DON DOMENICO RICCI, economo scrupoloso e dispensiere del buon umore

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Grazie anche alle cure di don Domenico venne realizzato l’imponente mosaico del san Marco di Gino Severini, collocato nella chiesa urbana dedicata al Santo, rivolto verso la Valdichiana e il Trasimeno. Potessimo chiedere al Parroco, don Domenico Ricci, al Vescovo, Giuseppe Franciolini, e all’Artista, Gino Severini, avremmo nota la trafila che portò al compimento dello splendido ritratto dell’Evangelista assiso e del leone accucciato. Ognuno mise del suo. Franciolini, mecenate e fine intellettuale, ne fu ideatore e sponsor. Innamorato di Cortona, volle celebrare s. Marco, a cui la tradizione affiancava un leone, presente nello scudo araldico cittadino. Molti Municipi hanno un leone, non sempre riferito a s. Marco, bensì emblema di forza e coraggio. A Franciolini piacque associare l’Evangelista alla stessa fiera presente nello stemma cittadino. Oltretutto, la Liberazione d’Italia e la fine della guerra coincisero nel giorno dedicato al Santo: il 25 aprile. Mentre al genio artistico di Severini si deve l’opera grandiosa, nella tecnica musiva della Via Crucis adiacente, e sua stessa creatura. Ai cordoni della borsa e al controllo quotidiano in cantiere pensò don Domenico. In quel momento, pure economo del seminario intento a provvedere al sostentamento d’una sessantina di collegiali.

Basso di statura, grassoccio, capelli radi e stempiato, due gote bianche e rosse da buongustaio gli incorniciavano un sorriso del buon umore che di rado l’abbandonava.

Come insegnante in quinta elementare fu ideale – mia àncora di salvezza, in fuga dalle grinfie d’un arcigno maestro nozionista Camuciese – nella microscopica classe di tre alunni: me, Ermanno e Alvaro; coccolati e lasciati spesso soli per star dietro alle sue molteplici incombenze. Qui Quo Qua (scolari scansafatiche), ogni volta che  don Domenico lasciava soli, sbrigati i pochi compiti assegnati in classe si dibattevano in interminabili partite di calcio, usando per pallone una cimosa. La piccola classe a quel punto si trasformava nella più fracassona del piano, disturbando le altre impegnate nello studio. Non solo, i tre diventarono pure ladri di merendine.

L’economo, don Domenico, aveva stivato in un angolo dell’aula pacchi misteriosi, dove all’esterno si leggeva solo la sigla POA (Pontificia Opera Assistenza) e uno scudo raffigurante la bandiera USA, paese donatore. Un giorno, qualcuno inseguendo la palla-cimosa con un calcio forò uno scatolone da cui uscì fuori una pasta! Di quelle secche quadrate, usate la mattina nel caffelatte… Dapprima titubanti, alla fine furfanti, il primo scatolone andò presto a svuotarsi. C’erano da attendere i rimproveri del Maestro. Che non vennero. Anzi. Scoperto il vuoto, non fece altro che gettarlo nella spazzatura. E Qui Quo Qua seguitarono a scovare paste secche dalla ricca scorta…

Paterno verso i seminaristi, don Domenico era un parroco amato dai fedeli del suo quartiere popolare. E per le capacità oratorie, spesso, veniva invitato da altri sacerdoti a tener prediche in particolari ricorrenze. (Da chierichetti, alle viste d’un predicatore, capivamo l’eccezionalità della festa, sottolineata da effluvi appetitosi provenienti dalla canonica). La sua voce squillante si notava anche nei canti alle Messe solenni in Cattedrale, dove sedeva nello stallo da canonico se non impegnato tra i celebranti. Dotato di un’oratoria semplice e argomentata, condita di metafore e racconti pure ironici tratti dalla vita comune, incantava l’uditorio illustrando precetti religiosi.

Noi seminaristi godevamo della sua compagnia specie durante le vacanze estive a Sant’Egidio, dove alloggiava in una casetta adiacente al corpo centrale dell’Eremo. Sedotti dalla sua specialità: le barzellette! in genere, riferite a fessacchiotti o colleghi preti, viventi o trapassati. Storielle “non sporche”, uniche ammesse in quell’ambiente.

Come nel caso d’un prete ghiotto di soldi. La gente stanca della bramosia, all’accatto dell’elemosine, riempì la sacca di fave secche. Il pretonzolo dispettoso, la domenica successiva, si vendicò. Bollita una ciotola d’olio, alla benedizione,  vi asperse i fedeli, declamando: “Popolo mio, matto e spirtatooo, pe’ le fave ce vo’ l’oliooo!..”

Un’altra. Un predicatore dal pulpito, dopo un avvio caloroso, d’abitudine, proseguiva da seduto una lagna oratoria, pronunciando sempre la stessa frase: “E ora passiamo dall’altra parte!” Sennonché un giorno, un burlone lo fece davvero passare dall’altra parte: scansandogli la seggiola, finì gambe all’aria rotolando giù dal pulpito!…  E ancora. Durante la predica domenicale, per tener desto l’uditorio, il prete domandò: “Conoscete Tobia?” intenzionato a raccontarne le gesta bibliche. Quando un  popolano, senza esitazione, rispose: “Certo che l’conosco!… Tobia e ‘l su’ Tobiolo, stanno alla Piumacceta!”  E ancora. Un campagnolo sprovveduto, in visita in Città, volle pranzare in trattoria. Analfabeta, non intenzionato a svelarsi, mise il dito sul menù indicando un piatto di fagioli, ch’era il suo desinare quotidiano!… Vedendo a fianco un tipo che, consumata una bistecca, ordinando al cameriere: “Replica!” gliene fu servita un’altra altrettanto succosa, pensando d’aver capito tutto, a sua volta ordinò al cameriere: “Replica!” Ma – disdetta – a lui fu servito un altro piatto di fagioli!… E ancora. Don Chiericoni, detto don Rombo, noto per aver cacciato a cazzotti fascisti malintenzionati, ordinò al sacrestano di accudirgli la mula, suo mezzo di trasporto. Invece di acquistarci biada per la mula, i soldi il sacrista se li beveva, gonfiando la bestia con la pompa da biciclette. Don Rombo era tranquillo, la mula non deperiva. Finché un giorno, necessitandogli la cavalcatura, salito in groppa, una colossale scorreggia (da lì il soprannome don Rombo?) svelò le malefatte dell’assistente sbevazzone… L’ultima. Un prete durante le funzioni religiose non volendo esser disturbato dalla perpetua, ne accettava messaggi tramite uno spioncino nascosto. Quel giorno, imprevisto, fu donato al prete un bel pollo spennato, che la perpetua mise sulla fessura per ricevere ordini sulla cottura. Il prelato, senza interrompere gli uffici sacri, improvvisò un canto: “Bene fecisti Catarinella mittere pullum in finestrella! Mezzo lesso e mezzo arrosto per eumdem Cristo domino nostro!…”

Per le infinite facezie, tra i più bei regali ricevuti da don Domenico, mi piace pensarlo in cielo sopra una nuvoletta sorridente mentre è intento a far sganasciare dalle risate.

www.ferrucciofabilli.it

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