Vita popolare e storie del Novecento nell’autobiografia del maestro Agostino Svetti

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Svetti 1Di norma ci accostiamo alle autobiografie prevenuti, temendo agiografie stuccose, rese esose da ego smodati. Ma se la lettura prende, fino all’ultima pagina 250,  significa ch’è un bel libro, come “Il Maestro” Storie della notte di Agostino Svetti, Murena Editrice. Curato postumo dalla figlia Maria Licia. Autoritratto del maestro, dalla nascita alla morte, calato tra la vita di ceti popolari. Difficile trovare, in un unico libro, migliore specchio sulle vicende umane del passato prossimo cortonese e chianino. In cui storie locali e nazionali, personali e collettive, si intrecciano per tutto il Novecento, filtrate da uno sguardo arguto e colto.

Una volta emancipatosi, non assunse pose da parvenu (frequenti in provincia), bensì Gostino – per gli intimi – uscito dalla miseria divenne amato e stimato maestro elementare, alla mano, mai dimentico delle radici. Dalla vita piena di affetti se pure tribolata – simile alla maggior parte dei conterranei –, lucidamente ripercorsa in un compendio di storie viste o vissute, narrate con schiettezza campagnola.

Scritto con mano fragile, ultranovantenne, a fatica, durante consuete veglie notturne. Abitudine mai smessa, presa da ragazzo per studiare la notte, e mantenuta anche da maestro per correggere i compiti. Il risultato è uno splendido affresco, dalla prima guerra mondiale ai giorni nostri, protagonista, insieme a lui, gente semplice.  L’intreccio costante tra storia nazionale ed eventi personali e familiari parte dal primo Svettino – nell’accenno alla saga familiare degli Svetti -. Di origini campane, deposto a Cortona tra gli orfanelli, a metà Ottocento, da madre amorevole ma “disonorata” da quella gravidanza.  Agostino cozza spesso amaro con la Storia. Partecipe, vittima, non di rado indignato e disgustato, prende le difese del popolo afflitto e impotente innanzi alle catastrofi belliche della prima e seconda guerra mondiale. Il primo dramma personale precedette addirittura la sua nascita! Nacque orfano del padre Agostino – ucciso da una malattia contratta in guerra (’15-18) – che lo concepì negli ultimi attimi d’amore con la sua sposa. Sventura che, nel bene e nel male, condizionò i destini familiari. Poi venne la seconda grande guerra, altro impatto tragico con la Storia. Pur essendo figlio unico maschio di vedova di guerra, venne chiamato alle armi in piena  rotta bellica italiana, nel 1943. Dove gli capitò di tutto: da stringere la mano al principe Umberto, subendone il fascino, all’assistere ai disastri della guerra. Di stanza nel Sud Italia bombardato dagli angloamericani, neo ufficiale dell’esercito, istruito in fretta e furia, raccolse a brandelli civili inermi e commilitoni, e compì la stessa opera pietosa raccapezzando corpi tra le macerie, al seguito delle battaglie a Montecassino e nei pressi della linea Gustav. Nell’Italia degli umili e dei semplici, sconfitta, umiliata, dilaniata dalla guerra civile, l’8 settembre segnò la svolta che lo ricongiunse alla sposa novella Wilma. Per i militari presenti al Sud, ci fu l’opzione di tornare a casa. Di quei momenti, Agostino ricorda l’assalto affettuoso e trepidante dei familiari al suo “Casone”, e, al contempo, vide l’incertezza tragica nel compagno di viaggio nel ripresentarsi a Montecchio, temendo ritorsioni: Beppino era partito volontario in guerra nella milizia fascista.

La scrittura semplice da dettato elementare – pregio, non limite – è incalzante come lo scorrere del film della vita nella mente del moribondo. Tono e lessico schietti e pacati del conversare tra amici. Gentile, educato al timore dei precetti cristiani, a cui si attenne. Agostino interloquisce, nell’intimo, tra sé e i personaggi narrati da cronista e storico (“Io, appassionato di Storia, sempre desideroso di sapere tanti avvenimenti, non smetterei mai di parlare con qualcuno di tante vicende che, una dopo l’altra, corrono nella mia mente”). Fatti e individui evocati senza perifrasi: sfruttati, onesti, disonesti, coglioni, affettuosi, malevoli,… quelli sono, senza code di aggettivi retorici edulcoranti, né orpelli inutili al racconto che scorrere come un fiume placido. Certi mantra  ricorrono.  Riguardando i suoi maggiori affetti: la moglie Wilma, la bambina dal cappellino bianco; il padre Agostino che gli donò la vita e, morto per cause belliche, gli lasciò in eredità una pensione che gli consentì studi magistrali; così come è grato alla mamma per avergli reso la vita meno aspra da misero studente pendolare (il retaggio dei tempi: la scelta di far studiare il figlio maschio anziché le femmine). Le scuole, a Cortona e Castiglion Fiorentino,  erano distanti molti kilometri, che egli, risoluto, perdurò  a raggiungere a piedi e in bicicletta tra fango e intemperie.

L’autobiografia di Svetti  non vedrei azzardato avvicinarla alla scrittura di Celine del Viaggio al termine della notte e  Morte a credito. Romanziere che seppe meglio capire e rappresentare il Novecento, illuminandone, con provocatoria originalità espressiva, gli aspetti essenziali. Descrivendo la vita così com’è, da cronista. Pur partendo, i due, da sostrati ideologici e caratteriali diversi. Ferdinand (Celine)  ragazzo discolo, combinandone di tutti i colori, fu messo in collegio e, adulto, passò alla storia come tenace filonazista e antisemita; Agostino ragazzo diligente e ubbidiente, adulto fu democratico cristiano, antifascista, rispettoso delle idee  altrui. Tuttavia, i due sono accomunati da doti speciali efficaci nel racconto  cronachistico dei loro tempi. Agostino, raccontando, non emette condanne verso i suoi pari, mentre si indigna (molto) verso i potenti (come il Duce) capaci di rovinare la vita ai semplici. Prendiamo la storia di Ciro, detto Ciccillo. Furbastro di Montecchio, scalmanato fascista poi capo comunista. Scansafatiche, piangendo miseria, grazie alla solidarietà dei compagni, alla sua morte si scoprì aver accumulato una fortuna milionaria “…eri così buffo, tutti stavamo volentieri con te, perché eri uno scaccia pensieri”. “Faceva il povero, vestito da straccione, non trovava lavoro perché non aveva voglia di faticare”. Risparmiò anche sulle spese della sepoltura: “Il tuo funerale scosse tanto me, quanto i tuoi cugini Attilio e Fiore. La buca dove foste messo ci inorridì: scavata con lo scavatore e racchiusa con grosse zolle di sabbione intriso di acqua”.

Seguendo l’avventura di Agostino, vien fuori una mappa di paesi, città, e semplici toponimi, anche lontani da Cortona e dalla Valdichiana, che, grazie a lui, diventano familiari al lettore, come fosse lui stesso in scena. Restringendo la topografia del racconto a livello locale, verrebbe facile figurarne il parco letterario della memoria di Agostino Svetti. Anche se molti edifici sono scomparsi e certe topografie mutate, riusciremmo lo stesso a immaginare il “Casone” e la scuola elementare a Montecchio, fulcro d’una giovinezza misera ma felice; la chiesetta a Chianacce, dove conobbe la bambina sua futura sposa; Cortona e il ginnasio, dove studiò ed estese amicizie, molte delle quali dureranno una vita; Castiglion Fiorentino delle scuole magistrali, forgia dei maestri chianini, studenti spesso costretti a interrompere gli studi liceali, non in grado di permettersi l’Università, convertiti in maestri; infine, Camucia. Dove Agostino visse gran parte dell’età adulta, prima alle case Popolari di via Scotoni, poi nella casa costruita a fatica con mucchi di cambiali. Camucia affamata di maestri, in piena espansione. Negli anni Sessanta se ne contarono almeno 16, tutti quanti rimasti nel ricordo di Agostino, insieme al Direttore Fabiani. Con cui resse l’associazione ex-combattenti, finchè, sopravvissuti solo loro due, decisero di liquidarla.

L’autobiografia di Agostino Svetti, lezione di scrittura realistica ed etica non moralistica, è patrimonio letterario e storico di tutti i chianini. Documento su quell’ universo popolare che ai nipoti sarà del tutto ignoto, oscurato dal consumismo e  dai nuovi costumi di vita molto più  spesi in effimere sfere virtuali, quando in passato esisteva solo, nuda e cruda, la vita reale.

fabilli1952@gmail.com

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