ANTONIO DI MAIO, camorrista al “soggiorno obbligato” nel territorio cortonese

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Da sindaco di Cortona, ogni giorno si presentavano vari problemi. Magari simili tra loro, ma spesso in nuove varianti e imprevisti. Dopo un po’, acquisivi la bussola per trovare una soluzione anche a questioni insolite. Come fu affrontare la decisione di un organo giudiziario napoletano che obbligava “al confino” a Mercatale (questa era esattamente la località scelta) del camorrista Antonio Di Maio.

La macchina comunale, all’arrivo dell’ordinanza, entrò in fibrillazione, ma la responsabilità maggiore cadde sul sindaco, il sottoscritto. Che avrebbe dovuto, in quattro e quattr’otto, procurargli una dimora, per un lungo periodo. Se ben ricordo, per circa tre anni. La prima reazione fu politica: com’era stato possibile individuare la pacifica comunità mercatalese a luogo di confino? Ponemmo il quesito a parlamentari, al prefetto e ad ogni altra autorità alla nostra portata. Oltretutto, le norme in materia stabilivano che i luoghi deputati al confino dovevano essere piccoli comuni, mi pare, inferiori a tremila abitanti. Ma anche questo motivo, che ci pareva decisivo per smontare quella decisione, fu respinto al mittente.

Finché – nel bel mezzo dell’arzigogolarci su questioni giuridiche e sulla inopportunità sociale nel turbare una collettività con tale intrusione – un pomeriggio fummo chiamati d’urgenza dal Maresciallo di Mercatale: il Di Maio era già in caserma. Il Comune dove aveva deciso di allocarlo?

La piazza antistante la caserma brulicava di gente, in gran parte curiosi frementi di indignazione, sollecitati alla rivolta da capipopolo locali; schiera rafforzata nella circostanza anche da personaggi sopraggiunti dal vicino comune di Lisciano Niccone. Tra cui ne ricordo uno, noto imprenditore, tra i più sguaiati e indignati nel lanciare invettive contro tutti. (Anni dopo, misteriosamente assassinato nelle sperdute isole Vanuatu in Oceano Pacifico. Ci sarà stata qualche attinenza tra quell’omicidio e il “nostro” camorrista? Non si sa. Qui non è il caso di dilungarsi, ma nel seguito del racconto si capirà il senso del mio interrogativo. Da lacunose notizie, lo sfortunato, laggiù, si occupava di costruzioni edilizie, mentre a Lisciano si occupava d’altro).

Al sopraggiungere del tramonto fu trovata la soluzione che, pur nello scontento generale, fu accettata come la meno peggio: entro pochi giorni il Comune avrebbe destinato a Di Maio un ex edificio scolastico, fuori dal paese; nel frattempo, un ristorante e una pensione l’avrebbero “parcheggiato”.

La trattativa fu pittoresca, e, per fortuna, proficua. Infatti, nella confusione generale della piazza, intervennero: il Camorrista e i suoi Compari – che l’avevano accompagnato in automobile -, il Maresciallo, i Consiglieri di Circoscrizione, i Titolari della pensione e del ristorante, il Prete, i Capipopolo,… Sindaco e Assessore .

Di Maio fece la sua parte conciliante. Convinto che da quella destinazione nessuna autorità l’avrebbe sottratto, fece del suo meglio nel palesare qualità umane.

Moretto, statura bassa, faccia serena, con un rotolo di bigliettoni che ogni tanto toglieva di tasca, a dimostrare ch’era in grado di sostenersi, non dico che alla fine si era conquistata la simpatia della piazza, comunque ne aveva sopite le asprezze.

Senza dubbio, fu lo spettacolo teatrale en plain aire tra i più intriganti a cui abbia mai partecipato bassa. Senza regia, numerosi personaggi, con l’unico canovaccio: trovare casa al camorrista confinato in un angolo di Toscana incuneato nel territorio umbro.

Ci congedammo lasciando acque forse torbide, per lo meno non più agitate, nel timore di qualche sorpresa. Avevamo dato la parola: in tempi rapidi l’edificio scolastico sarebbe stato reso disponibile, e così fu; come fu efficace l’Assessore ai servizi sociali che si offrì di intervenire per ogni evenienza … Le questioni si stavano appianando, asseriva l’Assessore, che trovavo sempre ottimista. Di Maio si dimostrava socievole. Specie gli arringa popolo, erano i suoi abituali compagni di interminabili partite a carte e bisbocce. Anche se coi locandieri non era stato tanto di manica larga, com’era lecito supporre, invece tra i “compagni di merende” conquistava amicizie. Stanco della vita di paese, lo stesso Assessore s’incaricava di portarlo a Cortona per qualche ora, col permesso del Maresciallo. Il Di Maio s’era sdebitato con l’Assessore invitandolo nella scuola-casa (sia pure coi servizi igienici adatti ai bambini, su cui Di Maio rideva divertito) per un pranzo luculliano. Un cuoco campano era giunto a cucinare una discreta quantità di pesce fresco del Tirreno.

Di Maio, dalla vita intrecciata con la criminalità organizzata, preoccupato per il futuro dei figli, immaginava per loro una vita svincolata dal malaffare. Al piccolo, insegnava la risposta alla domanda: che mestiere fa tuo padre? “O ferraro” Il fabbro.

Visto suo padre vivacchiare stentatamente, avendo da mantenere uno stuolo di figli, Di Maio un giorno era salito nell’ufficio del sindaco del suo paese e, pistola in mano, aveva chiesto la concessione del servizio di nettezza urbana. Senza fiatare, gli fu subito assegnato. Da lì iniziò il suo percorso da camorrista. Finito tragicamente, poco dopo il soggiorno a Mercatale. Convocato in tribunale come testimone, sapendo d’essere nel mirino d’una cosca, invece di usare la propria vettura chiese un passaggio ad un giovane studente. Furono ambedue abbattuti a colpi d’arma da fuoco.

Di Maio capiva presto tra i suoi interlocutori quali fossero le persone aliene al suo mondo e chi, al contrario, sarebbe stato un potenziale camorrista o persona disposta ad entrare in affari con la criminalità. Tanto che, conversando con una persona perbene, gli offrì un suggerimento: non accettare mai l’aiuto di una organizzazione criminale, perché i soldi non ti mancheranno, ma arriverà un giorno in cui qualcuno ti dirà: questa roba non è più tua, ma nostra!… Lasciando immaginare la fine di chi si fosse rifiutato a cedere…

www.ferrucciofabilli.it

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