno è venuto un racconto più dettagliato, mentre su altri abbiamo raccolto meno notizie. Ciò è dipeso da parenti e amici che si sono prestati ad aiutarci. Capirete le nostre fonti d’informazione leggendo i nomi dei collaboratori. Alcuni dei quali hanno fornito loro stessi resoconti che abbiamo trascritti con pochi ritocchi.
Perciò, il lavoro è frutto di un’estesa rete di collaboratori, che ringraziamo. Scusando, in anticipo, qualche lacuna o imprecisione, non voluta, causata dalla fretta.
Tino Lipparini, geologo esperto per l’Ufficio Ambiente del Comune di Cortona
Impegnato, come sono, a scrivere sul Comune modernizzato che raggiunse e superò i vicini in molti servizi, negli anni 80, Cortona ebbe due emergenze ambientali: carenze d’acqua potabile nelle frazioni principali: Cortona, Camucia, Terontola, e località lungo la dorsale acquedottistica; e invasi di liquami suini a cielo aperto, diffusi qua e là, che appestavano le falde freatiche; anche agli stessi allevatori.
Fu creato in Comune l’Ufficio Ambiente, consulente il geologo Tino Lipparini. Non ricordo chi l’avesse presentato. Curriculum professionale ricco: il numero 15 sulla tessera dell’ordine dei geologi testimoniava una lunga esperienza alle spalle.
I suoi studi – giacenti negli atti del Comune – individuavano possibili fonti cui attingere per potenziare gli acquedotti, compreso il principale. Come le captazioni d’acqua in piccole dighe di sbarramento sui torrenti in zona Valecchie, ed altre prese che non è necessario riferire. Risolta brillantemente la penuria d’acqua con nuovi pozzi a Montanare, sanate falle alla diga di Cerventosa, il progetto dighe a Valecchie fu accantonato. Però, evidenzio quell’intuizione lungimirante. Pensiamo ai fenomeni attuali di scarsa piovosità, per fronteggiare i quali sono indicate prioritarie, dalle autorità in materia, raccolte d’acque piovane prima ch’esse si disperdano. Di acqua, per usi civili e agricoli, negli anni a venire sentiremo parlare tanto per penurie gravi.
Lipparini fornì anche altri suggerimenti. Su come rimediare agli alti consumi d’acqua minerale nelle scuole, avendo individuato in montagna sorgenti d’acqua minerale; suggerì persino dove acquistare impianti d’imbottigliamento di seconda mano. Finito il mio mandato da Sindaco, quei suggerimenti rimasero sepolti nei cassetti. (Anche per la buona sorte dei venditori di acque minerali!).
Nei tre anni che Lipparini frequentò il Comune, ne apprezzammo competenze e versatilità nel rispondere alle più svariate domande sull’ambiente. Colpiti dal suo stile da gentiluomo. Longilineo, sobrio, pranzava con due uova al tegamino, schiena dritta pur prossimo agli ottant’anni; se estranei si affacciavano all’ufficio dove conversava con l’Assessore, scattava subito in piedi! salutando umile e rispettoso.
Sul dorso della mano aveva un grosso ponfo, chiedendogli perché non lo togliesse, rispondeva: “E’ una scheggia di guerra. Non la tolgo… è un monito continuo contro la guerra!” Allo scoppio della seconda guerra mondiale, si trovava per lavoro in Yemen. Esperto di prospezioni idriche e petrolifere, il Sultano lo confinò in un’ala del palazzo con donne del suo harem. Non intendeva farlo partire per l’Italia, dove Lipparini invece era intenzionato a tornare. Finalmente, riuscì a fuggire. Aveva già discrete esperienze di traversate desertiche. (Nella sua lunga vita, confidava d’aver percorso gran parte dei deserti afroasiatici, gli mancava il Gobi, lacuna deciso a sanare). La fuga dallo Yemen si concluse in Libia, occupata dalle truppe Inglesi.
Nato nel 1905, antifascista, nell’ottobre del ‘26 finì in prigione sei mesi: al buio, e a pane e acqua. Sospettato complice di Anteo Zaniboni, giovane anarchico attentatore di Benito Mussolini, in visita a Bologna. Tino apparteneva alla terza generazione di non battezzati. Tradizione familiare iniziata dal nonno bottaio a Roma, sotto il Papa re. Studente universitario, in bicicletta, armato di corda con gancio per arpionare i cassoni dei camion, visitò l’Est Europa fin dentro l’Urss. Laureato in Medicina e Chirurgia, s’imbarcò clandestino in un mercantile. Scoperto, fu mezzo alla ramazza. Scoppiata un’epidemia nell’equipaggio, si offrì di curalo con successo. Così, fu tolto dalla ramazza. Laureato in Geologia, seguitò a vagare alla scoperta del mondo sfruttando soprattutto gli studi recenti: sul suolo e sottosuolo.
In Libia, nominato ufficiale dagli Inglesi, gli fu assegnato il comando di truppe di fede musulmana, del subcontinente indiano, per risalire in armi l’Italia, dal Sud. Lipparini vide che i soldati non usavano fucili ma l’arma bianca… Le cartucce, unte di grasso di maiale, si rifiutavano d’usarle. Quel metodo non prevedeva prigionieri: i nemici erano finiti sul posto! Alle rimostranze di Tino, risposero: “Se non ti sta bene, farai la stessa fine!” Durante la direzione all’Eni, Enrico Mattei, che investiva sui giovani, dette fiducia e amicizia a Lipparini: timido, semplice, già esperto di Yemen e Libia. In Iran, Lipparini, imbrogliando le carte topografiche agli Inglesi, fece ottenere ad Eni le migliori aree dove estrarre petrolio.
Nella Sala del Consiglio Comunale, Lipparini seguì, con l’assessore Fernando Ciufini, un convegno interregionale (Tosco-Umbro) sull’inquinamento suinicolo. Calcolati a Cortona 100mila suini, equivalenti per liquami prodotti a 1milione di persone. La temperatura fu alta tra Allevatori ed Enti Locali. C’era il Regolamento Comunale sugli scarichi, ma non essendo retroattivo, impediva casomai nuovi insediamenti, ma sugli esistenti era un’arma spuntata. Oltre lo scontro, si pensò anche a collaborare: prospettando soluzioni realizzate in Nord Italia. Il tempo venne in soccorso a risolvere il conflitto: tra interessi economici e territorio costellato di laghetti di merda. Ferito nelle sue qualità: estetiche, idropotabili e puzza diffusa.
Di quegli anni, resta tra i tanti ricordi il talentuoso geologo Tino Lipparini, di vedute attuali, gran signore, modesto, come sanno essere i sapienti. In età da pensione, per mantenere due mogli, ancora percorreva l’Italia in treno (era senza patente), per suggerire rimedi a emergenze ambientali. Aveva promesso il dono della sua biblioteca al nostro Fernando, che fu impedito da un funesto incidente domestico. Tino morì all’improvviso (1991). Precipitò rovinosamente le scale di casa. Su Internet, al prof. Tino Lipparini sono dedicate pagine dense di vita opere titoli onorifici e accademici curate dal Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche (SIUSA).
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Lorenzo Valli e la nostalgia della montagna un tempo felice
Erede di un’antica famiglia terriera di Vaglie, proprietari d’una chiesetta, il giovane Lorenzo Valli girò per Italia prima di tornare alla montagna natia. Terzogenito di quattro figli, è stata un uomo fortunato, tutta la vita circondato da belle donne: tre sorelle, moglie e due figlie affascinanti (la famiglia è nella foto). Nel Dopoguerra, i figli della montagna dovettero scendere a Cortona per proseguire gli studi, dopo la quinta Elementare. Tanto da riempire vari collegi e il seminario. Lorenzo, messo nel Collegio Don Orione alla Bucaccia, frequentò l’Avviamento e il Professionale Agrario dei professori Celestino Bruschetti ed Evaristo Baracchi, costui, a dir suo: “un pozzo di scienza”. L’usanza d’inviare i figli a studiare in seminario creò molti preti montagnini: Franco Casucci, Antonio Anderini, Napoleone Fruscoloni, nati prima di Lorenzo. Ma tra loro c’era chi in seminario non stava tanto volentieri come l’Anderini, ribattezzato “Il Gatto di Tornia”. Sapendo l’abitudine del babbo di venire il sabato al mercato di Cortona, il pomeriggio mentre stava per risalire a Tornia più volte trovò il figlio Antonio attaccato dietro al baroccio, come un gatto!
Erano gli anni Cinquanta. Allorché ci fu l’esodo massiccio, dai monti e dal piano, di contadini morsi dalla miseria verso aree industriali toscane (Prato, Pistoia, Firenze), col miraggio: gli anziani d’ un podere, e i figli del posto in fabbrica. Così, in montagna, decaddero economia società e un ambiente meraviglioso: terreni, coltivati a terrazze, produttivi di buon vino olio mais frumento, che, uniti alle risorse del bosco (castagne legna funghi), sfamarono la gente per secoli. C’era miseria, ma anche buon umore, specie quando dal Piano salivano ragazze e ragazzi alla raccolta delle castagne, le “brige” dei campagnoli; le cui stagioni finivano con la balla piena di brige sulla canna della bicicletta. Le sere, bastava un organetto a scatenare danze e amori: effimeri, o conclusi in matrimoni. Mentre i genitori avrebbero voluto fargli proseguire la tradizione familiare di coltivare i campi, Lorenzo scelse d’immergersi in mondi diversi: lavorando alla recezione degli ospiti in grandi alberghi d’importanti città italiane (Perugia e Roma). Finchè, richiamato dal dovere di assistere i genitori invecchiati, s’impiegò, superando un concorso, all’Ospedale di Arezzo. E vi rimase, in ambito Usl, fino alla pensione. Anche se il suo rapporto coi campi si limitò alla cura con passione dell’orto di casa. Tanto che il suo cordone ombelicale con Vaglie, allentato per breve tempo, non s’interruppe mai. Dove la vita mutò, lenta e spietata, imprimendo in Lorenzo nostalgie sul mondo della fanciullezza. La vita in montagna, oltre a fenomeni negativi (miseria e bisogni primari insoddisfatti), perse di qualità: quell’equilibrio costante dei ritmi naturali nella vita semplice, e quelle ampie pause di tempo dedicate alla cura delle amicizie e a festose combriccole.
La saga dei Valli varrebbe un romanzo, per come la racconta Lorenzo. Impegnati in varie professioni (insegnanti, medici, avvocati,…), gran parte emigrarono. E le relazioni familiari non sempre rimasero improntate ad amicizia e lealtà. Al fondo d’ogni diatriba: beghe finanziarie e di possesso – come accade in tante famiglie. Ciò non toglie che gli uni non sapessero le vicende degli altri, anche senza frequentarsi. Come, ad esempio, Lorenzo ricorda la storia di Bruno Valli, citato per fatti partigiani ne La Piccola Patria, di Pancrazi. Affiliato alla Brigata Pio Borri, diresse un gruppo di partigiani nella montagna Cortonese. Laureato in Medicina e Chirurgia, allievo di Paride Stefanini, divenne uno stimato chirurgo d’urgenza al Policlinico di Perugia.
A Lorenzo, riaffiorano pure aneddoti curiosi sul cosmo rustico vissuto. Come la storia di tal Zepponi che, pescando di frodo, gettava in acqua veleni per far venire a galla i pesci. Oltre i pesci, fece fuori anche qualche pecora, abbeveratasi al fiume. Denunciato, fu colto sul fatto dalle Guardie. Raccomandatosi all’Avvocato, gli fu suggerito di presentarsi dal Giudice scarmigliato e malvestito, il più sciatto possibile. L’Avvocato difensore, sfruttando le apparenze, disse dello Zepponi ogni male possibile: demente, pericoloso,… invocando clemenza per lo sciagurato degno di cure psichiatriche! Zepponi fu assolto, anche se scontento della figuraccia. Il popolo maligno sospettò che ad ammansire il Giudice si fosse mossa la sua stessa moglie…
E altre storie insolite, di Lorenzo, tra realtà e mito. Come quella su Luca Signorelli e la tela ad olio raffigurante s. Marta. Si tramandava che il Pittore fosse originario di Vaglie. Divenuto famoso, non avrebbe sciolto i legami col paese natio. Anzi, al Parroco della Frazione donò l’effige di s. Marta, chiedendo di dedicarle una cappella. Che fu costruita. Finché il terremoto, a fine Settecento, la distrusse, e con essa scomparve la tela. Un Legato pontificio obbligò il Valli a ricostruire la cappella, quale proprietario del terreno su cui era stata eretta; e, a ogni ricorrenza della Santa (30 gennaio), l’obbligò a ordinare tre messe, nella chiesa parrocchiale, delle quali una cantata. Il quadro recuperato tra le macerie, ritenuto di scarso valore, fu venduto a Firenze a un amante d’arte. Morto lui senza eredi, del quadro si persero le tracce. Originale è anche il racconto di Lorenzo sui fatti precedenti la “Strage di Falzano”, dove i Tedeschi uccisero con la dinamite undici persone serrate in una casa e altre incontrate per strada, durante un rastrellamento per vendetta. Questa versione sarebbe diversa da quella ufficiale, che definisce la Strage: in risposta a un’azione partigiana. “Soldati Tedeschi, percorrendo la strada che da Città di Castello va a Cortona, all’altezza di Falzano (vocabolo Aiola), viste case contadine vi si diressero, forse, in cerca di viveri. Sul posto, contadini intenti a mietere il grano vedendo gli armati si gettarono a terra nascondendosi tra il grano alto. Un giovane spettatore, traversato un bosco vicino e giunto alle case nei pressi, raccontò quel ch’aveva visto. Alcuni di quei contadini, armati di fucile da caccia, raggiunti i Tedeschi li sopraffecero in una sparatoria”. La ribellione, dunque, sarebbe stata contadina, e non dei partigiani.
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Christian Reinhardt artista intellettuale contadino, giramondo riparato nelle colline cortonesi
Christian Reinhardt è accasato alle pendici di Ginezzo, sopra Valecchie. Da anni ha scelto quel buon ritiro, dopo aver vagato pel mondo: USA Germania Francia altri Paesi Europei URSS Ucraina Bielorussia. L’esodo massiccio da colli e pianure cortonesi, nel Dopoguerra, creò l’enorme vuoto di tante case, il cui valore ri-abitativo primi a coglierlo furono gli stranieri. Amanti dell’ambiente del clima della quiete del cibo e dell’ospitalità, per loro, a costi allettanti. Il primo Reinhardt in Valdichiana, a Castiglion Fiorentino, giunse suo padre, Wolfgang. Produttore di film di successo: La famiglia Trapp (’56) Freud passioni segrete (’62) e Ludwig II° (’55), che ispirò il Ludwig (’73) di Luchino Visconti. Christian ha una storia familiare di artisti famosi, che ci illustrò dopo averci ricevuto. (Ero accompagnato da Fernando Ciufini, suo amico di lunga data). Nelle sue vesti odierne di intellettuale e contadino in scala ridotta (non alleva più mucche per limiti d’età), affiancato da un’assistente coreana gentile e graziosa. Il nonno paterno Max, proprietario a Berlino di due teatri e un castello, le cui sale adattò per svolgerci spettacoli, fu regista attore produttore drammaturgo teatrale e regista cinematografico. Esponente del teatro proletario, per alcuni però non troppo comunista, pur avendo firmato l’articolo a favore degli anarchici Sacco e Vanzetti, insieme a Thomas ed Heinrich Mann, e messi in scena Schnitzler e Wedekind, due macigni lanciati nello stagno del teatro borghese. Max, di origini austriache, fu tra i fondatori del noto Festival di Salisburgo, prima di fuggire con la famiglia negli USA, nel ’37, da ebreo perseguitato. La nonna, moglie di Max, Helene Thiming, austriaca, fu attrice teatrale e di cinema, figlia e sorella di noti attori e registi: Hugo, il padre, e i fratelli Hermann e Hans. Fuggiti in USA, i Reinhardt persero ogni proprietà; ricominciando daccapo le carriere artistiche ottennero successi anche nel Nuovo Mondo, nelle stesse attività svolte in Europa. Nato a Santa Monica in California nel 1945, Christian, nel ’51, tornò in Germania. Dove alternava, ogni giorno, frequenze a scuola e al podere d’un contadino colto, che lo fece innamorare dei lavori agricoli e dell’allevamento delle mucche.
Dalla campagna, la famiglia si spostò a Monaco, dove il padre Wolfgang produsse film di successo – già citati – come La famiglia Trapp; dall’autobiografia di Anna Augusta Trapp, cantante, ispiratrice del musical The Sound of Music, da cui fu tratto l’altrettanto famoso film Tutti insieme appassionatamente, con Julie Andrews.
Alla maggiore età, Christian fu assistente di un noto fotografo a Monaco, affinando la tecnica. Tra il 1966/67, compì lunghi viaggi. Accampandosi in tenda, visitò l’URSS in sei settimane di vacanza. Minsk, Smolensk, Tula, Mosca (scoprì allo stadio l’uso di toilet senza separé, che si rifiutò d’usare!), a Kiev fu colpito dalla gentilezza delle persone. Dopo Monaco si recò a Parigi, lavorando nella pubblicità in più studi e per ditte diverse, tra cui Christian Dior. Negli ambienti di modelle, occhi chiari alto e schietto (com’è ancor oggi) conobbe quella che, divenuta sua moglie, gli dette tre bei figli: due femmine e un maschio. Tornato a Monaco, si mise in proprio. I soggetti preferiti erano: poveracci e personaggi incontrati per strada (Street photography). Scoprendo, tra l’altro, la “tristezza dei turisti” nei loro volti annoiati. Dopo Monaco andò a New York dal fratello Michael, fotografo pubblicitario. Acquistata una piccola Leica, tornato a Parigi, riprese a fare foto di strada, privilegiando il bianco-nero. Di nuovo a New York, grazie alla fama di nonno Max, fu ingaggiato da una art director, d’origini austriache, che gli assegnò quattro pagine sulla rivista House & Garden, sufficienti a garantirgli da vivere e coltivare le foto di strada. Nata la prima figlia, smise di guadagnare con le foto allevando mucche, acquistata un’azienda agricola in Minnesota. A quegli anni risalgono le foto pubblicate in Reflections, New York, 1976-80, editore Benteli. Nel 2001, pubblicò il resoconto fotografico Belarus d’un viaggio a fine anni Novanta in Bielorussia, editore Teti, con testo di Mario Geymonat. La sua fotografia evidenzia le contraddizioni sociali della realtà: a fianco del benessere cresce la povertà, che si tende a nascondere o minimizzare. Fenomeno che non riguarda solo i paesi poveri, ma il contrasto stride ancor più nei paesi ricchi, come in USA, dove gli homeless sono in crescita paurosa. In occidente, a fianco dei poveri, egli nota, anche in chi guadagna 100mila dollari, il continuo terrore di perder tutto. Membro di famiglia politicizzata ebrea perseguitata e progressista, lo inquietano vicende recenti: il declino USA (in fuga dall’Afganistan, è la fine dell’Impero?) e le mire espansionistiche europee verso Est, ispirate dalla Germania. Christian – a Valecchie – dedica il tempo libero dal lavoro dei campi alla riflessione politica, ripercorrendo negli appunti le fonti da cui scaturiscono idee al 75enne che ha vissuto nel mondo. Colpito, come molti della sua generazione, dal dramma della guerra in Vietnam; dalla repressione, ispirata dal nord America, dei movimenti di riscatto politico in Centro e Sud America; fino alle tragiche vicende delle Brigate Rosse tedesche: la Rote Armee Fraction di Baader e Meinof. L’esperienza vissuta e le letture di Christian – Aristotele, Epicuro, Marx, Engels, Hobson, Lenin – riverberando nel suo saggio in elaborazione “Il puto di vista di un idiota, in senso greco: uomo comune che cerca di capire”, suggeriscono il riscatto umano: trasporre, a scala globale, la sua personale visione “comunista” della vita. Il “progresso”, orientato a creare sempre maggiore plus valore, distoglie l’umanità dalla giustizia sociale, mutandola in consumista forsennata, negandole una vita scandita dai ritmi naturali, mirando al profitto fine a sé stesso. Basti dire che nel 2020 sono stati spesi 630 miliardi di dollari nella pubblicità: per indurre inappagamento nel lavoratore, spinto al consumismo senza fine. In definitiva, all’infelicità. Infelice è: a chi manca qualcosa. Ma aspettiamo la pubblicazione del saggio, proponendoci di leggerlo, per meglio intendere le riflessioni di Christian Reinhardt comunista utopista.
fabilli1952@gmail.com
libro fotografico di Christian
Angiolo Galletti, in Confartigianato, si occupa di solidarietà, anziani e disabili
Dopo astinenze forzate, riprendiamo incontri amichevoli anche desueti, come ho fatto negli uffici di Confartigianato, sindacato di servizi alle imprese, a Camucia, presso Massimo Sciarri (figlio del mitico fotografo cortonese Fonzio, da cui ha ereditato sguardo e simpatia). Dopo un quarantennio, vi ho ritrovato Angiolo Galletti, che, in quel sindacato, è responsabile provinciale dei “servizi alle persone”, in Anap e Ancos. Confartigianato provinciale ha, circa, 5mila aziende iscritte e 6mila soci.
Prima dell’incontro, ebbi le stesse sensazioni di Angiolo: “Alla nostra età è raro incontrare persone con cui siamo stati ragazzi”. Ero interessato a ciò di cui oggi si occupa, e scambiare con lui opinioni sulle vicende del tempo che ci ha visto lontani.
Con Angiolo, settantacinquenne, ho condiviso luoghi d’origine, in Val d’Esse. Quasi vicini di casa, lui del Passaggio, io di Piazzano. A sua insaputa, mi fu d’esempio nel seminario diocesano: per compostezza e riservatezza. Lui ne usciva, io vi entravo. Stesso percorso: dalla quinta elementare al ginnasio. Dopo il seminario, le nostre strade si distinsero. Angiolo, nella brillante carriera militare, salì molti gradi partendo dal basso, fino a diventare ufficiale artigliere. Cremona, Bergamo, Arezzo, Roma, Firenze, le sedi di lavoro, mentre col cuore restava in Val d’Esse. Si accasò, in Arezzo, con Oriana, tra le signorine più graziose in Val d’Esse.
“Raccomandato” da Fanfani – dirigente del Ministero della Difesa – nella caserma Cadorna di Arezzo, Compagnia Comando – pressoché composta di soli raccomandati! – negli uffici della maggiorità, il maresciallo Galletti favorì il mio distacco, per un mese, al Comune di Cortona; dov’ero Vigile Sanitario in aspettativa per leva militare. Era urgente trovare le cause dell’inquinamento batterico nell’acquedotto comunale, che risolsi. Poi, con Angiolo fummo in lizza elettorale alle comunali dell’80, su sponde opposte: io capolista comunista, lui nella lista democristiana. Poco interessato a essere eletto: non fece campagna elettorale. Anni fa, su Facebook e sulla stampa, scoprii il suo incarico a capo del sindacato pensionati Anap.
A cinquantatre anni, smessa la divisa militare, il presidente di Confartigianato, Gianni Ulivelli, gli offrì l’incarico che ancora ricopre. Sempre di potere gestionale si trattava, però, non disgiunto dal necessario afflato sociale. Che se non ce l’hai duri poco, o non sei credibile, in quel ruolo. Oltre venti anni, dedicati a offrire sostegni a persone anziane e svantaggiate, è un bel traguardo. Oltre a presiedere Anap, egli dirige il comitato provinciale di Ancos (Associazione Nazionale Comunità Sociali e Sportive). “Un’Arci minore, ma molto dinamica”, così l’ha definita Angiolo. Potendo usufruire del 5 per mille, è in grado di spaziare in vasti campi della promozione sociale, e in modo diffuso sul territorio: dalla cultura al tempo libero, dal turismo all’assistenza sanitaria e sociale,… E’ ampia la lista di convenzioni attivate a favore degli iscritti, in tutta la provincia: cure mediche, autofficine, assicurazioni, farmacie, ottiche, ortopediche,…basta entrare nei siti Confartigianato per averne un quadro completo. Avvalendosi d’una cooperativa sociale, offre prestazioni alle famiglie degli iscritti, come l’assistenza ai ragazzi disabili (nei doposcuola). Nel 2015 furono erogate 2421 ore di assistenza media a persona, a Cortona, Foiano, Castiglion Fiorentino. Standard assistenziali che, nel tempo, in quei Comuni e per gli stessi trattamenti, sono molto cresciuti. Senza contare altri aiuti, prestati a famiglie bisognose, non coperti dall’assistenza pubblica. Va precisato che, oggi, l’utente Confartigianato (impresa o pensionato) può non essere artigiano, ma anche di altri settori; come sono superati gli steccati ideologici del passato nell’iscriversi a questo o a quel sindacato. Le persone vanno dove si trovano meglio. O, come sottolinea Angiolo, dove la “tessera di iscrizione ha valore”: per qualità dei servizi, offerte di risparmio e rispetto dell’utente.
Nel dimostrare la varietà delle iniziative prese, e il dinamismo di Ancos, Angiolo ha esibito due loro prestigiose pubblicazioni: “Vittorio Fossombroni uno statista fra due secoli”, curato da Marco Baglioni, Lucia Bonelli Conenna, (2010), e “Paolo Antonio del Bivi e il suo tempo – Un musicista Aretino contemporaneo di Giorgio Vasari – Arezzo, 1508-1584”, curato da Luciano Tagliaferri, (2011).
Mentre Galletti m’informava sui loro organismi che si prendono cura di persone e famiglie (meno male che esistono in tempi di individualismo esasperato! a combattere la solitudine, spesso aggravata da povertà dignitose e silenti), mi tornavano in mente le sue ascendenze che ebbi familiari.
Suo nonno e il babbo, macellai, ricercati per porchette eccellenti; la cui ricetta, trasmessa al Camorri, il giovedì spopola al mercato di Camucia. Dove Angiolo era in procinto di recarsi per rifornirsene. Suo fratello, Luca, che da bambino frequentò la mia famiglia, forse al seguito del babbo norcino (ho le foto con lui e mio nonno Beppe), ha fondato con la moglie un’impresa artigiana di moda ad alto livello. Il loro figlio, Alessandro, frequentando la stessa palestra, stuzzicò la curiosità di mia moglie avendole raccontato che in fabbrica stavano lavorando abiti di Brunello Cucinelli.
Più fortunata dei figli, sulle opportunità di lavoro, la nostra generazione postbellica ha assistito a mutazioni epocali. Per prima, quella di uscire dall’alveo dei mestieri familiari che, invece, furono costretti a seguire i nostri genitori. Oltre a osservare con chiara soddisfazione che, oggi come ieri, molti di noi, nei rispettivi ambiti, si impegnano ancora rendere la società più equa, pur nuotando contro i marosi del liberismo. Dal momento che visioni del mondo diverse non hanno impedito di convergere sugli stessi fini umanitari. Pur schierati su fronti ideali diversi, vecchi democristiani e comunisti, ci rispettiamo e lavoriamo per obiettivi analoghi, esigenze popolari: lavoro, istruzione, salute, e uno Stato civile che non lasci indietro nessuno.
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“La scelta – Storia di un segreto”, di Melania Mastroianni, penetra nel profondo il mestiere di vivere
Melania Mastroianni, conosciuta per un libro e amicizie comuni, gentilmente, mi ha inviato il suo romanzo d’esordio chiedendo il mio parere. Starò volentieri al patto, senza forzature.
Il libro, “La scelta – Storia di un segreto” (ed. Etabeta), si legge bene. Intanto perché rientra nel genere che preferisco: ego storie, vita reale, molto più intriganti di cervellotiche fiction. Scritto con tecnica narrativa originale, conduce all’ultima pagina senza stancare, anzi, offre continuamente spunti di riflessioni esistenziali. Qualità distintiva tra una lettura buona o mediocre. Avvolgente e confidenziale, permette di assistere a gioie, drammi, controversie nella vita dei protagonisti, mediati dal dolce incalzare della voce narrante femminile. Nonostante che motivi di disagio ci sarebbero.
Basti pensare alla vicenda del segreto – nel sottotitolo -, maturato in contesti siciliani mafiosi, vendicativi e cruenti, pur a distanza di tanto tempo e, aggiungiamo, per futili motivi (questioni di corna). In ciò, le mafie non si discostano dai torbidi disvalori che albergano nella pancia del nostro paese, in tal senso, squallido e regressivo Ambiente in cui crebbe il protagonista maschile del romanzo. Che, però, rimase indenne, diremmo prodigiosamente, dal malaffare. Anzi, mosso da ideali di giustizia e legalità, finì per vestire la divisa militare in una brillante carriera. Del suo segreto, l’uomo ne fece parte, in età matura, alla donna che oltre al cuore ne aveva conquistato la piena fiducia. Amore maturo che la protagonista sentì come porto sereno: da “donna irrisolta” a persona soddisfatta e felice, padrona del suo destino.
La protagonista svela intimi risvolti. Dagli sbagli e ferite di una gioventù inquieta e amareggiata da incontri sentimentali deludenti; lo stesso che le capitò nel matrimonio, e nella rigida educazione conformista borghese dei genitori napoletani. Famiglia in cui l’anacronismo moralistico si congiungeva alla ferma volontà di imbozzolare la crescita dei figli su binari tristi. Stigmi familiari da cui emanciparsi, per i figli è, in molti casi, fatica di Sisifo.
Il romanzo ha i pregi della narrativa esistenziale: senza finzioni, descrive l’apprendistato del mestiere di vivere. Dove il veliero pian piano recupera la guida sicura del suo nocchiero, spinto, infine, da venti favorevoli. La Scrittrice è lucida nel ripercorrere il viaggio, fatto dai personaggi, nei tormenti e scontenti. Che, poi, sono gli stessi condivisi da donne e uomini della generazione post bellica di Melania. Generazione calata in mutamenti radicali, che pur prodighi di novità positive (socioeconomiche, culturali, di costume), spesso, hanno travolto i meno attrezzati ai cambiamenti.
La mia preferenza per questa letteratura deriva dall’efficacia nel descrivere la realtà. Certo è che il romanzo veristico espone l’Autore ai rischi di riferimenti autobiografici fin troppo profondi. Come, forse, pare il caso di Melania. Scrittrice schietta, scevra da falsi pudori, che dona al lettore l’occasione di intravederne aspetti reconditi, dando a intendere come lei stessa abbia superato e vinto tante prove. Quasi fosse, il suo romanzo, un invito a emulare la protagonista alla ricerca della felicità. Quantomeno dispensa fiducia nella vita, a volersi bene, dimostrando che l’amore non ha età, ed è lecito per ciascuno sperare, sempre, in svolte gratificanti al proprio destino.
La narrazione di Melania, di impronta femminile, supera i canoni letterari in cui le scrittrici si adeguano agli schemi classici del romanzo, storicamente, affinati dagli uomini. Non si tratta di femminismo letterario, bensì di forma espositiva moderna, apprezzata e dibattuta anche in recenti festival letterari. Anche per queste qualità, il romanzo di Melania merita di essere letto.
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Riccardo Torresi, diplomatico in Paraguay, descrive quel mondo agli antipodi
Studioso brillante di trattati internazionali, partito da Terontola da un decennio, incontrai l’ultima volta Riccardo Torresi addetto commerciale presso l’Ambasciata italiana del Paraguay in Asuncion. Il Sud America ha molti legami con l’Europa e in particolare con l’Italia, avendo accolto grandi quantità di nostri emigrati, della vita dei quali e di quel mondo parallelo non abbiamo spesso conoscenze sufficienti. Salvo sapere che questo o quel calciatore sudamericano è oriundo italiano, giocando al calcio in nazionale. Giungono notizie frammentarie sui media dei paesi maggiori latinoamericani, quasi assenti i minori come il Paraguay. A cuscinetto tra grandi nazioni (Argentina, Brasile, Bolivia), senza sbocchi al mare, gran produttore agricolo (soia), territorio vario per emergenze ambientali (foreste, fiumi, cascate dell’Iguatzù, praterie), popolato da flora e fauna spettacolari. Ho posto a Riccardo alcune domande per aggiornarci su quella realtà interessante, proiettata anche a conquistare il turismo.
Partirei sullo stato della pandemia da coronavirus
Ad oggi, si registrano circa 400.000 contagi e oltre 11.500 decessi. Dopo un iniziale successo nel contenimento della pandemia con dati tra i più bassi in Sudamerica, la situazione nel corso dell’anno si è deteriorata per un aumento del tasso di contagio, per mancanza di forniture, medicinali e per una campagna vaccinale che sembrava inesistente. Il peggioramento del contesto generale del Paese è sfociato in proteste da parte dei cittadini che manifestano la propria insoddisfazione e malcontento nei confronti del governo. Purtroppo, ancora oggi, resta inefficiente la politica dei vaccini. Al momento, e questo dimostra quanto enorme sia la differenza qua tra classe agiata e “popolo”, é stato evidente il fenomeno del turismo vaccinale verso Miami. I paraguaiani di classe alta sono infatti andati a vaccinarsi negli Stati Uniti.
Attuali rapporti politici e scambi commerciali tra Italia e Paraguay
I rapporti tra Italia e Paraguay sono ottimi e puntellati da una serie di visite reciproche negli ultimi anni: Presidente Abdo Benítez in Italia nel novembre 2018; ex Ministro degli Esteri italiano Enzo Moavero ad Assunzione nel febbraio 2019.
L’interscambio commerciale tra Italia e Paraguay presenta ampi margini di miglioramento. I flussi commerciali nel 2019 si sono attestati sul valore di 188 milioni di euro. Nel 2020, anche a causa dello scoppio dell’emergenza pandemica, è stata registrata un’ulteriore flessione del 25,1% rispetto all’anno precedente nell’interscambio commerciale. Vi sono ampi spazi per una maggiore presenza economica italiana in Paraguay, che presenta, anche grazie a politiche di incentivi fiscali ed al basso costo di manodopera ed energia, un potenziale come “hub” produttivo per le imprese che puntano al mercato del Mercosur. Le tecnologie italiane in particolare potrebbero contribuire al processo di diversificazione dell’economia paraguaiana, attualmente concentrata sull’esportazione di alcuni prodotti agricoli. Vi è in prospettiva potenziale anche per le imprese italiane nel campo delle infrastrutture e delle reti di trasmissione dell’energia elettrica, di cui il Paraguay, grazie ad importanti impianti idroelettrici, è un produttore ed esportatore.
L’Italia esporta in Paraguay principalmente apparecchi per le telecomunicazioni, macchinari, saponi e detergenti, prodotti per la pulizia e la lucidatura, profumi e cosmetici, articoli in materie plastiche. La voce principale delle nostre importazioni è invece cuoio conciato e lavorato.
Quali sono le maggiori attrazioni turistiche?
Sicuramente le cascate di Foz de Iguazu, nella cosidetta Triplice Frontiera (Paraguay, Argentina, Brasile) e poi le riduzioni gesuitiche, che in un viaggio/avventura, ricordo, tu, Nando e Massimo avete visto!
Ci sono anche minori attrazioni nella capitale, che peró vanno rivalorizzate e ció é parte di un progetto che Senatur (la segreteria nazionale del turismo locale) sta portando avanti con noi e l’Enit, in una sorta di consulenza ed accompagnamento.
Viste le inquietudini frequenti in Sudamerica, quale momento politico vive il Paese, per tanti anni governato dalla destra filo USA e massonica?
POLITICA INTERNA. Il governo guidato dal Presidente Abdo Benítez, in carica dal 15 agosto 2018, ha dichiarato come una delle sue priorità il rafforzamento istituzionale. Per raggiungere tale obiettivo il Presidente ha cercato di focalizzare l’attenzione dell’esecutivo sull’inclusione sociale, sul miglioramento dell’istruzione e della salute pubblica, sulla lotta alla criminalità (soprattutto lungo la frontiera “porosa” con Argentina e Brasile) e alla corruzione (clamoroso il caso del mandato di cattura brasiliano per l’ex Presidente Cartes), sulla tutela dell’indipendenza della magistratura e sulla difesa dell’ambiente.
POLITICA ESTERA. Le relazioni con il Brasile costituiscono il principale dossier della politica estera paraguaiana, visto che i rapporti tra i due Paesi sono imprescindibili. Assunzione e Brasilia gestiscono congiuntamente la centrale idroelettrica di Itaipú e il Brasile è anche la destinazione di quasi il 40% delle esportazioni paraguaiane. Per l’altro grande vicino, vale a dire l’Argentina, Assunzione è un partner strategico in ragione dell’approvvigionamento di energia a basso costo nonché per la manodopera (circa un milione di paraguaiani lavora in Argentina). I due Paesi, inoltre, collaborano sul commercio frontaliero e sulla lotta al contrabbando. Con riguardo al Venezuela, Abdo Benítez ha da sempre sostenuto un atteggiamento molto critico verso Maduro: sulla base della Dichiarazione del Gruppo di Lima del gennaio 2019, che ha determinato il mancato riconoscimento dell’ultimo mandato presidenziale di Maduro, il Paraguay ha deciso di interrompere le relazioni diplomatiche con il Venezuela.
La situazione economica del Paraguay
A livello economico, il settore agricolo rimane il settore chiave dell’economia, con elementi di vulnerabilità costituiti dalla dipendenza dal clima e dalla volatilità dei prezzi sul mercato internazionale. Il settore manifatturiero è relativamente poco sviluppato, costituito essenzialmente da piccole/medie imprese in molti casi orientate al mercato interno. Il Paraguay mostra di avere potenzialità non ancora esplorate, soprattutto in considerazione dei nuovi scenari che si aprono nel campo dello sviluppo sostenibile e della rinnovata attenzione ai problemi ambientali. La ricchezza d’acqua favorisce lo sviluppo del fiorente settore idroelettrico (diga di Itaipù, la cui energia viene esportata in Brasile ed in Argentina). Fra l’altro, la moneta locale, il guaranì, è tra le più stabili del continente, essendo l’unica valuta sudamericana a non aver subito importanti svalutazioni negli ultimi 30-40 anni.
I rapporti tra Stato e nativi. In particolare, ad Asuncion si erano accampati nella piazza principale non volendo trasferirsi nei quartieri periferici
Continuano ad essere tesissimi. Non solo possiamo affermare che i diritti di questi nativi (se ci pensiamo bene sono i veri proprietari del Paraguay) non sempre siano rispettati ma purtroppo anche l’ente nazionale che dovrebbe tutelarli e garantire giustizia sociale, è stato troppe volte coinvolto in scandali. Una situazione che ha portato a continue manifestazioni e ad una occupazione costante della piazza principale nelle prossimitá degli edifici politici e strategici del paese.
Tempo fa il Paraguay era considerato tra i paesi più felice al mondo: bastava procurarsi un panino quotidiano e passava ogni altra tormento. Sono cambiate le aspettative della gente semplice?
Non sono cambiate affatto. La gente si accontenta di ció che ha (molte volte molto poco) e un dialogo con le persone piu umili puó cambiare una giornata. Quando al semaforo si chiede: “que tal?”(come va) e la risposta é: “cuando hay comida y sol siempre bien!!!”), come puoi iniziare la giornata in modo grigio ed angoscioso?impossibile.
Volendo suggerire investimenti agli italiani, in quale direzione li orienteresti?
I settori di maggiore interesse per le nostre imprese sono infrastrutture, costruzioni e manifattura. Qui di seguito vi porto a conoscenza di alcune esperienze importanti di aziende italiane in Paraguay
Settore infrastrutture: COLACEM ha avviato uno dei maggiori investimenti italiani in Paraguay. L’investimento mira alla realizzazione di un cementificio a ciclo completo nella regione di Concepción e di un porto fluviale attrezzato al servizio dell’impianto
Saluber si è aggiudicata alcuni appalti nel settore del trattamento delle acque.
Settore aeronautico
Leonardo (FinMeccanica) ha firmato un MoU con l’azienda locale DATA LAB SA per potenziali cooperazioni su progetti d’interesse delle forze armate paraguayane e della Direzione Nazionale dell’Aeronautica Civile del Paraguay (DINAC). È interessata, tra l’altro, a fornire sistemi di sicurezza informativa alla DINAC.
Gruppo Gavio ha fornito in passato imbarcazioni per il pattugliamento fluviale alle Forze Armate locali e al Ministero dell’Industria (responsabile della lotta al contrabbando).
Criminalità e corruzione sono tali da scoraggiare investitori e turisti?
La corruzione é un problema evidente e palpabile del paese. Un paese ricco che non riesce peró a garantire una giusta ridistribuzione della ricchezza. E nell’apparato burocratico non mancano esempi di corruzione che a volte scoraggiano investimenti stranieri. Negli ultimi anni comunque la situazione sta seppur lentamente cambiando.
La criminalitá non é invece un problema. E’ un paese che con certezza posso definire sicuro.
Missione gesuitica Missione gesuitica (XVI-XVII sec.) particolareCascate dell’ Iguazu
Enzo Lucente, quarant’anni di giornalismo militante con L’Etruria
Conobbi Enzo negli anni Ottanta, direttore de L’Etruria e consigliere comunale Dc, aspro competitore verso la Giunta comunale a maggioranza social – comunista che guidavo. Fino a scontrarci in aule giudiziarie. Nonostante due caratteri risoluti e convinzioni politiche diverse, anche opposte, abbiamo intessuto rapporti personali improntati al rispetto, fino ad oggi. Il rimprovero che gli faccio è avermi coinvolto nella gestione del periodico L’Etruria. Incarico che accettai a scadenza breve. In omaggio alla libertà di stampa e alla conservazione dell’unica testata centenaria a stampa cortonese, in attesa che tra i collaboratori del periodico uscisse un presidente duraturo. Fatta tale premessa, per chiarire i legami personali di stima reciproca con Enzo, e il mio rapporto amministrativo con L’Etruria, estraneo alla direzione giornalistica, da raccoglitore di storie personali ho pensato di inserire Enzo Lucente tra i personaggi passati e presenti del panorama locale. Egli, infatti, pur non originario di Cortona ne è stato senz’altro tra gli animatori della vita politica e culturale da oltre quarant’anni a questa parte: attivista politico, ma, soprattutto, direttore de L’Etruria. Palestra per tanti appassionati di giornalismo, fino a ottenerne l’iscrizione all’albo. Ricordiamo che, morto Farfallino, prese Enzo Tortora la direzione del nuovo corso de L’Etruria, mancando giornalisti locali disposti a farlo, giusto il tempo che maturasse l’iscrizione di Lucente all’albo, quaranta anni fa. Riassumere in spazi limitati l’esperienza di Enzo era un problema (quando gliel’ho proposto, ha riso: “Ci vorrebbe un’intera Etruria!”), perciò mi sono limitato a porgli poche domande, le cui risposte valgano da assaggio sulla biografia di Lucente direttore de L’Etruria, se e quando ci sarà.
– L’ultimo anno c’è stato un incremento di vendite de L’Etruria in edicola di quasi tre volte, te ne sei spiegati i motivi?
E’ stata una piacevole sorpresa anche per me.
Le edicole, purtroppo, con la sola eccezione dell’edicola Ghezzi a Camucia, hanno un contratto con il distributore dei giornali per cui su quello spazio non possono inserire altri giornali che non siano quelli arrivati; dunque L’ETRURIA è sempre “nascosta”.
Questo è un grave handicap che non ha soluzioni. Nonostante questa situazione in quest’annata abbiamo avuto una vendita in edicola triplicata; il motivo? presumo che la gente si sia appassionata alle nostre battaglie e l’abbia richiesta all’edicolante.
Questo ci stimola a non abbassare la ” guardia” !
– Nei quaranta anni di direzione del giornale oltre alle cronache locali, il tuo giornale ha pungolato le amministrazioni comunali sulla loro gestione, non solo giudicandole ma suggerendo anche obiettivi. Con il cambio politico al Comune, prima a maggioranze di centrosinistra e oggi di centrodestra, resta immutata la missione critica del periodico?
La domanda è pertinente e puntuale.
Non è un mistero che la mia posizione politica sia di centro destra, ma lo sono quando mi reco nella cabina elettorale. Nella mia funzione di direttore responsabile del giornale L’ETRURIA ho un solo compito: essere libero di esprimere i miei giudizi, di sollecitare le amministrazioni comunali precedenti ed attuale a lavorare meglio e con più lungimiranza per il futuro e interesse della nostra collettività e del nostro territorio.
Con le Amministrazioni precedenti abbiamo avuto momenti difficili, abbiamo sempre o quasi proposto ad amministratori sordi e ciechi. Quando il Comune ha cambiato colore, ovviamente, sono stato felice.
Nell’annunciare sul nostro giornale lo storico evento non ho utilizzato l’intera pagina per dare la notizia e questa decisione non è piaciuta. D’altra parte alcuni nostri lettori di sinistra, pochi in verità, ma ne è sufficiente uno per dare il senso al mio discorso, presumendo che il giornale avrebbe cambiato impostazione hanno comunicato la disdetta del giornale; uno in particolare mi ha lasciato l’amaro in bocca. Erano più di venti anni che era abbonato, nonostante il giornale combattesse la politica delle Amministrazioni da lui votate; subito dopo l’insediamento della nuova giunta ci ha comunicato il suo non rinnovo. Alla mia richiesta del perché di tale decisione, la sua risposta è stata franca: L’ETRURIA cambierà la sua linea editoriale.
La nostra posizione non è cambiata; chiediamo anche a questa Amministrazione di essere più attenta ai problemi del territorio; con Luciano Meoni c’è una amicizia da oltre 20 anni. Devo dirti che all’inizio mi è piaciuta perché c’erano tanti problemi rimasti insoluti; il sindaco si è impegnato in prima persona e li ha risolti. Ma il quotidiano non basta, oltre ai problemi correnti ci sono le attività che richiedono una programmazione nel tempo; qui il giornale non è in linea con l’Amministrazione comunale.
Questa Giunta deve riorganizzare gli uffici, dopo un momento di attenzione preoccupata per il cambio di scopa, qualcuno è tornato ad adagiarsi. Questa Giunta ha necessità di consulenti veramente preparati, poco importa se devono essere pagati profumatamente, ma devono verificare le necessità attuali e future del nostro territorio, studiare le possibilità di accedere a finanziamenti. Abbiamo verificato in questi giorni che il Comune di Cortona ha perso la possibilità di accesso ad un finanziamento a fondo perduto di 250.000 euro per mancanza di programmazione preventiva. La buona volontà è apprezzabile, ma non basta e se si perdono possibilità di finanziamento la posizione diventa colpevole.
– Quali dovrebbero essere le priorità del Comune per migliorare le condizioni economiche e di vita dei cittadini e del territorio? Ho apprezzato la recente attenzione al recupero dell’antico Ospedale di Cortona, c’è altro per cui vi battete?
L’elenco è lungo, le priorità nascono da molto lontano.
Intanto il vecchio ospedale nel centro storico. Sono 5.500 mq di stabile al completo abbandono. Non ha mai interessato le Amministrazioni di sinistra, non interessa le Amministrazioni di destra. Ci si potrebbe fare qualsiasi cosa produttiva, ma ci vuole programmazione ed esperti che sappiano preparare il progetto e le pratiche per la richiesta di finanziamento. C’è stata la possibilità di recovery sanitario, ma anche in questa occasione pieno disinteresse della Provincia, proprietaria dell’immobile, e del Comune, parte interessata. Questo degrado pesa sulle coscienze e sul giudizio politico che i posteri daranno di questi amministratori.
Abbiamo circa 1.000mq di immobile comunale che è stato per tanti ani sede dell’Ostello della Gioventù. Oggi è chiuso perchè il gestore, per motivi di salute, ha dovuto recedere dalla gestione.
Da allora è chiuso, né le precedenti amministrazioni, né l’attuale pensa “in positivo”. In Italia sono ancora aperti 153 Ostelli, noi lo teniamo chiuso e, per lavarci le mani, proclamiamo che intendiamo venderlo ad una cifra che non troverà mai acquirenti.
L’Ospedale della Fratta, dopo essere stato utilizzato per il ricovero di pazienti affetti da Covid 19, deve ritrovare una adeguata ristrutturazione. Parlano tutti, si fanno prendere in giro della direzione sanitaria. L’ospedale della Fratta deve essere il gemello di quello di Nottola, non basta aprire uno o due reparti se nella globalità l’ospedale non è funzionale 24 ore su 24, proprio come è il gemello senese.
– Nei tuoi quaranta anni di attività politica e culturale a Cortona avrai osservato momenti di maggiore e altri di minore fervore e qualità sia nella progettualità politica e nella vita culturale, ce ne faresti un breve excursus?
Quaranta anni di attività politica e culturale….non voglio fare un excursus. Voglio ricordare l’uomo che non viene più ricordato e che ha fatto la fortuna turistica e culturale di Cortona: il presidente dell’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Cortona, il comm. Giuseppe Favilli. Non esistevano a Cortona alberghi se non uno, non c’erano allora agriturismi o case vacanza, ma lui è riuscito ad inventare il turismo culturale con l’Università americana di Athens in Georgia, un turismo che è cresciuto e che è ancor oggi il volano del nostro successo.
– Quali prospettive vedi per l’Etruria?
Difficile fare previsioni. Quando morì Farfallino nel 1973, il fratello Francesco fece stampare dalla tipografia una pagina di Etruria per dire che con la morte di Farfallino il giornale cessava la sua vita editoriale. Poi le cose sono andate diversamente; nel 1976 costituimmo un Comitato per il Centro Storico e tra le nuove proposte tornò a galla l’idea di continuare le pubblicazione del giornale. Andammo dai fratelli Bistacci ed ottenemmo il permesso di utilizzare la testata, che, grazie alla buona volontà di tanti collaboratori e l’amicizia e fedeltà di tanti lettori è giunto alle soglie dei suoi 130 anni, l’anno prossimo 2022. Dal 1978 ad oggi siamo andati avanti; gli abbonati nel tempo sono un po’ diminuiti. Alla ripresa della pubblicazione erano tanti i cortonesi residenti lontano dalla loro terra natale e ricevere a casa una ventata di Cortona era per loro piacevole, alla loro morte però i figli, che con Cortona avevano legami tenui, disdicevano l’abbonamento.
I ragazzi di oggi usano il cellulare o il tablet per una informazione veloce e superficiale, il giornale, anche se parla del loro territorio, poco interessa.
Dunque l’avvenire de L’ETRURIA è incerto, ma noi andiamo caparbiamente avanti.
Sarebbe necessario che i Cortonesi risiedenti si facciano un esame di coscienza e valutino se sia utile che il giornale viva libero e pronto a denunciare le cose che devono essere corrette. Se la risposta fosse positiva, allora sarebbe necessario abbonarsi ed invitare gli amici a fare la stessa cosa; solo così daremo certezze all’Amministrazione de L’ETRURIA.
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La panchina dedicata ad Alfredino Bianchi a Camucia
Amici irriducibili del farmacista Alfredo Bianchi hanno festeggiato con sobria cerimonia laica, bagnata da semplici bicchieri di vino, la posa d’una panchina in Piazza XXV Aprile a Camucia; posto ritenuto appropriato e definitivo. Il 27 giugno, alle 21.00. Ora e luogo simbolici, legati ambedue alle abitudini dell’indimenticato Alfredino. Il quale, nei crepuscoli estivi, seduto lì, raccoglieva a chiacchiere e burle buontemponi come lui. Quel simbolico memoriale – la panchina -, a chi non ha conosciuto Alfredino, suggerirà almeno la pacifica condivisione d’una seduta: dove conversare con chiunque abbia “cinque minuti da perdere” cazzeggiando in attimi di leggerezza…antidepressivo naturale. Chi sa le vicende di Camucia nel boom economico capisce i motivi per cui Alfredino, col suo teatro di strada estivo, avesse voluto rinverdire atmosfere rese fantastiche da generazioni coeve dei suoi genitori. Quando gli svaghi erano pochi e concentrati a fine settimana: la televisioni in bianco e nero, seguita in massa negli spettacoli del sabato, la pizza, e il cinema. E la “vegghja” tra fidanzati. Mentre nello spiazzo Camuciese, tra l’Extra bar l’Edicola e via Regina Elena, tutte le sere c’erano spettacoli nazional-popolari… Teatro di strada senza copione. I cui protagonisti principali erano attori navigati che, ridendo e scherzando, sguazzavano su pettegolezzi, commenti politici, sportivi, e ogni altro genere di notizie che si prestassero a irridenti commenti. Nei modi tipici comuni, da sempre, della Toscana profonda: diretta, pettegola, beffarda, battutista, anticonformista, senza timori reverenziali. Tradotta magistralmente nel Decameron di Giovanni Boccaccio, nella serie dei film Amici miei di Mario Monicelli, e ancor viva, in spolvero scritto e caricaturale, nel Vernacoliere livornese. Nell’apparente anarchia, c’era spazio per ogni argomento e per chiunque volesse dir la sua; qualcuno, in disparte, trattava pure affari. E come in ogni spettacolo, sulle comparse svettavano i capocomici. Quale fu Edo Bianchi (babbo di Alfredino) – farmacista dal sapere enciclopedico, compulsivo bestemmiatore ma non ateo, appassionato cineasta e di modellismo, hobby condivisi con Giandomenico Ciculi – capace di intervenire tra il serio e il faceto su qualsiasi questione. Educatore e informatore gratuito di gente dedita tutto il giorno al lavoro e agli affari, e di rado a sfogliare giornali e libri. E Alfiero Pelucchini, il Pittiri, parvenze intellettuali, albergatore, imprigionato per lenocinio, modi eleganti e linguaggio forbito, lui i giornali li leggeva e li commentava. Vulcano in eruzione, quando trattava le intromissioni frequenti della Chiesa sulla vita politica. Favorevole al divorzio, auspicava pure il matrimonio dei preti, per la fissa di poterli finalmente cornificare, come loro facevano impuniti senza possibilità d’essere ripagati della stessa moneta. Destino volle che lo zio prete gli lasciasse un bel gruzzolo in eredità!… Altri ancora erano i protagonisti di quegli spettacoli a cielo aperto, meno assidui dei due – Edo e Alfiero – residenti a pochi passi dalla Piazzetta; tra costoro ricordiamo: il Ghjoghjolo, il Mèchena, il Principino, Bruggiamanne,… Quel mondo folkloristico si dissolse pian piano, venendo meno i protagonisti, ed essendo subentrati nella società nuovi e più variegati approcci al tempo libero, specie nei dopo cena. Alfredino – goduta la fortuna di quelle animazioni a costo zero, ed ereditate da Edo doti comunicative, umore scherzoso e socievole – spontaneamente, seduto nella solita Piazzetta, creò intorno a sé frotte di buontemponi par suo, rinverdendo così passati gioiosi memorabili. Le persone presenti nella fotografia, insieme ad altri (Patrizio Sorchi, Alberto Salavatori, Euro Attoniti, Giandomenico Gorgai, Elvio Bartolozzi, Angelo Rosadoni, Franco Colzi, Giulio Picchi, Ceccarelli Romeo, Massimo Castellani, Ivo Camerini, Poldo) hanno contribuito a postare quel ricordo per Alfredino. I memoriali, solenni o modesti, sono sempre significativi. In questo caso, dell’affetto per un amico perso troppo presto, la cui umanità è riassunta nella panchina: ospite di viandanti in momenti spensierati, favorendo incontri tra vecchi e nuovi conoscenti. Niente di meglio, dopo lunghi periodi d’isolamento sociale vissuti in pandemia. Mancherà, purtroppo, Alfredino. Mentre resistono ancora altri. Come Alberto Salvatori, il Bambara. Compagno di zingarate di Alfredino, epigono Boccaccesco, le cui storie che tiene segrete sarebbero in grado di ridefinire l’immagine di Camucia: non solo laborioso paese di provincia, ma anche parente del luogo sessualmente trasgressivo rivelato nei I peccati di Peyton Place, scritto all’epoca (1956) dalla casalinga americana Grace Metalious.
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la targhetta sulla panchina i protagonisti principali della collocazione del piccolo memoriale