Il commento di Claudio Santori al libro “Tutti dormono sulla collina di Dardano”

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Innanzi tutto lasciatemi dire che sono sempre felice di trovarmi a Cortona dove mi sento a casa perché qui ho tanti amici e perché qui, proprio all’inizio della mia carriera, ho trascorso un periodo indimenticabile della mia vita insegnando latino e greco nel Liceo Classico che, già Benedetti, era appena passato fra le braccia del Petrarca di Arezzo. Qui mi sono barcamenato fra due personaggi ormai appartenenti alla leggenda: ad Arezzo don Martini e qui il suo vicario Oreste Cozzi Lepri dal quale ho imparato moltissime cose che si devono fare quando si dirige una scuola e anche qualcuna che non si dovrebbe fare per regolamento, ma che è imposta dal buon senso e dalle regole non scritte del saper stare al mondo!| E lasciatemi subito ringraziare Giuseppe Calosci, il più antico ed inossidabile degli amici cortonesi, col quale ho l’onore di collaborare ormai da una vita.

Quanto tenesse a questa manifestazione è dimostrato dalla locandina che ha stampato e mi ha inviato per corriere: c’è il mio nome a caratteri di scatola e sotto, molto più in piccolo ci sono i nomi degli autori. Un po’ come succede in certe locandine di spettacoli operistici: c’è scritto La Traviata di Giuseppe Verdi, piccolo piccolo, e sotto il nome del Pinco pallino direttore d’orchestra grosso come una casa. Ma così va il mondo.

Ed eccomi dunque a presentare due libri che, peraltro, stanno bene insieme perché sono due facce della stessa medaglia, e la medaglia in questione è Cortona con tutti i cortonesi, doc e meno doc, dentro. Ne è garante, fra le altre cose il giornale L’Etruria -un foglio che più cortonese non potrebbe essere- col quale entrambi gli autori hanno in comune la pubblicazione a puntate.   Due libri che scopertamente si rifanno a precedenti letterari mitici: il libro di Fabilli, Tutti dormono nella collina di Dardano all’Antologia di Spoon River e quello di Brini, con richiamo più sottile e meno individuabile a prima vista a James  Joyce: Gente di Cortona che fa venire subito in mente  il celeberrimo Gente di Dublino!

Del libro di Fabilli ho avuto l’onore di essere espressamente richiesto della prefazione, inoltre con l’Autore ho un consolidato feeling fin da quando lessi con interesse il suo affresco parietale Chi lavora fa la gobba e chi ‘n lavora fa la robba e lo presentai con entusiasmo nella Sala dei Grandi in Provincia. Allora mi ritrovai in piena sintonia perché lui parlava di contadini che conosceva bene dalla parte dei contadini, mentre io leggendo quelle pagine ritrovavo me stesso ragazzino e conoscitore io pure della vita dei contadini, ma stando dall’altra parte, da quella del padrone. Perché i mei avevano delle terre e il mio babbo una volta in pensione come maresciallo dei Carabinieri era divenuto a tutti gli effetti fattore: ricordo un nostro contadino,  persona di animo gentile che mi coccolava sempre e mi chiamava “signorino”, cosa che mi mandava in bestia, ma non potevo farci niente. Meno male che a un certo momento il babbo vendette tutto e così non fui più signorino! Proprio aprendo il suo libro sui cortonesi dormienti il Fabilli rammenta i suoi trascorsi:

“Dopo aver indugiato sulla storia Cortonese novecentesca, parteggiando per  contadini e mezzadri, ho tentato l’azzardo di tratteggiare personaggi del passato in forma narrativa. All’apparenza, compito più semplice passando dall’oggettività storica – quantomeno nelle intenzioni e nel metodo – alla libertà soggettiva del racconto”.

“Il ventaglio umano del passato impresso nel mio immaginario, sottoposto a un’operazione affettiva e liberatoria ha provocato il riaffiorare, allo stesso tempo, tipi “anonimi” insieme a quanti appartennero alla “mitologia” popolare, nel territorio dell’antica cittadina. Espressioni degli infiniti percorsi di vita: nobili, popolani, artisti, intellettuali, perdigiorno, artigiani, ubriaconi, preti,…iscritti nel mosaico antropologico  della Città e del suo vasto territorio, finché non si son dispersi nel nulla, accomunati dallo stesso destino”.

Ed ecco infatti che il libro, mettendo da parte ogni velleità storico-sociale, vira verso il bozzetto intinto di amarcord  mescolando biografie e storie vere spesso ai limiti del grottesco e divertenti sempre, quanto lo possono essere vizi, vizietti, tic e manie, ma anche buone azioni e sacrifici afferenti alla gente comune, quella con cui  -nella seconda metà del secolo scorso molto più di oggi- si veniva a contatto al bar, dal barbiere, al mercato e per la strada. A parte i soggetti, di cui dirò subito, il libro si legge tutto d’un fiato per lo stile, semplice, ma non semplicistico, a volte quasi telegrafico, asciutto, essenziale che a me -classicista per vocazione e per mestiere- ha ricordato la maniera degli antichi prosatori atticisti: frasi brevi, con punti fermi continui che riproducono efficacemente il ritmo, il colore e la spontaneità del parlato: notavo nella prefazione che, anche se opportunamente addomesticato, perfino un “moccolo”, che tratteggia il colore locale con un’efficacia impossibile a raggiungersi con gli strumenti del linguaggi letterario!

Ferruccio ne ha naturalmente piena consapevolezza, tanto è vero che scrive:

“Non è una rassegna di eroi, né di figure tragiche, ma di gente comune di cui racconto fatti ordinari, nel breve spazio di due cartelle dattiloscritte…La compressione in due cartelle per scelta editoriale (concordata col periodico L’Etruria intenzionato a pubblicare una figura al mese) m’ha obbligato all’esercizio di sintesi estrema”.

E aggiunge, a ribadire il concetto, in caso qualcuno non l’avesse capito:

“In questi frammenti esistenziali, condivisi in parte dall’umanità, il difetto dell’estrema sintesi è compensato da ciò che Hamlin Garland definì “veritismo”[1]. Un vero che auspico non generi ostilità a causa dell’intromissione nella vita di congiunti defunti, avvenuta – lo sottolineo – sempre con affetto”.

Non mi risulta che abbia ricevuto minacce o querele, a testimonianza del ben noto senso dell’umorismo tanto diffuso nelle Chiane, come dimostra un detto ricorrente dal Tegoleto al Chiucio: è meglio perdere un amico che una battuta!

L’amico Ferruccio, con questa sua ultima fatica, passa disinvoltamente dall’affresco parietale degli intriganti saggi a sfondo economico-sociale e storico al quadro a olio, anzi all’acquerello del bozzetto, come dicevo appunto proprio in apertura di questa chiacchierata, venendo così a far parte, sia pure col cappello in mano e a capo basso, della schiera ove sono, fra gli altri, il Fucini, il Panzacchi e perfino il più illustre dei suoi conterranei: Corrado Pavolini. Non si commetta l’errore di credere che scrivere bozzetti sia più facile che scriver saggi e romanzi perché il bozzetto esige la sintesi, la capacità di condensare un messaggio in poche righe che mantengano desto l’interesse: il Fabilli ha superato la prova alla grande partendo proprio dall’idea geniale: dare un contraltare -casereccio e in sedicesimo, ma non per questo meno intrigante- all’Antologia di Spoon River, uno dei libri che abbiamo tutti più letto e mitizzato fin dall’adolescenza!

Alla collina d’oltre oceano si sostituisce, con spiritosa ironia, la collina … di Dardano. Ora voi sapete tutti chi è Dardano: il mitico fondatore di Cortona. E il bello è che costui, dopo aver fondato Cortona, si recò sulla costa dell’Asia Minor e fondò un’altra città: nientemeno che Ilio, o Troia che dir si voglia, per cui a Cortona è venuto e rimasto l’altisonante titolo di “Mamma di Troia e nonna di Roma”! Mettere sotto la tutela di due mitologie, una classica e una moderna, il vissuto casereccio di tutti i giorni è un’idea assolutamente geniale che dà una pennellata di grottesco al ribobolo di personaggi dalle grandi mangiate e dalle grandi bevute, personaggi lavoratori e nulla facenti, innocui chiacchieroni e all’occorrenza  bestemmiatori.

Scrivevo nella prefazione al libro -e non saprei dir meglio qui ora- che nei camei di Fabilli il divertissement assoluto si mescola inestricabilmente alla vita vissuta con il suo intreccio di drammi e di farse nello sfondo di un mito incombente ed onnipresente: il vecchio P.C.I., icona, vademecum e terra promessa di tutti, ivi compreso lo scafato e disincantato Autore (che, non dimentichiamolo, di Cortona è stato sindaco).

E il bello è che i personaggi sono tutti (o quasi) assolutamente veri, annidati nella memoria dell’Autore con i loro gesti, tic, manie e frasario caratteristico. E non solo in quella dell’Autore, e qui viene il bello perché i lettori cortonesi troveranno nel libro un valore aggiunto quando vedranno uscire icasticamente dalle pagine personaggi che hanno conosciuto e che avevano archiviato; quando rivivranno sensazioni, pensieri e giudizi. Ma il divertimento è garantito anche per i non cortonesi perché i personaggi e le vicende di questa straordinaria “corte dei miracoli” sono di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

In quale città o paese non c’è -e non c’è stato-  un boss sui generis della cultura come l’ineffabile Oreste Cozzi Lepri che ebbi, come ripeto, insieme con il non meno ineffabile don Nicola Fruscoloni (che, sia detto en passant, mi attaccò il vizio mai più dismesso del mezzo toscano!) fra i  primi maestri di vita al tempo del mio apprendistato scolastico cortonese? E che dire di Alessandro, conte, sindaco e contadino?

“Schierato tra laici e progressisti, se pure temuto e rispettato, non era visto di buon occhio dagli altri agrari, in prevalenza, divisi tra nostalgici postfascisti, simpatizzanti democristiani o liberali. Quella scelta di campo indispettiva molti benpensanti, che la consideravano incongrua rispetto al blasone raccontato dalla lapide affissa nello splendido palazzo in Città, di proprietà familiare. Il suo casato risultava dalla fusione tra due rami nobiliari storicamente in contrasto: i Mastai Ferretti, parenti di papa Pio IX – quello della Legge delle guarentigie (1871), duro a cedere il potere temporale su Roma al nascente Stato Italiano – , e i Colonnesi, tra i quali l’avo Sciarra Colonna passò alla storia per lo “schiaffo di Anagni”, dato a un Papa”.

“Per Alessandro, anticlericale, la simpatia dichiarata era a favore del ramo Colonna. Tanto convinto che divenne di dominio pubblico il suo gesto clamoroso, in occasione dell’agonia di papa Giovanni XXIII. Erano i giorni in cui la televisione trasmetteva senza tregua notizie sulle condizioni del popolare Papa morente, e inevitabilmente, accendendo il televisore, ogni giorno, capitava al Conte di assistere alle solite scene trasmesse dal Vaticano. Finché, spazientito, prese la pistola e sparò al televisore mandandolo in mille pezzi! Non si trattò d’intolleranza verso l’uomo sofferente, bensì di ripulsa verso l’insistito spettacolo d’un evento comune a ogni mortale”.

E degli altri suoi involontari compagni di cordata? Un campionario di varia umanità, tanto varia da ingenerare qualche volta il maligno sospetto che ci sia stata qua e là l’inserzione di zeppe e ornamenti di fantasia, ma è cosa che l’Autore negherebbe anche con la pistola alla tempia! Che dire per esempio del caso del prete talmente rubizzo, diciamo così, da meritare il soprannome di don Biétela?

“Com’è naturale, l’efficienza sessuale provoca quotidiane “tentazioni”… Forse certi eroici prelati saranno riusciti a mortificare la carne, ma circolano un sacco di storie boccaccesche sulle incontinenze sessuali dei parroci passati e presenti, come non son da meno, del resto,  le scappatelle delle monache. Se ai bene pendentes aggiungiamo dimensioni dell’attrezzo correlato tali da far appellare il portatore: Don Biétela (da bietola: fittone brozzoloso), la miscela è sessualmente esplosiva. Don Biétela, bell’uomo, robusto, sportivo, appassionato di motociclette veloci tanto da esserci caduto, sbattendo il cranio su un colonnino di pietra. Rimasto in pericolo di vita, si salvò – si disse – grazie alla zucca d’acciaio. Il suo “sventra papere” era così famoso e ricercato tra le donne da indurre in tentazione persino una zitellona in odore di castità la quale, non avvezza a certe dimensioni del pene, ne rimase ferita in uno spicciativo intervento emorroidario praticatole da don Biétela. (Il fatto scandaloso destò le ire dello zio prete della vittima, decano del Capitolo diocesano). Quando l’infortunata giunse al pronto soccorso a riparare lo sbrego, i maligni misero in giro lo sberleffo: “Don Biétela s’è messo a fa’ concorrenza al professor Baldelli!”. Pure lui rettificava sfinteri anali, ma col bisturi e in anestesia.

L’incidente ampliò la fama di don Biétela, mentre l’infortunata perpetua, seguitò a servirlo… in perpetuo”.

E non poteva mancare Farfallino, di cui naturalmente si è occupato anche il Brini, un mito in terra di Cortona, il gazzettiere che riversò ne L’Etruria oltre mezzo secolo di cronache e saghe:

“Entrava  in scena quasi in punta di piedi, dardeggiando uno sguardo inconfondibile. Occhi vispi e intelligenti, dal taglio simile a un orientale. Abbracciava l’insieme, cercava i dettagli, si soffermava sul focus, quasi simultaneamente. La prima volta, lo vidi entrare nel presbiterio del Duomo di Cortona a cerimonia avviata. (Ragazzino partecipavo alle Messe solenni nel coro delle voci bianche). Qualcuno più grande disse che anche lui era stato seminarista.  Si soffermò giusto il tempo per mandare a mente quel che gli interessava, dileguandosi poi furtivo com’era entrato. Era Raimondo Bistacci, cronista cittadino.

Piccolo di statura, calvo, elegante, mezzo sigaro Toscano tra le dita, indossava il farfallino. Da qui il soprannome. A cui teneva talmente da intitolarci una rubrica: “Farfallino in giro per il territorio cortonese”, e usarlo come firma sotto certi articoli.

Ancor giovane, aveva ereditato il periodico L’Etruria, unico superstite cortonese di “altri 16 giornali che oggi dormono il sonno della morte”, scrisse spegnendo le 78 candeline di compleanno del “suo giornale”, nell’aprile del 1970. Mentre lui ne compiva 81. Mirabile a dirsi, anche quel numero celebrativo aveva lo stesso slancio degli anni migliori. Senza eredi, era preoccupato per il futuro della sua creatura a stampa, della quale era stato: Gerente, Direttore, Amministratore e Redattore. Sorta di missionario laico, a tempo pieno, dell’informazione. Avendole dedicato tutto quanto era nelle sue disponibilità: soldi, tempo, affetti,… Una vita – all’apparenza – grama, passata dietro al vecchio torchio, usando caratteri di piombo sciolti (i Bodoni) elegantissimi ma consunti, e a racimolar soldi (spesso scarsi) per l’acquisto della carta. Impegno che gli aveva reso popolarità e simpatie anche fuori dal cortonese, pure in ambienti colti. Gli avevano fatto visita Benedetto Croce, Curzio Malaparte, Enzo Tortora”.

Può aver enfatizzato qualcosa, ma a tutti i suoi tipi, tipetti e tipacci egli guarda con ironia, ma senza sarcasmo: anzi, direi, con affettuosa partecipazione. Ma anche commovendosi, e costringendo alla commozione anche il lettore più scaltrito e prevenuto, quando entra nel profondo dell’animo di personaggi umili, ma capaci di grandi sacrifici; coloriti nell’espressione, ma orgogliosi della dignità loro conferita dal lavoro e dalla coerenza degli ideali morali e politici!

Qui mi fermo, ma vi assicuro che la lettura del libro vi apporterà non solo divertimento del più schietto, ma anche motivo di riflessione sulla natura degli uomini che passano, come rammentano Omero e Mimnermo, come le foglie!

 

[1] Le frasi di Cesare Pavese, la definizione “veritismo” e i passaggi virgolettati sono tratti dalla prefazione di  Fernanda Pivano all’ Antologia di Spoon River, edizioni Einaudi, 1971.

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