Il ROSSO de’ PINCO, appassionato di macchine agricole e della pastasciutta

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In tuta blu e cappellone di paglia, alto e robusto, alle battiture, da “macchinista” era il padrone dell’aia. Mario Lorenzoni, detto il Rosso de’ Pinco (soprannome dei Lorenzoni) dal colore inconfondibile del pelo, per anni, gli era pure garbato il rosso comunista. Passione politica da cui s’allontanò incazzato per lo sgarbo inflittogli dai  compagni quando gli tolsero la soddisfazione d’un incarico da bidello part time presso la palestra comunale, procurato dall’amico democristiano Beppe del Frappa (il Tiezzi). Freddamente, sostituito dal compagno Robin Hood, più simpatico ai vertici di partito.

Quel lavoro, era tra i tanti con cui s’ingegnò per mantenere la famiglia. Di suo aveva un trattore – Landini a testa calda – e alcune macchine agricole, con cui lavorava in terreni presi in affitto o per conto terzi, e una piccola  sgranatrice del granturco. Un giorno ce lo sfotterono pure: “Tu ce l’hai piccolo!” alludendo alle dimensioni ridotte del suo battitore, ma lui, pronto, rispose: “E’ per mettertelo meglio in culo!…” con persone volgari, non andava per il sottile. Andava in giro con la sgranatrice fino a Seano, in montagna, impiegando un giorno per andare e un giorno per tornare.

Che si trattasse di battere il grano o sgranare mais, nell’aia, il macchinista non era  deus ex machina bensì il deus in machina: teneva i ragazzi discosti dai pericoli (pulegge, cignoni, sbattitori, imboccatore,… rischiosi anche allo stazionamento degli adulti) e, con pari autorevolezza, ordinava a ciascuno le mansioni da svolgere. Quel regno provvisorio d’un giorno era consacrato a tavola, dove il macchinista riceveva un trattamento di riguardo: pastasciutta e arrosto a volontà! Lui era pastaio. Pane e pastasciutta, i cibi preferiti. Per una specie di contrappasso, in vecchiaia, s’ammalò di diabete dovendo ridurre al massimo cibi farinacei. In tarda età scoprì pure il gusto per le banane, divenendone fruitore compulsivo. A tavola, insomma, fu un conservatore dai gusti semplici.

Viveva nella passione per i trattori e la campagna. Ogni anno s’aggregava a una comitiva paesana (tra cui i Milani, proprietari e amanti di attrezzi agricoli, e uno noto come “Milanino”  ricercato fisarmonicista in feste ruspanti) assidua frequentatrice di fiere. In testa, la preferita era quella di Verona. Per il Rosso, equivalente all’esposizione universale dei balocchi: la più vasta rassegna di meccanica agricola di sua conoscenza. Amico pure dell’altro appassionato Quinto Santucci, coltivatore benestante, dedito a una spettacolare raccolta museale di attrezzi vecchi, tra cui troneggiavano un paio di macchine a vapore rimesse in funzione – ancora in grado di smuovere vecchie battitrici.

Senza pregiudizi, amico di tutti, il Rosso de’ Pinco frequentò pure un Menci, che si diceva discendente d’Angelo Menci (alias “Giuggiolone” o “Vento”) un castiglionese alle cui vicende familiari risaliva il detto popolare: “Faccio come il Menci!” o “Faccio come Giuggiolone!” – come minaccia usata contro un rompicoglioni – che ammazzò tutti i familiari (7), tre vicini,  oltre le bestie nella stalla (qualcuno aggiunse pure il gatto!). Chi con oggetti da taglio, chi col fucile. L’origine della tragedia, secondo alcuni, fu la vedovanza di Angelo, allorché la moglie morente l’avrebbe diffidato a risposarsi. Ma lui, disobbedendo, ricostruì una famiglia, con moglie e figli. Un giorno un cane nero gli avrebbe traversato la strada, quel fatto gli fece ribaltare il cervello. Tornato a casa, compì quello sterminio di persone e animali. Il cane nero sarebbe stato la prima moglie riapparsa in quelle sembianze. Altri sostennero che il cane fosse il diavolo… Il diavolo, poveretto, è una presenza costante nelle disgrazie tramandate dal popolo. Un’altra versione addebitò la tragedia agli affari che gli andavano male: non avrebbe retto al pensiero di vedere i figli costretti a mendicare.

Il Rosso amico di tutti, gigante all’apparenza burbero ma di buon cuore, era capace di conservare segreti, non raccontando confidenze ricevute neppure in casa. Riservato, paziente nell’ascolto e nel dispensar buoni consigli o parole consolatrici, insieme ad altre doti nascoste, gli valsero l’intimità di molte donne del circondario, trovandolo complice affidabile dei loro bisogni più o meno confessabili. Segreti che sarebbero finiti sepolti con lui, salvo spifferi usciti dalle concupite, per sputtanarsi a vicenda. Nelle attenzioni femminili non trascurava l’aiuto a preparare dolci, scaldando il forno o rendendosi disponibile per ogni altra evenienza. Piccole disponibilità, come carta moschicida, per ingraziarsi i favori dell’altro sesso.

Sotto i pini di Pinco, vicino casa sua, nella bella stagione si radunava gran parte del vicinato: dai bimbi agli anziani, tutti a raccontar le proprie storie e ascoltarne di altri. Nel gruppo senza leader, si distinguevano: lo spiritoso Migljo dell’Iseleno, giocatore a carte e boccette, Benito detto il Bocca, Bruno Baldi il falegname – che costruiva gratuitamente giochi di legno ai bimbi del caseggiato -, lo Zi’ Nanni, zio di Migljo, vecchio scapolo zio di tutti; e, all’imbrunire, in lontananza un rosario di bestemmie segnalava l’arrivo di Beppe de’ Pinco, che tornava da “spennato” a carte.

Comunisti, fascisti, democristiani,… persone d’ogni età, estrazione, o idea politica, per ore, s’intrattenevano in allegra combriccola all’ombra di via Murata, nel luogo noto come: i pini del Rosso de’ Pinco.

 

 

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