BOCCA di ROSA, faceva l’amore ma era delusa

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Un ritrattista difficilmente riuscirebbe a cogliere l’essenza d’un personaggio senza averlo di fronte, altrettanto impensabile è descriverlo a parole, senza tirar fuori uno sgorbio. Le difficoltà si aggravano volendo descrivere la storia di una donna dai facili costumi  realmente esistita, trattandosi d’una professione considerata disonorevole, la penna deve volar leggera senza offrire troppi indizi identitari.

Ho un carissimo amico, Enzo, col quale, adolescenti, condividevamo molte serate a chiacchiere e zingarate. E, per quanto di poco più giovane, sui divertimenti era più sveglio. Non avevamo compiuto venti anni. Più rapido e intuitivo di me, ero felice d’essergli amico. A volte, anche rischiando inconvenienti: quando al cinema faceva incazzare i vicini anticipando a voce alta la scena successiva. Mi chiedevo da dove gli derivasse quell’intuito cinematografico. Raccattava curiosità dappertutto.

Un giorno gli confidai la nomina a rilevatore nel Censimento della popolazione, e che, in quella veste, l’indomani avrei visitato la tal strada cittadina. Non finii di pronunciarne il nome che si propose come accompagnatore.

Poco prima di giungere a un certo numero civico, abitato da una persona che gli era nota per fama, sghignazzando disse: “Qui abita la Tal de’ Tali! Una che fa le marchette!” Condivisi il riso sguaiato, ma fui colto dall’imbarazzo, avrei preferito scoprirlo durante il rilevamento.

Stava svanendo la mia serenità, usuale nell’affrontare le persone, libero da pregiudizi.

Saranno state le undici di mattina. Ci ricevette in vestaglia (non trasparente) una signora per noi anziana (anche una cinquantenne ci pareva già vecchia), alta, slanciata,  attraente, e dai lineamenti del volto gradevoli non deturpati dalle rughe d’espressione, pur presenti. Dalla faccia e dallo sguardo, somigliava vagamente agli autoritratti di un artista cortonese riprodotti nel Duomo d’Orvieto.

Molto cortese, ci fece accomodare nel salotto dal finestrone che dava sul Trasimeno. Ben presto, capì che si trattava di un adempimento burocratico ordinato dal Comune, e non della visita di due venditori di chissà cosa. Però mise le mani avanti, dicendo di vivere in miseria… il palazzo e la vecchia mobilia l’aveva ereditati dai genitori… Meglio la prudenza, quel Censimento sarebbe valso anche per le tasse? Chissà?

Saranno stati i nostri sorrisi di circostanza, la nostra età, giustamente considerati di primo pelo, o il desiderio di giustificare il suo stato? Non saprei. Pareva avesse intuito la nostra conoscenza del suo “mestiere”, il più antico del mondo.

Ultimato il questionario, senza preamboli, volle darci una certa confidenza aprendo un cassetto da dove estrasse una manciata di fotografie –  le più in bianco e nero, altre a colori, tutte  risalenti a una trentina d’anni prima -, che stese sul tavolo.

Erano suoi ritratti giovanili. In abiti eleganti, pose fatte anche in studi fotografici. Alcune in costume da bagno. Una gnocca notevole. Elegante e seducente. Mentre sbirciavamo particolarmente le pose più audaci con occhi voyeuristici da segaioli, la signora commentò con accenti amari: “Ero una bella ragazza. Ma Lorenzo m’ha rovinata!” cercando di spiegare l’identità del cortonese che l’avrebbe “rovinata”. Con noi campagnoli, inutilmente. Tanto limitate erano le nostre conoscenze cittadine.

Spiegò diffusamente la sua rovina ai due tontoloni, nella retorica comune ai toscani: ridondante, ripetitiva, recitata…

In sintesi: un giovane della Cortona bene, con le lusinghe del matrimonio, l’aveva sedotta, messa incinta e abbandonata insieme alla prole, per sposarsi con un’altra!

Dopo quella batosta, fu costretta ad allontanare da casa il pargolo o la pargola – non ricordo – e s’era dovuta arrangiare, per mantenere sé stessa e il neonato. Tra mille difficoltà. Da  “svergognata”, non riuscì a trovare un lavoro decente, né alcun’altro con cui accasarsi, né un buono né un cattivo partito. Lei, bella e intelligente, senza sostegni familiari, ferita a morte nei sentimenti e nell’orgoglio d’essere considerata un’ingenua che la dava facile!

Raccontò la vita travagliata nella città provinciale, moralista  e maldicente, in cui l’unico aiuto concessole per vivere e crescere un figlio fu darsi agli uomini, a pagamento. Gradevoli o sgradevoli che fossero, costretta ad accontentarli tutti. Specialmente in quegli anni, giunta quasi all’età della pensione. (A pochi anni di distanza dal Censimento, si ricoverò nella Casa di Riposo Sernini).

Purtroppo per lei, noi due eravamo un ben misero uditorio. Pure maldestri nel trovare parole di occasionale solidarietà. Ma, forse, a lei bastò sfogarsi un po’.

Solo a freddo riuscii a trarre la morale da discorsi improntati a pudore e sottintesi. Che valevano anche per giustificarsi: “Faccio la prostituta, da allora. Delusa e amareggiata dalla vita, per come fui costretta, a quella maniera, a dare il mio corpo per soldi. Lorenzo e con lui tutti gli altri uomini, approfittando delle mie debolezze, m’han fatto passare una vita amara e rancorosa!”. Sentimenti leggibili nella espressione delle labbra: strette e piegate in una smorfia di sofferenza. Labbra che avevano baciato tanti uomini, non per amore. O, perlomeno, di rado per amore.

Uscendo da quella casa, per un po’ non proferimmo parola. Come intronati dall’incontro con una donna triste ch’avevano immaginato lussuriosa e viziata.

Per noi, fino a quel giorno, una Bocca di Rosa doveva somigliare, senz’ombra di dubbio, a quella cantata dal mitico Fabrizio De André: allegra, conturbante, concupiscente, che “faceva l’amore sopra ogni cosa”.

www.ferrucciofabilli.it

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