UN PADRE RITROVA IL FIGLIO DOPO 40 ANNI, COMPLICE ANCHE UN LIBRO

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Nei tre anni di gestazione di una storia su due estremisti neri aretini, veniva spesso a trovarmi Luciano Franci, uno dei protagonisti del racconto, rimasto ingiustamente sotto processo per oltre tre lustri, accusato della strage sul treno Italicus del 1974. Tra i tanti dispiaceri della sua travagliata esistenza, quelli che più spesso ricordava era la distruzione della sua famiglia a seguito dell’arresto e la “perdita” dei tre figli. Trasferiti dalla madre in Francia, presso i suoi genitori. La figlia più grande, Vanessa, di sua iniziativa, era tornata a far visita al padre ancora in prigione, ma degli altri aveva perso ogni traccia.  Il più piccolo, Alessandro, aveva giusto fatto a tempo a vederlo in fasce.

Una volta uscito il mio racconto, attraverso Facebook, iniziò un tam-tam tra amici, parenti conoscenti, curiosi di conoscere la biografia di Luciano, che per tanto tempo aveva rinunciato a rendere pubblica. Negli intrecci di quei contatti virtuali, qualcuno si imbatté in Alessandro. Cresciuto in Francia, presso i nonni materni, è un giovane non ancora quarantenne che lavora come capo squadra della manutenzione patrimoniale di un comune francese. Invitato a riprendere contatti col padre Luciano, ne è stato ben lieto di farlo. La conclusione è felice. Padre e figlio dopo quasi 40 anni si sono ritrovati, festeggiando con calore questo loro nuovo fortunoso incontro. Il resto della storia appartiene giustamente ai due protagonisti.

Mentre dalla Francia in questi giorni e ore non fanno che giungere notizie tristissime, questa, per me – in qualche modo compartecipe del riavvicinamento tra un padre e un figlio – è un momento felice. Frutto di uno scrivere sorretto dalla ricerca di verità (intendiamoci, non sempre facile) e da un atteggiamento mai superficiale o di becero approccio verso i personaggi trattati. Di qualunque cosa essi si siano resi responsabili. Consapevole che in un libro si possono più facilmente raccogliere fatti, personaggi, stati d’animo, magari più difficili o, peggio, impediti in un dialogo diretto. Non dico che sia questione di parole – anche se a volte può bastare una sola parola fuori luogo per interrompere una relazione -, ma di riuscire a fare un ragionamento compiuto. Questo, non c’è dubbio, che si realizza più facilmente con lo scritto. Non è un caso che in letteratura si trovano dei carteggi  o delle pagine di diario che rappresentano il carattere di un autore meglio di cento romanzi o biografie.

Infine, un amico di ritorno anche lui dalla Francia, dove vive e lavora sua figlia, prima di venire ad una presentazione del solito libro mi ha scritto le sue impressioni che, anch’esse, mi hanno ripagato di ben tre anni di dura gestazione. Si tratta di Pier Giovanni Menicatti, un vecchio (non si offenda, purtroppo lo siamo in tutti i sensi) amico, con cui ci siamo frequentati negli anni ‘90 sugli scranni del Consiglio Provinciale di Arezzo. Non importa dire l’appartenenza politica e il ruolo che ricoprivamo. C’era stima, ed è rimasta. Ed ecco il suo affettuoso commento:

Ho letto il libro dell’amico Ferruccio Fabilli ” Il nero dell’oblio della violenza e della ragion di Stato” (ne parlano domani alle 17 al Caffè dei Costanti). Ne ho apprezzata la scrittura che imprime al racconto un ritmo narrativo senza cedimenti tanto da mantenere viva l’attenzione del lettore anche nelle parti di per sé aride della cronaca giudiziaria. E’ che la stoffa del romanziere, che traspare fin dalle prime pagine, unita a quella del saggista capace di digressioni mai banali sullo stato della nostra vita collettiva, fanno di questa storia imperniata sulle biografie di Luciano Franci e Augusto Cauchi – due fascisti aretini implicati nelle cosiddette “stragi di Stato” degli anni di piombo -non una modesta storia locale, ma uno scandaglio antropologico degli italiani durante l’evoluzione storica della nostra “democrazia difficile” come la definì Aldo Moro. Ne consiglio vivamente la lettura.

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