HO PORTATO DENTRO PER ANNI UN KILLER SILENSIOSO

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L’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla mortalità umana hanno concluso che dai 55 ai 65 anni la linea nell’istogramma si impenna vertiginosamente, dando luogo a una inequivoca “campana della morte”. In sostanza, prima dei 55 e dopo i 65, si tende a morire in modo sostanzialmente progressivo all’età. Poi, misteriosamente (?), si entra nel decennio che rappresenta il triangolo delle Bermuda del genere umano. Personalmente, ancora dento l’età della “campana della morte”, non avevo preso particolari iniziative a sostegno della mia salute: dieta, smettere di fumare…, salvo una presenza più assidua in palestra. Né m’ero curato di fare periodici controlli preventivi, salvo quello suggerito dalla USL per il cancro al colon e gli annuali controlli ematici che  vengono fatti a noi donatori AVIS. Insomma, il mio approccio preventivo alla salute, in quest’età che io sapevo particolare, era fatto alla Carlona. Approssimativo. Senza particolare metodo. Stesso atteggiamento adottato per il mio tallone d’Achille: la cura dell’ipertensione. Avevo raggiunto un equilibrio mescolando movimento in palestra, la domenica passeggiando per la nostra meravigliosa campagna, e le compresse che m’erano state prescritte. Più volte, negli ultimi dieci anni, diversi cardiologi m’avevano fatto accertamenti: elettrocardiografici ed ecografici. Con esiti sempre favorevoli sulle buone condizioni del cuore. Salvo farmi notare un certo aumento della dimensione del cuore e dei vasi sanguigni vicini. E con questo rovello ho aspettato quattro anni senza altre indagini.

Fino a due settimane fa. Quando, sollecitato anche dai miei cari, ho deciso di fare nuovi controlli attraverso persone nuove, ritenute qualificate e competenti.

La prima sorpresa: la cardiologa nella vista ecografica, dopo avermi sostanzialmente tranquillizzato sul mio grande cuore sportivo e crapulone, è uscita dal torace, scendendo nell’addome. Senza allarmarmi, ma freddamente, come io preferisco, mi ha svelato la presenza in pancia di un ospite strano e di una certa dimensione. “Potrebbe essere una ciste da echinococco, ma vai da un buon ecografista”. Non ero uscito dall’ambulatorio che avevo già contattato per l’indomani il dr. Caremani.

Per i pochi rudimenti medici che avevo, dissi subito a mia moglie: “Questa non è una ciste da echinococco!” Amo gli animali domestici, ma non ho mai usato loro cure materne o coccole; ci ragiono a sguardi, a parole o con piccoli premi alimentari.

L’esito della visita del dr. Caremani chiarì esattamente il mio problema: portavo in pancia un aneurisma aortico delle dimensioni di sette centimetri. Una specie di palloncino, pieno di sangue, che se si fosse accidentalmente rotto, la mia aspettativa di vita sarebbe stata di tre minuti. Quel killer silenzioso (non è che non mi avesse avvertito, ma con segnali che ho sempre sottovalutato), forse, me lo portavo dietro da un decennio: essendo la sua crescita annuale stimata in circa mezzo centimetro l’anno, lui era quasi otto centimetri… Volendo sdrammatizzare, confidai al medico la mia relativa soddisfazione: “Toccandomi, preferisco l’aneurisma al tumore!…” “Toccati! Toccati!…” fu l’unica replica alla mia facezia. Caremani mi consegnò l’esito delle sue indagini chiarissime e l’indirizzo a cui avrei dovuto immediatamente rivolgermi – il dr. Mario Neri della Chirurgia Vascolare -, che presi come assoluta garanzia di professionalità. Come ho sempre stimato il dr. Caremani, da quando lo conobbi in corsia d’ospedale, una quarantina di anni fa.

Senza perdere tempo, per una casualità fortunosa (?), il pomeriggio successivo, venerdì, ero sul lettino dell’ambulatorio, dentro una luce soffusa, e una piacevole musica di sottofondo, il dr. Neri non mise molto tempo per confermare l’esatta diagnosi di Caremani “Marcello non sbaglia mai! Ci ha insegnato a tutti a usare l’ecografo!”. Giusto il tempo di rivestirmi, già il medico mi prospettava le possibili soluzioni chirurgiche. Nella mia totale ignoranza, avrei preferito che nel mio caso il dr. Neri avesse indicato l’intervento meno traumatico, per endoscopia. Ma lontano da me l’idea di non affrontare al meglio il problema, qualsiasi fosse stata la tecnica necessaria. Mentre nel mio cervello m’interrogavo sulla soluzione al problema, il dr. Neri aveva già messo in moto il meccanismo di completamento degli esami necessari anche per una eventuale emergenza. Ero un codice giallo. Non era opportuno tornare a casa. Avrei dovuto attendere da ricoverato in ospedale, salvo imprevisti, il mercoledì successivo in cui sarei stato operato.

Tolto la particolare gravità potenziale dell’aneurisma, le mie condizioni fisiche mi consentivano di trascorrere l’attesa riflettendo pacatamente su tutto quanto può interessare i bilanci di una vita di una persona. Il maggiore timore era riservato al dolore successivo all’intervento chirurgico. A quello dovevo prepararmi. Isolandomi da amici e conoscenti.

Il resto si è svolto, grosso modo, come previsto. Scoprendo un reparto chirurgico dal personale competente, determinato, che lavora in squadra spalla a spalla, con l’unico obiettivo, ridare salute al malato, togliendolo dall’impiccio, se possibile, nel minor tempo possibile. Capii che non era solo professionalità quella del dr. Mario Neri, ma passione per il suo lavoro ed empatia con le persone che gli si affidano. Lo stesso commovente atteggiamento notai nel medico di turno alle prese con la mia lenta ricanalizzazione, quando anche nel suo sguardo lessi il rimprovero e l’incitamento alla mia peristalsi pigra a ridarsi una mossa. A fianco mio c’era un medico, padrone del suo lavoro, ma che aggiungeva alla tecnica corretta un tenero pensiero: “Su, datti una mossa, tanto devi arrenderti!” rivolto al mio intestino.  Al fine di ridurre la mia sofferenza.

 

 

 

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