Ferruccio, alias Ferrutto, un brutto simpatico

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tutti-dormono-sulla-collina-di-dardano-di-ferruccio-fabilliA scuola di medicina, tra le patologie caratteristiche di certi luoghi e di certi momenti storici, ci insegnarono anche il gozzo tiroideo endemico o del cretinismo. Malformazione, dovuta a carenza iodica, caratterizzata da un gozzo enorme, occhi protrusi e faccia inespressiva (facendo facile ironia, un po’ come accade alle persone iperbotulinizzate!). Sindrome destinata a ridursi, se non scomparire, coi progressi della prevenzione medica.

Nell’ospedale in cui svolgevo il tirocinio infermieristico, fu lo stesso docente a proporci l’osservazione di un caso simile. Era un paziente ricoverato per una banale (quanto dolorosa) suppurazione di una puntura da ago. Ma quella persona l’avevo conosciuta da ragazzino, quando sgonnellavo da seminarista alle messe solenni in Cattedrale. Era Ferruccio.

Vestito con sottana chiara e mantellina colorata, era impegnato con altri, vestiti come lui, in mansioni da sacrista: incaricato di suonare le campane, o portare a spalla in processione o in chiesa le immagini sacre. Lui, in certe occasioni, indossava anche la divisa da monatto, le più volte senza cappuccio calato in faccia. Se non ricordo male, invece, nella processione del Venerdì Santo, i monatti si incappucciavano. Appartenevano alla compagnia della Buona Morte. Volontari in via di estinzione, con l’avvento delle pompe funebri, deputati al trasporto gratuito dei morti dall’abitazione fino al cimitero. La loro vista, da ragazzino,  mi procurava una certa inquietudine, sia perché li associavo mentalmente al loro caritatevole, quanto lugubre, ufficio, sia per le facce seriose che, per dovere d’ufficio, dovevano aver sempre.

E fu proprio durante l’illustrazione della sindrome di cui era affetto Ferruccio che mi fu chiara un’altra cosa: non gli era facile cambiare espressione del volto; ad esempio: sorridere. Allegria, invece, stampata in faccia agli altri suoi colleghi sacristi, finita la messa. Quando,  appesi alle corde delle possenti campane, per comunicare al mondo la gaiezza della festa, salivano in alto, staccando i piedi da terra, o tornando in basso abbracciati ai canapi, tenuti con forza, se la ridevano come discoli autorizzati a fare una marachella. Anche Ferruccio volava in alto e in basso ai ritmi del suo campanone, ma restava fisso nella sua espressione severa. Anzi, i suoi occhioni tristi parevano implorare che nulla di male gli accadesse, in quel turbinoso svolazzo aereo da campanari. Non sapevo esattamente se quelle mansioni fossero, in qualche maniera, remunerate dai preti del capitolo diocesano.  Quel che è certo, il fiasco di vino non doveva mancare. Non direttamente in sacrestia, ma nelle vicinanze. Quella specie di remunerazione a fiaschi di vino, ebbe anche la sua manifestazione solenne. La notte di Pasqua. Allorché i portatori venivano parcheggiati nella chiesa del Gesù, insieme all’immagine di Cristo risorto. Da trasportare in trionfo,  a pochi passi da lì, in Duomo, al canto del Vescovo: Resurrexit! Quando dovevano comparire,  di corsa, al centro della chiesa. Accadde che, un anno, il prete incaricato di avvertire i sacristi dell’imminente esclamazione del Vescovo si era un po’ distratto. All’ultimo momento piombò tra i volenterosi portatori, acquartierati nella prospiciente chiesa del Gesù, e con fare molto agitato dette l’ordine di partenza: “Via ragazzi, sbrigatevi! Resurrexit! Resurrexit!”.  I portantini, diligenti, si misero sotto le stanghe, e, in men che non si dica, erano già al cospetto del Vescovo, acclamante la Resurrezione. Se non che, un fiasco di vino traditore era rimasto ai piedi della statua del Cristo risorto.

Col tempo, fu proprio il vino a rovinare, fino alla morte, il povero Ferruccio. Limitato dal torpore psichico, ne soffrirono sia la vita di relazione che lavorativa. Amato e rispettato da tutti, sempre dignitosamente vestito. Se capitava di incontrarlo per le vie della città, rispondeva al saluto, proseguendo la sua strada con la solita faccia triste e severa.

Gli ultimi anni di vita, a causa del bere e di una serie di acciacchi collaterali, diventò ospite assiduo dell’ospedale. Dove fu accudito amorevolmente. Così come altrettanto amorevolmente veniva rimproverato dai medici e dagli infermieri perché, nonostante tutti i malanni, lui seguitava a bere vino, nascondendolo nei posti più impensati: finanche nei secchioni della spazzatura.

E non mancarono simpatici quotidiani siparietti, tra lui e il personale ospedaliero, divenuto la sua seconda famiglia. Come quando l’infermiera Tita lo rimproverava: “Ferrutto, smetti di bere, altrimenti ti porto in dacciaia!”, simulando il modo di articolare le parole del povero Ferruccio, gli prospettava il trasporto nella ghiacciaia dei morti. Il quale, a sua volta, reagiva deciso a quella minaccia: “Ntulo Tita! Io Tane!” . Così come non si faceva scrupoli a protestare per il solito pasto: “Tita! Io Tane, tutti i dorni o tavolo o tavolella!” scocciato dei soliti cavolo o cavolella.

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tutti-dormono-sulla-collina-di-dardano-di-ferruccio-fabilliFerruccio è uno dei circa trenta personaggi pubblicati su questo libro.

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