Aimo Petrucci infermiare coscienzioso e burlone

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ospedale antico di cortonaSembrerebbe illogico essere gioiosi mentre si presta cure a persone sofferenti. Era, invece, la qualità speciale dell’infermiere professionale Aimo Petrucci: affrontare le malattie trasmettendo umanità e buon umore, velando ansie e traversie proprie.

Giunse all’ospedale di Cortona in ripresa, dopo il quasi svuotamento del reparto chirurgico, e in sala operatoria stazionavano le mosche. Segaligno, profilo da rapace, una cicatrice gli segnava una guancia, pelle ambrata di chi sta all’aria aperta, se libero dal lavoro, a caccia o curando l’orto. Scrutava l’interlocutore per coglierne l’umore. Il suo era positivo, anche immerso in pensieri grigi, deciso a far virare al buono lo stato d’animo altrui. Riuscendoci. Sorridente e giocherellone, esperto nei suoi compiti, spontaneo, legava facile usando lo scarno e buffo linguaggio di strada misto al dialetto, seguendo alla lettera il principio del parla come mangi. A noi colleghi, in alternativa al “buongiorno!”, ci apostrofava con epiteti poco eleganti: “Finocchio!” o,  altrimenti, “Trombatore!”, dando vita a spassosi convenevoli. Abbracci virtuali, scevri di malizia e doppi sensi. Equivalenti a “Ciao, ci sono!”, “Al bisogno, chiama!” “Come stai?” saluti rassicuranti, all’apparenza demenziali, quanto invece spiritosi e calorosi. Scintille mattutine, preludi a giornate senza paura, pur immersi in mille sofferenze umane. Fatalisti pronti ad aiutarsi in ogni imprevisto, specie se difficile.

Il mestiere l’aveva maturato nel servizio militare in marina e in altri ospedali toscani. Quando venne a Cortona le corsie ospedaliere si stavano riempiendo di nuovo. Dopo la crisi, a metà anni Settanta, a causa della ridotta attività di Rino Baldelli (chirurgo e ginecologo), funestato da radiodermite alle mani. Allora, un solo infermiere bastava a tenere aperto il reparto chirurgico, pulizie comprese. I pazienti erano così rari che li ricordavi tutti, uno ad uno. Come quell’anziano a cui, al pasto, proposi la minestra grandinina. “Ma scherzi?!… Dal ‘49 non mangio più minestra. Operato allo stomaco, quando tornai a casa, pensando di farmi piacere, mi prepararono grandinina in brodo d’oca! Fui riportato, di corsa, in ospedale coi ai crampi allo stomaco… da morire!”

Il brodo di carne ospedaliero, dato ai pazienti, era più digeribile del grasso d’oca, e qualcuno, come Aimo, gli avanzi l’imbustava per portarli al suo cane. Se non che, un tardo pomeriggio al cambio turno,  nel nutrito via vai dei parenti all’ingresso, ad Aimo, mortificato, schiantò la busta della grandinina! che si sparse, bloccando il traffico. Rapidamente, ripulimmo il pavimento, mentre lui, con verve consueta, raccontò scene ridicole dell’amato cane, facendoci sbellicare. Ghiotto di cotiche di porco, una volta gliene aveva gettata una sana, che il povero cane, poco dopo, la rifece intera! “Non l’aveva masticata sto stupido… l’aveva succhiata! (mimando il verso del cane, bramoso d’ingozzarsi). Dopodiché ha strusciato le chiappe in terra per mezz’ora, sto coglione”. Tanto che, in seguito, volendo fare una sana risata, bastava ricordare una delle scenette del can di Aimo. Fatti simili capitano a tutti, però trasformarli in gag ci vuol talento, soprattutto a saperli raccontare; ad Aimo veniva spontaneo e a getto continuo. Egli vedeva la realtà come sarebbe ideale viverla: con leggerezza e ironia. Quel modo spensierato di porsi farebbe crollare di colpo i clienti a psicoterapeuti e  farmacisti.

Smilzo, a tavola era una forchetta insuperabile. Scherzando, gli si diceva: “Per caso, hai la tenia?!” In realtà, apparteneva al tipo di persone mai sazie davanti a cibi appetitosi. Ricordo la scommessa tra lui ed altri, tra cui il povero Giorgio Ceppi  – altra gran forchetta – dopo una cena succulenta, a Montanare. Scommisero chi per primo fosse riuscito a mangiare una grossa bistecca con l’uovo sopra, alla Bismarck. Non importa chi vinse, ogni rivale spazzolò il piatto, voraci quanto il can di Aimo.

Vissuto fino agli ottant’anni, rischiò la pelle più volte. Salvato dalla sua perizia, autodiagnosticandosi a tempo l’insorgere dei pneumotoraci spontanei di cui soffriva, riuscendo a guidare i soccorritori sul trattamento da fargli.

Uscito dal ruolo d’infermiere, lasciai io ad Aimo lo scomodo posto di ferrista in sala operatoria. A cui si accedeva per capacità tecniche, ma anche se graditi ai colleghi di reparto: le sorelle Dina e Gina, Anna, Marino, Nevia, Milena. In quel lavoro, lealtà e fiducia reciproca tra collaboratori devono essere massime, per la sicurezza degli operatori e di chi sta sotto i ferri. Aimo mi rimproverò più volte d’avergli lasciato quel posto: appagante, ma stressante e faticoso. Se pure nel contesto tranquillo e sicuro creato dal chirurgo, Lucio Consiglio. In sala operatoria si può pensare che ci sia poco da zubbare, ed è vero, specie di fronte a frequenti sorprese crudeli, aprendo addomi di amici, parenti e sconosciuti, ma nel clima di buon umore si lavora meglio.

Caso volle che il mio dirimpettaio, sindaco di Tuoro, fosse Danilo Fruscoloni, fratello della moglie di Aimo. Da tale coincidenza, ebbi modo di valutare uno dei sindaci più amati nella storia del suo Comune. Scomparso precocemente, e non solo dalla scena politica. Era “comunista, comunista!”, avrebbe fatto esclamare Verdone, in un film, a un personaggio simile, brandendo non uno ma due pugni. Danilo e Aimo furono tra  quelli più consapevoli che la fine del PCI sarebbe stata una iattura non solo per i comunisti ma per tutti: cittadini e lavoratori.  Dei cui diritti sociali conquistati s’è fatto strame sull’altare del mercato.

Insieme a Danilo, conobbi l’ottima cucina di sua sorella, accasata Petrucci.

La nostalgia è suscitata da persone, cose, situazioni, e, al trascorrer del tempo, tra le nostalgie più ghiotte ci sono sapori e profumi del cibo di mamme e nonne, ingredienti sui quali la moglie di Aimo era maestra nel ricrearli. Momenti di gioia. Gioia avara con Aimo, negli ultimi anni di vita. Per quanto lui  avesse dispensato allegria a piene mani con la sua presenza in ogni ambiente frequentato. Il destino, spesso, è crudele.

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Aldo Ducci, sindaco di Arezzo, perorò la causa del metano a Cortona

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Aldo DucciSucceduto a Tito Barbini, sindaco di Cortona, nell’80 ereditai un bel bagaglio di servizi attivati: asili nido, mense scolastiche e trasporti a “prezzi politici”, e ambiziosi pacchetti di idee sullo sviluppo economico e civile. Ma nel dar gambe ai progetti, oltre ai progetti, ci volevano soldi. Gli anni ’70 furono avari col Comune di Cortona (consistente azienda territoriale), creandosi un debito di quasi 2 miliardi di lire. Ma il vento cambiò rapidamente, (intuito da chi aveva creato il debito, che lo Stato avrebbe ripianato), perciò furono necessarie  concretezza e rapidità. Seguendo i filoni finanziari in cui lo Stato incentivava i Comuni, e, se necessario, associandosi ad altri per le stesse finalità. Come lo fu per il metano. Fonte energetica, allora, a basso costo e di minore impatto ambientale rispetto ad altri combustibili fossili. Per motivi diversi, e in mancanza di grosse utenze industriali che avrebbero attirato investitori, Cortona era sprovvista della rete metanifera. Mentre il Comune era socio di COINGAS,  Consorzio dei comuni aretini per la metanizzazione, ma ogni volta che in assemblea si poneva il problema dell’estensione della rete a Cortona e Castiglion Fiorentino si lamentavano costi esorbitanti, e la cosa moriva lì. Posi la questione al sindaco di Arezzo, Aldo Ducci, maggiore azionista di COINGAS: se le intenzioni del Consorzio fossero rimaste le stesse di sempre, negative, avremmo tentato strade autonome. Un mezzo bluff,  non avendo nulla di certo, se non la volontà di saggiare il mercato, quella sì, verso  soggetti interessati all’operazione.

Ducci, autorevole decano dei sindaci aretini in seno al Consorzio,  godeva la fama di ottimo amministratore di Arezzo, tra i più avanzati d’Italia. Con calma olimpica, mi dissuase dall’uscire dal sodalizio – già altri territori della provincia s’erano arrangiati da soli – dandomi la sua parola che avrebbe seguito personalmente la questione. L’attesa fu breve. Combinò un incontro a Metanopoli, (frazione di San Donato Milanese) sede dell’ENI, a cui mi recai con Ducci e l’amministratore di COINGAS, Polverini. Per quanto più anziano e l’aura del vecchio saggio, si rivelò piacevole compagno di strada, nella tirata automobilistica di un’intera giornata. Faticosa non solo per la distanza, ma anche per la disabilità di Aldo che soffriva di una gobba notevole. Sulla quale non consentiva a nessuno battute spiritose. Con l’eccezione di un vecchio compagno socialista. Il quale, nelle occasioni politiche in cui si incontravano, gli gettava le braccia al collo gridando: scopa! (Nel gioco a carte, una figura sul tavolo può essere presa da un’altra figura uguale di seme diverso). Nel caso dei due compagni socialisti, un gobbo elideva l’altro, ecco la scopa! Anche Aldo si lasciava al sorriso e allo scherzo.

La trattativa tra dirigenti di ENI e Aldo, negoziatore calmo e tenace di parte aretina, fu favorevole. Una dorsale metanifera di ENI passava in territorio aretino, nel comune di Marciano. Da lì ENI avrebbe costruito a sue spese il raccordo fino a Manciano, sede dello Zuccherificio castiglionese, pretendendone la gestione dell’utenza. Però, a Manciano, avrebbe concesso a COINGAS di fare gli allacci per Cortona e Castiglion Fiorentino. In breve tempo furono pronti i progetti dall’una e dall’altra parte. Nel frattempo, la legge consentiva al Comune di Cortona di accedere a un mutuo a carico dello Stato, e, per tale agevolazione, nel tratto tra Manciano e Camucia le condutture furono rafforzate, fungendo anche da deposito di scorta. Soddisfatti della trattativa, guidati dal buongustaio Polverini, ci “ricoverammo” a pranzo presso la Clinica Gastronomica, a Rubiera di Reggio Emilia.

A quell’incontro, con Ducci, ne seguirono altri istituzionali, dove ne apprezzai  doti di chiarezza, praticità, e lungimiranza. Scuola politico-amministrativa rara.

In particolare, ricordo Aldo al convegno tra Enti Locali europei organizzato dal comune Berlino Ovest. Città ancora divisa dal Muro (1986). Con le autorità dell’Est che però non frapposero particolari ostacoli a più di un passaggio, anche la stessa giornata, al Check Point Charlie. In qualità di Assessori provinciali, col collega Rino Giardini compimmo lo sforzo di andare in macchina, anziché in aereo, come fecero gran parte dei colleghi aretini, compreso Ducci, accompagnato dalla moglie Pia. Col vantaggio nostro di poter scorrazzare a piacimento in città, oltre alle gite in bus organizzate dal Comune di Berlino, a cui partecipammo. Quell’autonomia di movimento ci consentì di recuperare gli stanchi coniugi Ducci davanti all’Opera, in attesa di un bus o taxi. Assistendo a uno dei loro simpatici battibecchi: “Aldo è voluto venire all’Opera, ma, stanchi come siamo, ha russato tutto il tempo! finché non l’ho convinto a uscire!” così Pia incalzava Aldo, spossato e remissivo. Coppia unita, dalle battute spiritose rivelavano affetto e protezione reciproca. Pia esuberante, quanto Aldo pacato e remissivo.  Come accadde nella gita, in bus a due piani, organizzato per la visita al Muro. Incuriosita dal bus a due livelli, Aldo stentava a stare al passo di Pia che l’incitava a seguirla, a gran voce, nella parte alta. Poi, colta da claustrofobia, urlando: “Aldo, non respiro!” costrinse il meno sbrinco Aldo a seguirla, sgambettando, in basso. Finchè, l’intera comitiva salì sulla piattaforma aerea prospiciente la zona del bunker in cui era morto Hitler. Qui sentimmo Aldo ammonire: “Pia, parla piano!” a costei che berciava a squarciagola da comiziante: “Poverini!” di fronte alla visione desolante dell’area abbandonata a se stessa.

Ad Aldo furono tributati funerali di Stato, meritati. Politico eminente e longevo del dopoguerra aretino, emarginato dal rampantismo, in voga, del compagno socialista Vannucci, che, da sindaco di Arezzo, risultò fuoco fatuo nel cuore degli aretini. Contro la lunga permanenza di Ducci ai vertici comunali, capace di migliorare a fondo importanti aspetti culturali, urbanistici e socioeconomici della Città che tutt’oggi permangono.

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Il ricordo del vescovo Franciolini e il danno a Cortona soppressa la Diocesi

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ferruccio 1In Comune, non era intenzione degli organizzatori de L’Etruria svolgere una cerimonia retorica, vuota di senso, a trent’anni dalla scomparsa dall’ultimo Vescovo residente a Cortona, Giuseppe Franciolini. Infatti, il memoriale è partito subito crepitando. La piccola truppa di opinionisti locali de L’Etruria veniva rimproverata dal sindaco Meoni di non aver invitato il Vescovo di Arezzo, contestando la “grave scorrettezza istituzionale”, a cui ha fatto seguire ricordi di infanzie felici, come la sua, all’ombra dell’educazione religiosa, in parrocchie e oratori. La replica di Lucente è stata chiara. In difetto non erano gli organizzatori dell’evento, giornalisti  laici e indipendenti, bensì le gerarchie ecclesiastiche aretine, alle quali spettava prendere un’iniziativa simile. Meglio ancora se più articolata della breve cerimonia di due ore, basata su ricordi spontanei dei partecipanti. Il Vescovo, vissuto un cinquantennio a Cortona, avrebbe meritato almeno una giornata di memorie organizzata dai suoi confratelli. A cui, magari, sarebbe stato opportuno far seguire studi approfonditi su Franciolini, per capire i motivi dell’ampia stima riscossa in vita, in ogni ambito, cultuale e sociale cittadino. Avendo, Egli, traversato mezzo secolo tra i più duri – in tempi recenti –  della storia nazionale e locale, dagli anni trenta agli anni settanta/ottanta del Novecento. Tuttavia, della Curia aretina, era presente il Vicario del Vescovo. Un giovane quarantenne, il cui compito principale è stato lodare il sindaco per le parole spese a favore della pedagogia religiosa, ma era  evidente il sottinteso: la lode al sindaco era per la smaccata presa di posizione a favore del grande Assente, il Vescovo Fontana, contro gli organizzatori dell’evento. La premessa polemica non ha impedito un ricordo corale pacato, piena di spunti, inteso a evidenziare, con numerose testimonianze personali, il carattere poliedrico di Franciolini, attento alla vita dei singoli, alla cura del suo ministero, alla vita cittadina. Cura amorevole,  risuonata in aula dalla sua viva voce nella nota frase: “Cortona è la mia sposa e io sono il suo sposo indegno”, dal documentario di Luigi Vannucchi, girato poco avanti la sua scomparsa. Già dal 1977 si sapeva che Franciolini sarebbe stato l’ultimo vescovo residente a Cortona. Vicenda che l’aveva angustiato, per giunta  impotente, imposta contro la sua volontà. La nuova autorità del Vescovo di Arezzo presto gravò su Cortona, dando prova tangibile del nuovo potere già all’esequie di Franciolini. Immortalate in una poesia, letta da Carlo Roccanti, in cui si ricorda il funerale di Franciolini fatto alla chetichella. Il vescovo di Arezzo, D’Ascenzi, richiesto di traslare la salma con processione dal palazzo vescovile, dov’era il feretro, al Duomo, per la cerimonia funebre, in risposta, impose lo spostamento della salma alla chetichella. Ciò non impedì grande afflusso di popolo al Duomo, che si rivelò incapace di contenere la folla accorsa. Ma il segnale era chiaro: c’era una nuova gerarchia nella diocesi Arezzo-Cortona-Sansepolcro. Prima veniva Arezzo, le altre diocesi, ufficialmente non soppresse ma accorpate, di fatto ridotte a semplici nessi storici; la nuova organizzazione irradiava dispoticamente il potere dal centro alle periferie. Non ci volle intelligenza a capire tale evoluzione, già dal ‘77, quando fu decisa questa novità. Oltretutto la chiesa non è governata da princìpi “democratici”, essendo basata sull’autorità del vescovo. In previsione di tale scenario pessimo, io, sindaco, e, il presidente di Circoscrizione, Nicola Caldarone, ci recammo dal primate toscano, cardinal Benelli, a reclamare il nostro dissenso. Ragionando che altre diocesi erano rimaste in vita, come Fiesole e Orvieto (Lucumonie etrusche) e altre ancora, dai requisiti simili a Cortona. Fu un buco nell’acqua. Però, ci provammo. La storia recente ha accentuato il divario di prospettive e interessi tra Arezzo e Cortona. Come sull’uso dell’ex episcopio, che ha coinciso con l’altro conflitto tra le città: sulla destinazione d’uso dell’antico ospedale di Cortona. Dimostrando, in entrambi i casi, che il potere aretino considera Cortona subalterna. Dove il potere locale è stato ventre molle, il Comune, sulle vicende dell’ex ospedale; mentre non si è tenuto conto del parere del clero e dei parrocchiani cortonesi, sull’ex episcopio, non essendo interpellati. Sul conflitto di interessi, tra Arezzo e Cortona, ho centrato l’intervento in ricordo di Franciolini. Egli vivente, seminarista prima e sindaco poi, io ne avevo ammirato il ruolo nella società cortonese, di collante socioculturale anche per non credenti, grazie a doti umane, politiche, e di mecenatismo. Egli arricchì Cortona in modo straordinario. Basterebbe ricordare, per l’arte, i mosaici di Gino Severini,  finanziati anche a sue spese. E la lista di opere recuperate, tutelate e acquisite da Franciolini, sarebbe lunga, alle quali si  è accennato, nell’occasione, anche da Isabella Bietolini. Tantoché, il vescovo Bassetti pensò di fare dell’ex episcopio un Museo, contenitore degli oggetti raccolti da Franciolini, a cui aggiungerne, magari, gli archivi. Quand’era tutto pronto, il vescovo subentrato, Fontana, decise di destinare a uffici l’immobile restaurato. Tutti zitti, tranne L’Etruria, col direttore Lucente. Polemica che sortì il solo l’effetto di sapere dove, pare, sia depositato il materiale museale. Questo è il motivo maggiore dei dissapori tra Curia aretina e il periodico locale. Tuttavia, la memoria di esempi di civismo e altruismo dati da Franciolini ha suscitato nei presenti molti interventi, evocando l’esigenza del “confronto”, anche tra opinioni contrapposte, indispensabile alla crescita comunitaria. Tema su cui, particolarmente, s’è soffermato  Italo Castellani, consacrato prete da Franciolini, e oggi vescovo “in pensione”. Tema cruciale, il “confronto” come metodo, presupponendo idee da sviscerare e condividere, condizione auspicabile a Cortona, anche in memoria di Franciolini, ma che troppa strada allontana da tale obiettivo. L’assenza di partecipazione, in questo momento, sta impoverendo sia la chiesa che la società civile. Che “la società liquida” sia processo irreversibile, come previsto da Zygmunt Bauman? Povera democrazia.

fabilli1952@gmail.com

franciolini

Giuseppe Franciolini vescovo aristocratico, mecenate, poeta,…dal passo lento

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francioliniSan_Marco_DSC_2635aLa Chiesa offre variegate figure di sacerdoti, vescovi e cardinali. Papa Bergoglio – preferendoli di moralità specchiata, usi al contatto con la gente comune –  fronteggia curiali resistenti alla sua visione evangelica pauperista, presi da privilegi e mondanità, se non lussuriosi malversatori di beni destinati al culto e alla carità.

Franciolini, ultimo vescovo cortonese residente nella diocesi, apparteneva ai prelati dal pensiero aristocratico, in graduale riduzione con la fine della monarchia in Italia, e la rinuncia al triregno da parte dei Papi.

Se pure le sue mani robuste rivelassero che, forse, da giovane le usò in lavori faticosi regalandogli una robusta fibra fisica, con cui superò novant’anni con pochi acciacchi.

Dagli anni Trenta agli Ottanta del secolo passato, resse la diocesi distinguendosi per moralità, senso civico, cultura raffinata, vita sobria, destinando propri averi all’incremento del patrimonio artistico cittadino. Il più prestigioso, commissionato a Gino Severini, fu il mosaico sulla facciata a valle della chiesa di san Marco, dedicato all’evangelista – dal leone simbolico, simile a quello dello stemma cittadino -, e le edicole musive della Via crucis che, da via delle Santucce, finiscono nel piazzale di Santa Margherita. Santa a cui fu molto devoto. Raffigurata sullo sfondo del ritratto giovanile di Franciolini. Vescovo arrivato a Cortona da Nocera Umbra, dov’era stato Rettore del seminario. Altro lavoro artistico finanziato dallo stesso è il portale bronzeo sul pavimento della Cattedrale: copertura della cripta dov’è sepolto.

Indole aristocratica – si sosteneva nutrisse simpatie monarchiche – non si distaccò dagli eventi contemporanei: il passaggio del fronte di guerra e il Concilio Vaticano secondo, a cui partecipò in qualità assistente al soglio pontificio.

Al passaggio del fronte, aveva invitato i curati a tenere il diario degli eventi nelle loro parrocchie, e molte di quelle vicende confluirono nella raccolta intitolata Piccola Patria, curata da Pietro Pancrazi. E, da dietro le quinte, autorizzò il giovane don Giovanni Materazzi a partecipare al locale Comitato di Liberazione, in quota Democristiana, e a impegnarsi con altri partiti al riassetto del Comune disastrato.

Franciolini, consapevole della frattura che divise il popolo cristiano  per la scomunica dei comunisti (componente massiccia tra i fedeli), dopo rigidità iniziali, negando loro i sacramenti, ammorbidì la linea, consentendo nuovamente l’accesso in chiesa a tutti, comprese le giovani coppie di sposi. (Anche se i fedeli non torneranno in chiesa nella consistenza ante scomunica). Così come introdusse innovazioni suggerite dal Concilio: gli altari rivolti al popolo e la liturgia, canti compresi, in lingua italiana. Invitò alcuni vescovi conciliari a Cortona, favorendo il confronto su quella vicenda storica in corso, come fu col vescovo Pollio, ex missionario in Cina, al quale, durante la prigionia, si disse ch’era stata mozzata la lingua, perciò parlava stentatamente.

Sul pronunciato naso rosso (couperose?) di Franciolini, si mormorava indulgesse in alcoliche libagioni; ma la diceria gli portò bene: visse molto più a lungo di tanti astemi. Altra caratteristica era il suo lento incedere (camminando e parlando) che si tramutava in riti dalla lunghezza esasperante. I fedeli dovettero farsene rassegnata ragione. Specie d’inverno, senza riscaldamento in Duomo, al freddo fino alla fine di cerimonie interminabili. Tempi dilatati negli spostamenti da passi lenti e complessi protocolli, indossando vesti pesanti e preziose che gli donavano un’aura maestosa e surreale. Il suo incedere era complicato dalla vista difettosa. Operato alle cataratte, fu costretto a indossare occhiali dalle spesse lenti che gli ingigantivano i bulbi oculari, sbrigliando fantasie giovanili sul personaggio regale, quanto buffo a vedersi.

Al rigore del Vescovo nel seguire pontificali tradizionali, corrispondeva altrettanto scrupolo nell’interpretazione dottrinale. Ne fui testimone in Cattedrale, genuflesso in fila con altri in attesa della cresima: segno della croce con olio sulla fronte, fasciato da un laccetto bianco, e un buffetto dato nella guancia al neosoldatino della fede.  Franciolini stava negando la cresima a un bambino il cui nome non appariva nel martirologio cattolico. Mi pare che il vicino si chiamasse Renzo, privo di santo corrispettivo. Gli assistenti si affannavano a far considerare Renzo diminutivo di Lorenzo, ma il Vescovo insisteva: quel ragazzo era da ribattezzare… Non ricordo l’esito della disputa, preoccupato per quel che mi stava capitando. Gli adulti s’erano divertiti a intimorirmi con la storia della fascia in fronte, che avrebbe coperto la ferita inflitta dal Vescovo con un chiodo! Ne dubitavo… però avevo la strizza.

Anche in cerimonie laiche, si temeva la lunghezza della chiacchiera del Vescovo, che, però, non era banale né fuori tema, ricca di spunti culturali ed esperienza. Mecenate, umanista, spiccata sensibilità artistica e poetica, espressa pure nella sua “Ghirlandetta Cortonese”: elegia d’un mondo religioso giocondo, d’una innocenza quasi infantile.

L’ultimo incontro con Franciolini a pranzo, in occasione dei suoi novant’anni. Finito il desinare, chiesi il permesso d’accendere il sigaro. Che il buon Vescovo accordò, verseggiando: “Io non fumo, ma volentieri sumo l’altrui fumo!” Gli piacevano giochi di parole. Come quella mattina – in visita alle aule scolastiche del seminario – udito un “Bischero!” urlato tra ragazzi, lemme lemme, s’avvicinò loro dicendo: “Bischero è una parola che, derivando dal latino, possiamo scomporre in bis carus due volte caro. Di per sé affettuosa. Però con quel tono v’invito a non usarla!”. Il monito pedagogico, mite e raffinato, cadde presto nel dimenticatoio, anche se i discoli non scordarono quella ed altre lezioni di calembour, impartite dal vescovo e dagli insegnati preti. Saranno state pure arguzie pretesche, ma c’è un detto:  dalla scuola dei preti non escono bischeri! Appunto.

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PRIMA_COVER_TUTTI DORMONO copiaTra i 30 personaggi del libro, è inserito anche Giuseppe Franciolini

E’ certa la morte di Augusto Cauchi

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CauchiSu L’Etruria  avevo espresso il convincimento, senza prove, sul decesso di Augusto Cauchi, avendone oggi la certezza, basterebbe ricordarne la data della morte: il 23 luglio 2017. I motivi di quel sospetto li avevo già paventati in due articoli su L’Etruria, ai quali non ho altro da aggiungere. Così come avevo sommariamente riassunto la sua vita, non facile, per molti versi controversa, che ho trattata in due libri, e, anche su ciò, non avrei altro da aggiungere.

Fui interessato alla sua storia, non ascoltando critiche immotivate. In quanto quella ricerca avrebbe attinto a fonti primarie, com’era la testimonianza diretta di due protagonisti (Augusto Cauchi e Luciano Franci) di quel periodo tragico,  indicato in più modi, basta ricordarne due: “strategia della tensione” e “anni di piombo” . Quello studio m’aprì una finestra su un mondo ignoto, fisicamente contiguo (Cauchi era stato compagno di Liceo, a Cortona),  e idealmente distante da me.

Non tutte le domande che ci facemmo, io come Ricercatore e loro due Protagonisti, ebbero risposte chiare ed esaurienti. Non soltanto per omertà cameratesca, che ci fu senz’altro, e non avrebbe potuto essere diversamente (chi si darebbe la zappa sui piedi? o racconterebbe cose sulle quali avesse dato la parola di non dirle?), e anche perché la storia di quegli anni è ancora in gran parte avvolta da misteri, in particolare sulle stragi, a partire dalle responsabilità più alte dello Stato.

Quando feci leggere la bozza de “Il Nero dell’oblio della violenza e della Ragione di Stato” a uno storico cattedratico, rimase impressionato dalla trama, che gli parve la scenografia d’un film, definendola “malmestosa”. Giudizio che condivisi. Ciò nonostante procedetti alla pubblicazione, suscitando interesse e riflessioni sui percorsi di quella generazione a cui appartengo, finita nel macello di giovani, e nella degenerazione antidemocratica della politica italiana di quegli anni. Com’era accaduto a destra, che giovani s’imbarcassaro nella lotta politica violenta, lo stesso era capitato a sinistra. Ricordo ancora un compagno socialista, scomparso prematuramente, di cui fui collega amministratore, confessarmi candidamente, che, ad Arezzo, per poco non entrò nelle Brigate Rosse! E qui torna in mente la riflessione che esternò Cauchi, sul disegno politico a monte, di far fuori una generazione di attivisti poltici, secondo lui troppo coinvolti emotivamente, incapaci di porsi limiti per un esasperato senso di giustizia, per quanto assurdo e disastroso. Analogo concetto espresso da Luciano Violante, magistato,  politico comunista, presidente della Camera dei deputati, quando disse: “una generazione politica è stata mandata al macello”, durante un convegno sul terrorismo. Egli, probabilmente, aveva più chiari i motivi e gli ispiratori di tale “macello”.

Senza voler somigliare all’attegiamento “neutro” del “Pescatore”, cantato da Fabrizio De Andrè, al passaggio d’un mariuolo,  voglio dire che, per chi studia la storia, non può esserci un approccio moralistico ma storico e politico nell’intento di produrre maggiore chiarezza possibile, così come feci, essendomi capitato ascoltare storie terribili. Come le carcerazioni simili a condanne a morte, data l’altissima conflittualità generata nelle carceri (in Italia come in Argentina), dovuta alla voluta commistione tra estremisti (accomunati nella definizione di “terroristi”) di destra e  sinistra, e con altri galeotti appartenenti alle varie mafie. Messi in stretto contatto quotidiano, ci poteva, e di fatto ci scapparono morti e feriti.

Ciò detto, non possiamo cancellare il passaggio a Cortona di Augusto Cauchi, che, insieme ai suoi  segreti, più o meno importanti, porterà sulla tomba anche il nostro, non retorico, riposi in pace.

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Maria Teresa Caballero Lagos, Teresita, e un elogio delle badanti

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Teresa Caballero 1 (2)La prima volta incontrai Maria Teresa Caballero Lagos, Teresita per gli amici, anni fa mentre era in viaggio di nozze – differito per motivi di lavoro – sposata col mio compagno di banco ginnasiale, Emilio Rosadoni. Ero diretto in Ecuador per turismo, Teresita portava Emilio, la prima volta, a casa sua. Può sembrare dettaglio marginale, quel differimento del viaggio di nozze per impegni di lavoro, anche se a me piace pensarlo legato al tipo di impiego svolto fino a quel momento: curando bambini e anziani bisognosi di “badante”, non sarebbe stato professionale interromperne un accudimento finché necessario. È un mio pensiero, non so se fu quello il motivo per Teresita. Conosciuta meglio, non me ne sarei meravigliato. Anche per quanto raccontò l’altro compagno di viaggio, Massimo Castellani (testimone di nozze degli sposi novelli), per come Teresita aveva assistito il babbo Fulvio, “Punzino”, ultranovantenne, fino alla fine dei suoi giorni.

L’universo badanti è sfaccettato, per provenienza (dall’Est come dall’Ovest del mondo) e, soprattutto, per comportamenti. Nella gran parte dei casi, affettuosi verso gli assisti, certe volte fino a matrimoni e convivenze, anche se non mancano casi di maltrattamenti e truffe su persone a loro affidate. Tuttavia, non si può negare il valore sociale, umano e affettivo da esse rappresentato, negli anni recenti della nostra storia, sopperendo alla frammentazione mononucleare delle famiglie e all’invecchiamento della popolazione, spintosi fino ad età molto avanzata, in cui è facile incappare in non autosufficienze: decadenza fisica, o malattie degenerative del sistema nervoso (Alzheimer e demenze). In centinaia, migliaia di casi, le badanti coprono necessità sociali massicce. E dietro ognuna di esse ci sono storie particolari, prevalendo il bisogno di denaro per mantenere famiglie di origine, figli agli studi, per un gruzzoletto con cui acquistare casa, o aprire  attività economiche nel paese di origine, senza dimenticare che molte si sono stabilite in modo duraturo in Italia. Come nel caso di Teresita.

Lei scelse di venire in Italia spinta dalla curiosità di sperimentare un’altra vita, indotta, in modo martellante, da amiche che vi s’erano trasferite. Dopo cinquecento anni di europei in Sud America, il flusso migratorio si invertiva in modo massiccio: dal Sud al Nord del mondo! Teresita  non aveva bisogno di lavoro, in quanto direttrice di un negozio di ferramenta, possedeva casa, e, non avendo figli, il suo reddito le consentiva una vita agiata e tranquilla, presso una grande moderna città, Guayaquil. Dunque, fu curiosa e coraggiosa. Esordendo babysitter presso i Della Valle, produttori di beni di lusso, non le mancarono riconoscimenti economici. Benché, alla lunga, non potendo disporre di tempo libero, ventiquattro ore al giorno in servizio, a malincuore rinunciò al ben remunerato impegno, allontanandosi dal bambino amorevolmente curato, per darsi  respiro.

Così come il suo primo contatto italiano era stato condizionato dalle amicizie, sulla stessa falsariga giunse a Cortona.

Cattolica praticante, donna matura, libera da vincoli matrimoniali, presa dal lavoro assistenziale, forse, non immaginava di incontrare tardivamente il grande amore della vita, che l’avrebbe portata all’altare. Incontrando Emilio, gentile e positivo, anch’egli non più giovanotto, cattolico, libero da legami, lavoratore, non ricco ma benestante. Colonna portante della vita sociale e ricreativa nella sua Farneta. Testimoniato dalla sala civica strapiena di amici suoi, quando presentammo, con Albano Ricci, il mio libro su Quito in cui condensavo l’esperienza del viaggio in Ecuador, in parte condiviso coi novelli sposi, essendo, costoro, tra i protagonisti.

In tempi recenti, la crisi economica, attanagliando anche le famiglie italiane, vede flettere l’impiego nel badantato di persone estranee alla famiglia. Il bisogno di lavoro infatti non fa più considerare “ripiego” l’impegno di familiari nella cura d’un parente bisognoso di assistenza. Anche se resta di gran lunga prevalente il ricorso a badanti straniere, e, in misura minore, di uomini badanti.

Le prime persone, in Italia, dedicate a tale incombenza provenivano dal sud America, Perù ed Ecuador in particolare. Paesi in cui il reddito da lavoro è inferiore al nostro. In seguito all’abbattimento del Muro di Berlino, è esploso anche il caso delle badanti dall’Est Europa. Effetto dello stravolgimento capitalistico avvenuto in quei paesi, con la fine dello stato socialista in cui si garantiva occupazione, casa, diritto allo studio e sanità gratuiti. Pure donne dagli studi elevati (ingegneri, notai, insegnanti,…) si sono adattate al nuovo impiego. Superando difficoltà linguistiche e ambientali, spezzando, spesso, famiglie di origine, superando l’umiliante adeguamento al massiccio bisogno italiano di accudire persone con handicap.

Questo processo ha determinato significativi rimescolamenti antropologici e sociali. Al fenomeno suddetto, intanto, si aggiungeva l’esigenza di coprire carenze di persone in altri campi lavorativi, ritenuti dai nostri concittadini faticosi e poco rimunerativi. Fino ad oggi, quando alle precedenti ondate migratorie si sono aggiunte nuove e massicce provenienze, con cui siamo alle prese, in un dibattito politico piuttosto acceso. Alimentato anche da moti di opinione pubblica, gran parte, digiuna sul tema: su quanto e come sia utile favorire nuovi incrementi migratori. Ma questo è un altro argomento.

Resta il positivo ruolo svolto dalle badanti straniere, come Teresita, avendoci arricchito di umanità e nuove conoscenze sul mondo globalizzato, che dovrebbe predisporci al fenomeno dei migranti con più razionalità e lungimiranza.

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Vita popolare e storie del Novecento nell’autobiografia del maestro Agostino Svetti

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Svetti 1Di norma ci accostiamo alle autobiografie prevenuti, temendo agiografie stuccose, rese esose da ego smodati. Ma se la lettura prende, fino all’ultima pagina 250,  significa ch’è un bel libro, come “Il Maestro” Storie della notte di Agostino Svetti, Murena Editrice. Curato postumo dalla figlia Maria Licia. Autoritratto del maestro, dalla nascita alla morte, calato tra la vita di ceti popolari. Difficile trovare, in un unico libro, migliore specchio sulle vicende umane del passato prossimo cortonese e chianino. In cui storie locali e nazionali, personali e collettive, si intrecciano per tutto il Novecento, filtrate da uno sguardo arguto e colto.

Una volta emancipatosi, non assunse pose da parvenu (frequenti in provincia), bensì Gostino – per gli intimi – uscito dalla miseria divenne amato e stimato maestro elementare, alla mano, mai dimentico delle radici. Dalla vita piena di affetti se pure tribolata – simile alla maggior parte dei conterranei –, lucidamente ripercorsa in un compendio di storie viste o vissute, narrate con schiettezza campagnola.

Scritto con mano fragile, ultranovantenne, a fatica, durante consuete veglie notturne. Abitudine mai smessa, presa da ragazzo per studiare la notte, e mantenuta anche da maestro per correggere i compiti. Il risultato è uno splendido affresco, dalla prima guerra mondiale ai giorni nostri, protagonista, insieme a lui, gente semplice.  L’intreccio costante tra storia nazionale ed eventi personali e familiari parte dal primo Svettino – nell’accenno alla saga familiare degli Svetti -. Di origini campane, deposto a Cortona tra gli orfanelli, a metà Ottocento, da madre amorevole ma “disonorata” da quella gravidanza.  Agostino cozza spesso amaro con la Storia. Partecipe, vittima, non di rado indignato e disgustato, prende le difese del popolo afflitto e impotente innanzi alle catastrofi belliche della prima e seconda guerra mondiale. Il primo dramma personale precedette addirittura la sua nascita! Nacque orfano del padre Agostino – ucciso da una malattia contratta in guerra (’15-18) – che lo concepì negli ultimi attimi d’amore con la sua sposa. Sventura che, nel bene e nel male, condizionò i destini familiari. Poi venne la seconda grande guerra, altro impatto tragico con la Storia. Pur essendo figlio unico maschio di vedova di guerra, venne chiamato alle armi in piena  rotta bellica italiana, nel 1943. Dove gli capitò di tutto: da stringere la mano al principe Umberto, subendone il fascino, all’assistere ai disastri della guerra. Di stanza nel Sud Italia bombardato dagli angloamericani, neo ufficiale dell’esercito, istruito in fretta e furia, raccolse a brandelli civili inermi e commilitoni, e compì la stessa opera pietosa raccapezzando corpi tra le macerie, al seguito delle battaglie a Montecassino e nei pressi della linea Gustav. Nell’Italia degli umili e dei semplici, sconfitta, umiliata, dilaniata dalla guerra civile, l’8 settembre segnò la svolta che lo ricongiunse alla sposa novella Wilma. Per i militari presenti al Sud, ci fu l’opzione di tornare a casa. Di quei momenti, Agostino ricorda l’assalto affettuoso e trepidante dei familiari al suo “Casone”, e, al contempo, vide l’incertezza tragica nel compagno di viaggio nel ripresentarsi a Montecchio, temendo ritorsioni: Beppino era partito volontario in guerra nella milizia fascista.

La scrittura semplice da dettato elementare – pregio, non limite – è incalzante come lo scorrere del film della vita nella mente del moribondo. Tono e lessico schietti e pacati del conversare tra amici. Gentile, educato al timore dei precetti cristiani, a cui si attenne. Agostino interloquisce, nell’intimo, tra sé e i personaggi narrati da cronista e storico (“Io, appassionato di Storia, sempre desideroso di sapere tanti avvenimenti, non smetterei mai di parlare con qualcuno di tante vicende che, una dopo l’altra, corrono nella mia mente”). Fatti e individui evocati senza perifrasi: sfruttati, onesti, disonesti, coglioni, affettuosi, malevoli,… quelli sono, senza code di aggettivi retorici edulcoranti, né orpelli inutili al racconto che scorrere come un fiume placido. Certi mantra  ricorrono.  Riguardando i suoi maggiori affetti: la moglie Wilma, la bambina dal cappellino bianco; il padre Agostino che gli donò la vita e, morto per cause belliche, gli lasciò in eredità una pensione che gli consentì studi magistrali; così come è grato alla mamma per avergli reso la vita meno aspra da misero studente pendolare (il retaggio dei tempi: la scelta di far studiare il figlio maschio anziché le femmine). Le scuole, a Cortona e Castiglion Fiorentino,  erano distanti molti kilometri, che egli, risoluto, perdurò  a raggiungere a piedi e in bicicletta tra fango e intemperie.

L’autobiografia di Svetti  non vedrei azzardato avvicinarla alla scrittura di Celine del Viaggio al termine della notte e  Morte a credito. Romanziere che seppe meglio capire e rappresentare il Novecento, illuminandone, con provocatoria originalità espressiva, gli aspetti essenziali. Descrivendo la vita così com’è, da cronista. Pur partendo, i due, da sostrati ideologici e caratteriali diversi. Ferdinand (Celine)  ragazzo discolo, combinandone di tutti i colori, fu messo in collegio e, adulto, passò alla storia come tenace filonazista e antisemita; Agostino ragazzo diligente e ubbidiente, adulto fu democratico cristiano, antifascista, rispettoso delle idee  altrui. Tuttavia, i due sono accomunati da doti speciali efficaci nel racconto  cronachistico dei loro tempi. Agostino, raccontando, non emette condanne verso i suoi pari, mentre si indigna (molto) verso i potenti (come il Duce) capaci di rovinare la vita ai semplici. Prendiamo la storia di Ciro, detto Ciccillo. Furbastro di Montecchio, scalmanato fascista poi capo comunista. Scansafatiche, piangendo miseria, grazie alla solidarietà dei compagni, alla sua morte si scoprì aver accumulato una fortuna milionaria “…eri così buffo, tutti stavamo volentieri con te, perché eri uno scaccia pensieri”. “Faceva il povero, vestito da straccione, non trovava lavoro perché non aveva voglia di faticare”. Risparmiò anche sulle spese della sepoltura: “Il tuo funerale scosse tanto me, quanto i tuoi cugini Attilio e Fiore. La buca dove foste messo ci inorridì: scavata con lo scavatore e racchiusa con grosse zolle di sabbione intriso di acqua”.

Seguendo l’avventura di Agostino, vien fuori una mappa di paesi, città, e semplici toponimi, anche lontani da Cortona e dalla Valdichiana, che, grazie a lui, diventano familiari al lettore, come fosse lui stesso in scena. Restringendo la topografia del racconto a livello locale, verrebbe facile figurarne il parco letterario della memoria di Agostino Svetti. Anche se molti edifici sono scomparsi e certe topografie mutate, riusciremmo lo stesso a immaginare il “Casone” e la scuola elementare a Montecchio, fulcro d’una giovinezza misera ma felice; la chiesetta a Chianacce, dove conobbe la bambina sua futura sposa; Cortona e il ginnasio, dove studiò ed estese amicizie, molte delle quali dureranno una vita; Castiglion Fiorentino delle scuole magistrali, forgia dei maestri chianini, studenti spesso costretti a interrompere gli studi liceali, non in grado di permettersi l’Università, convertiti in maestri; infine, Camucia. Dove Agostino visse gran parte dell’età adulta, prima alle case Popolari di via Scotoni, poi nella casa costruita a fatica con mucchi di cambiali. Camucia affamata di maestri, in piena espansione. Negli anni Sessanta se ne contarono almeno 16, tutti quanti rimasti nel ricordo di Agostino, insieme al Direttore Fabiani. Con cui resse l’associazione ex-combattenti, finchè, sopravvissuti solo loro due, decisero di liquidarla.

L’autobiografia di Agostino Svetti, lezione di scrittura realistica ed etica non moralistica, è patrimonio letterario e storico di tutti i chianini. Documento su quell’ universo popolare che ai nipoti sarà del tutto ignoto, oscurato dal consumismo e  dai nuovi costumi di vita molto più  spesi in effimere sfere virtuali, quando in passato esisteva solo, nuda e cruda, la vita reale.

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Lo Stato che conosce “Le ragioni del terrore” è mezzo salvo? Suggerimenti da “Galassia Islamica”, libro di Sandro Menichelli, Intermedia Edizioni

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galassia islamica 3 (2)L’invito era irresistibile, di Isabella Gambini (di Intermedia Edizioni),  alla presentazione del libro “Galassia Islamica – Le ragioni del terrore” dello 007 italiano Sandro Menichelli.  Dopo le mie letture di approcci diversi e contraddittori sul terrorismo islamico, a partire dal romanzo di Michel Houellebecq dal titolo inquietante “Sottomissione”, dove si immagina la fratellanza Musulmana al potere in Francia, con la conseguente islamizzazione delle istituzioni culturali e sociali del paese. Come nelle peggiori ossessioni Kafkiane. Suggestioni letterarie e politiche derivanti dalla traduzione letterale di Islam nel significato di “sottomissione, abbandono, consegna totale [di sé a Dio]”. L’invito di Isabella, alla presentazione del libro, era reso intrigante  dalla presenza, il 16 ottobre, del Capo della Polizia Franco Gabrielli, e del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Federico Cafiero De Rao, nella sede della Nuova Aula dei Gruppi Parlamentari di Montecitorio. Superfluo sottolineare il carattere blindato della manifestazione, a cui hanno assistito anche l’ex ministro degli Interni Minniti e il presidente della Camera dei Deputati Fico.

La presentatrice Marta Ottaviani, concisa e incisiva, precisava subito aspetti fondamentali del libro: Islam e Musulmani sono concetti diversi non necessariamente sovrapponibili. Da un lato c’è la religione Musulmana coi suoi precetti, riti, e sacri testi, e dall’altro c’è la complessa organizzazione socio-economica dell’Islam, vera e propria galassia caratterizzata dalla figura dell’Imam, presente in ogni gruppo di fedeli. A cui è attribuito il compito di guidare la comunità, caratterizzandosi per, maggiore o minore, temperanza e integrazione nella società e nella nazione in cui il gruppo vive. Da ciò discende la necessità di una conoscenza culturale a trecentosessanta gradi di questo mondo – a noi vicino e in parte misterioso. Non bastando a fronteggiarlo solo l’intervento delle forze di sicurezza e giudiziarie, richiede risposte provenienti dall’intera società nel mondo cosmopolizzato. Dai più alti livelli statali e interstatali, alle istituzioni locali, alla consapevolezza dei cittadini singoli e associati.

Con un refrain si può focalizzare l’attuale momento di alta tensione: i terroristi sono tutti islamici; ma non tutti gli islamici sono terroristi. Da ciò deriva l’utilità del libro, secondo Gabrielli,  in quanto si affrontano fenomeni complessi che richiedono la massima conoscenza. Senza che il libro risulti un mattone indigesto, anzi, avendo affrontato in modo semplice, di facile e stimolante lettura, argomenti nodali quali la religione, la società e la geopolitica. Aiutando il lettore  anche con un Glossario, a rendere chiaro ogni passaggio. In definitiva, si tratta di un modo efficace per battere la paura attraverso la conoscenza. Conoscenza a fondamento di uno Stato laico che non marginalizza né ghettizza né, necessariamente, costringe all’assimilazione il “diverso”. Cercando, invece, le radici profonde della  radicalizzazione che ha portato al terrorismo singoli o gruppi, anche di seconda e terza generazione, residenti nei paesi europei.

Colti alla sprovvista dal fenomeno quasi tutti i paesi europei, con gli esiti tragici che conosciamo, dalla strage di Charlie Hebdo in poi. Avendo dimostrato, il sistema di sicurezza pubblico europeo, ignoranza e impreparazione generalizzata, a partire dai vertici politici e giudiziari.

A Cafiero De Rao è stata rivolta la domanda:  “qual è la situazione dei foreign fighter dopo l’invasione Turca nella zona Curda?”, in cui le questioni  religiose, dell’Islam, della Jihad, si intersecano con questioni geopolitiche fino alla provenienza degli stessi jiadisti, molti dei quali di origini europee e occidentali, che potrebbero tentare il ritorno nei luoghi di origine. La risposta è stata interlocutoria: ci stiamo lavorando, ma siamo all’oscuro sul numero e la provenienza degli stessi, non esistendo ancora un organico censimento del fenomeno. In proposito, torna centrale il tema del rapporto positivo con le comunità islamiche locali, anche al fine di elaborare politiche di “deradicalizzazione”, andando alle cause di sofferenze tali che portano allo stragismo e all’adesione alla Jihad.

L’Italia, dal dipartimento per la sicurezza Usa, è posta tra gli stati a livello di rischio 2 su una scala di 4, insieme a Francia, Germania, Belgio – dove si annoverano decine, centinaia di vittime del terrorismo islamico – pur non avendo subito, l’Italia, attentati dal 1985 (all’aeroporto di Fiumicino).

Cafiero De Rao, definendo il “momento di grave rischio”, fornisce alcuni dati. Dall’Europa si sarebbero mossi 5-6mila foreign fighter (5762 sarebbe il numero calcolato), ma nessuno ne ha l’elenco. I flussi dei migranti nei centri di detenzione sarebbero sotto controllo, sebbene ci siano strade alternative di accesso all’Italia che vanno monitorate. In Italia se ne contano 10. 3 in galera. Gli altri 7 sono “monitorati”. La polizia giudiziaria, definita la migliore al mondo, non mollerebbe mai il soggetto ritenuto a rischio. Alta sarebbe la coesione collaborativa dell’apparato AIS, AISE, e vertici della polizia (di Stato, Carabinieri, Guardia di finanza). Il livello di controllo e attenzione molto attento. In Italia non ci sono stati attentati “non per fortuna”, sostiene De Rao, ma grazie a un sistema antiterroristico che ha radici lontane e consolidate.

L’autore Sandro Menichelli, trentacinque anni di esperienza in polizia, ribadisce il concetto da altri espresso che la ratio del titolo del suo libro risponde all’esigenza cognitiva da parte di tutte le società occidentali oggi poste di fronte alla “Galassia Islamica”. Esistendo tanti Islam quante sono le comunità presenti sul territorio. Riunite intorno all’Imam, colui che rappresenta il mediatore tra comunità locale, nazione, istituzioni. Le cui origini contano (egiziane, tunisine, marocchine, …) da cui possono seguire diverse scuole giuridiche su permessi, obblighi, usi,… e indirizzi dottrinari diversi, secondo l’area culturale di provenienza. Fino a definire il fenomeno: “pulviscolo islamico”, corrispondente all’atomizzazione delle comunità locali. I valori occidentali solo per alcuni Islam sono ritenuti corrotti, tenendo conto anche di frange minoritarie. Importante, in Italia, è stato l’obbligo, fatto agli Imam, della predicazione in italiano (dal ministro Minniti), onde aumentarne la responsabilità nel pronunciare sermoni. In via etica, nella religione musulmana il suicidio è considerato peccato, essendo la vita un dono di Dio. Ciò non diminuisce l’importanza di capire le ragioni che spingono persone nate nelle nostre società a immolarsi. Ponendosi il problema, a livello europeo, su come migliorare il monitoraggio e la prevenzione del fenomeno terroristico.

Secondo De Rao, fondamentale, nel contrasto all’ISIS, è acquisire conoscenze, immediate e tempestive, superando le formalità negli scambi delle informazioni, dove un tempo tra le polizie esisteva la non condivisione permanente delle notizie. Un passo in avanti è rappresentato da Eurojust, agenzia della UE, specie di procura generale col compiuto di raccogliere dati e raccordare iniziative delle procure nazionali. Passo ulteriore dovrebbe essere un Registro delle Istruttorie su notizie di reato iscritte nelle procure di tutta Europa. Consentendo un raffronto immediato in automatico di fatti, persone,… come auspicabile sarebbe la fusione dei dati Eurojust con i registri delle polizie europee (che ancora non ci sarebbe!).

Menichelli sottolinea la pacatezza e l’oggettività con cui ha trattato la situazione riguardo l’Islam, sostenendo che la stragrande maggioranza degli islamici vuol testimoniare sentimenti di pace, e vivere nel nostro paese nel rispetto delle leggi locali. Mentre il terrorismo è diventato un elemento comune europeo per come è trattato a livello giudiziario. Però sarebbe un errore trattare i rapporti con l’Islam solo in termini “panprocessuali”, riconducendo l’azione esclusivamente alle polizie e ai giudici, limite che impedirebbe risposte di tutte le componenti sociali al fenomeno terroristico: dalla scuola, agli enti intermedi, agli Stati, uniti all’unisono.

 Gabrielli ha sostenuto che l’uso della lingua italiana nei sermoni degli Imam non ha favorito un Islam italianizzato, ma ha consentito una religiosità composita, articolata per comunità. Lasciando dignità a quanti professano questa religione, che nella sua diversità potrebbe indurre paura, mentre spetta al Ministero dell’Interno consentirne libertà e diritti ma di impedirne percorsi sovversivi. Nel nord Europa si rileva meno tensione sull’argomento terrorismo, forse in mancanza di esperienze come la ‘ndrangheta. Essendo dentro la minaccia, il sistema deve essere attento ai massimi livelli. E le comunità islamiche devono porsi il problema se stare con lo Stato o con il terrorismo, non per cultura “delatoria”, ma consapevoli di far parte di una comunità, in un paese di emigranti. Affrontandolo come processo culturale. Senza misconoscere gli aspetti problematici che tale processo contempera, alla cui base c’è la reciproca conoscenza. Impedendo nuove e vecchie marginalità culturali, economiche, e sociali dove rintracciare il sostrato della “radicalizzazione”.

Già dalle riflessioni , in questa occasione, suscitate dal libro “Galassia Islamica” di Sandro Menichelli se ne avverte l’importanza e il dovere di estenderne le articolate conoscenze al maggior numero di lettori/cittadini.

fabilli1952@gmail.com

Galassia islamica 1 L’Autore, Sandro Menichelli, e il Capo della Polizia Franco Gabrielli

Isabella Gambini (2)Isabella Gambini, Intermedia Edizioni

galassia islamica 2Uno scorcio dell’Aula dei Gruppi Parlamentari, alla presentazione del libro

 

La politica tunisina secondo il custode della tomba di Craxi

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tunisia 2Ad Hammamet per l’ultimo sole estivo, ho accompagnato un amico, dal passato socialista, a visitare la tomba di Craxi, ch’ebbi modo di visitare fresca di sepoltura nel 2000, curata da un custode gentile e loquace. Nella spianata dedicata ai defunti tra le mura della Medina e il Mediterraneo. Posto affascinante, dove i morti musulmani, in stragrande maggioranza, occupano lo spazio prospiciente la spiaggia, anzi sono proprio sulla spiaggia, mentre, separati da una stradellina, riposano sotto le mura i non musulmani, dov’è Craxi. La dislocazione dei sepolcri nei comparti ben descrive i due mondi. Le tombe musulmane: ordinate, la testa dei morti orientate alla Mecca, fittamente addossate tra loro e dagli stessi semplici arredi tombali che emergono da terra al massimo trenta centimetri, per l’idea sparagnina che il suolo e ogni altra ricchezza siano riservate ai viventi. Le tombe non musulmane: disposte per lungo o per taglio, rispetto alle sovrastanti mura della Medina, coperte da pietre di varie dimensioni e diversi materiali lapidei, diciture semplici o frasi, come quella di Craxi: “La mia libertà equivale alla mia vita”, è un miscuglio fantasioso e disordinato. Dove, prevalendo la patina  di vecchie sepolture, da il senso di ospitare persone avventurose in fuga dall’occidente, lasciando il mistero sulle loro, più o meno, sopite ansie esistenziali. Fino a manifestare l’orgoglio dell’esule (qui mi son trovato bene!) grato dell’ospitalità a un mondo diverso, ma non lontano, né fisicamente né culturalmente, qual è la Tunisia presente e del passato recente.

La Tunisia per quanto non colonia bensì protettorato francese, subì lo stesso tallone d’acciaio coloniale ch’ebbe l’Algeria, dove gli oppositori, quanti lottavano per l’indipendenza, vennero imprigionati o confinati. Tra costoro emerse un avvocato laureato alla Sorbona, Habib Bourghiba, e il suo partito Neo-Dustur  (Nuova Costituzione), di cultura laica e socialisteggiante che si tradusse nel Codice dello Statuto Personale (1956), una delle Carte dei diritti personali tra le più avanzate non solo tra gli arabi, ma anche in occidente. Prevedeva il divieto della poligamia, la sostituzione del divorzio al ripudio, e legalizzava l’aborto. Si cambiava pure l’educazione, istituendo la scuola pubblica e gratuita, in luogo delle scuole coraniche e private, e si unificava sotto lo Stato la gestione della giustizia, sottraendola alla giustizia religiosa. Per rispetto alla tradizione, il Presidente della repubblica deve essere musulmano. Tutto ciò non significò subito l’acquisizione immediata di pari diritti delle donne rispetto agli uomini, rimanendo obiettivo principale delle donne quello di trovarsi un marito, tuttavia la conquista della emancipazione femminile aveva un potente supporto giuridico. All’epoca, in Francia l’aborto era illegale.

Ma torniamo alla nostra visita al cimitero e all’incontro col custode delle spoglie di Craxi, che dorme in una tomba a baldacchino dismessa, per meglio vigilare sui periodici assalti di ragazzacci che vanno a rubare le bandiere italiana e tunisina poste a capo della sepoltura, per usarle in occasione di competizioni sportive!

Senza esitazione, interrogato sulla situazione politica locale, s’è infervorato, dichiarando il totale dissenso verso la propria classe dirigente: “Non vado più a votare!… I partiti sono congreghe di mafiosi e lestofanti!… e quelli con la barba [del partito Ennahda] non mi piacciono!… Tanto sono tutti uguali!”

In effetti hanno votato solo il 45% degli aventi diritto al primo turno delle presidenziali, il secondo turno ci sarà entro novembre, dopo le elezioni parlamentari del 6 ottobre. Già a metà anni Ottanta la Tunisia fu sull’orlo della guerra civile, a causa del clientelismo, corruzione, paralisi dello Stato e presenza dell’islamismo radicale. Temi ricorrenti e irrisolti, aggravati da un’alta disoccupazione giovanile, che, in qualche modo, giustifica i frequenti tentativi di sbarchi clandestini sulle coste italiane di tunisini. Non sottovalutiamo il fascino attrattivo dell’Italia non solo nella speranza di trovare occupazione, ma, più generale, attrae l’Italia per la sua vita e per le città storiche che assurgono a miraggio nella fantasia giovanile, che, trovandosi a pochi passi, non vede l’ora di fare almeno una capatina nell’Eldorado.

Il custode della famosa tomba non smette di argomentare il disgusto per la “politica associazione a delinquere” del suo paese, ricordandoci che uno dei due candidati al prossimo ballottaggio, Habil Karoui (una specie di Berlusca nord africano, che, in società con Mediaset, gestisce reti televisive), è addirittura in prigione! Populista tanto insidioso e pervasivo, per atti di generosità economica presso popolazioni meno abbienti, contro cui il Parlamento, quest’anno, ha deliberato la galera per corruzione elettorale. Ma la legge non è intervenuta in tempo per essere applicata ad Habil Karoui, il quale, però, aveva già provveduto a inguaiarsi con altri delitti finendo al fresco. Cosa succederà qualora dovesse essere eletto? è questione che non abbiamo posta al buon custode cimiteriale, già troppo incazzato.

Da analisti politici non professionisti, possiamo solo considerare lo sfaldamento del quadro politico tunisino dal fatto che ben 26 si erano candidati alla presidenza della repubblica; che il capo dell’Ennahda non è passato al ballottaggio, pur dichiarandosi capo di un “partito democratico musulmano” non “islamico”; che i problemi critici della nostra economia sono gli stessi (disoccupazione giovanile, crescente divario tra ricchi e meno ricchi dilatata in modo esponenziale, stato sociale che scricchiola molto sulla sanità e l’istruzione), anche se non comparabili; e che la politica, in ambedue le sponde del Mediterraneo, attraversa una fase critica profonda foriera di nuovi scenari. Quel che osserviamo con piacere è la gentilezza delle persone e la vitalità culturale tunisina, che sta a cavaliere tra due mondi, l’islamico e l’occidentale, ancora in apparente buona convivenza.

fabilli1952@gmail.com

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Ipotesi giallo-noir sulla scomparsa di Augusto Cauchi

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CauchiChi è stato Augusto Cauchi?

Nell’immediato secondo dopoguerra le asprezze della guerra civile tra fascisti e antifascisti non si erano composte nella condivisione dei valori della  Repubblica, ciò nonostante le giovami generazioni cortonesi vivevano in armonia frequentando le stesse scuole, sport, tempo libero. Pur non indenni dai sotterranei risentimenti vissuti dagli adulti. In Città, il confronto giovanile tra simpatizzanti fascisti e antifascisti si sviluppava come il tifo nel calcio: scazzi verbali, sfottò, dispetti,…goliardia. E finiva lì. Invece, fuori Cortona, il giovane Augusto si calava di giorno in giorno in sfide sempre più manesche e violente. Augusto, nel cerchio dei compagni di Liceo, era amico di tutti, pur considerato fanatico nel vestire fascistoide: camicie e maglioni neri, stivaloni e guanti come in parata, dobermann al guinzaglio. Una macchietta che non si stupiva di chi lo considerava tale, accettando pure il soprannome di Gozilla, per movenze scimmiesche dovute alla precoce intensa attività da body builder. Amico di tutti, e coccolato da coetanee adoranti quel macho sfrontato. Il padre di Augusto cercò di frenarne irruenza e scarsa propensione allo studio mettendolo, a quindici anni, nel Collegio Militare Nunziatella a Napoli. Da cui, il ragazzo, dopo un anno, riuscì a farsi espellere! Anche se rimase legato a certi valori del mondo militare, come la perizia nel maneggio di armi e negli scontri corpo a corpo, e  sempre più preso dal mondo del padre, nostalgico fascista e intimo di Vito Miceli capo dei servizi segreti. Qui il racconto sarebbe lungo, incontenibile in poche righe, avendola già descritta nel mio libro (Il Nero dell’oblio della violenza e della ragione di Stato) l’entrata di Cauchi nel vortice malmestoso e tragico che caratterizzò, dalla fine degli anni Sessanta in poi, alcuni decenni italiani. Clima golpista, estremismi di destra e sinistra sanguinari, intrusione dello Stato in dinamiche sovversive – leggi “strategia della tensione” – avvalendosi di rami dei servizi segreti o attraverso la massoneria di Gelli, capo della loggia P2, senza escludere retroscena oscuri orchestrati da potenze straniere operanti in Italia (CIA, Intelligence Inglese, Palestinese, Israeliana, Russa, ecc.), le quali, col pretesto dell’anticomunismo e della fedeltà all’alleanza atlantica (NATO), resero l’Italia tra i paesi più instabili e insanguinati del Mediterraneo. Peggio stava solo la Grecia dei colonnelli.

Sempre più calato sulla linea di confine pericolosa tra legalità e illegalità, Cauchi sembrava convinto delle sue scelte. Militante e attivista del MSI aretino, non si sottrasse a frequenti scazzottate con i rossi, da cui, non di rado, tornava malconcio in classe al liceo (lo vedemmo persino rinunciare, causa ammaccature, alla sua materia preferita: la ginnastica!). In certe circostanze le risse erano altri a provocarle, in altre andava a cercarle, come gli capitò nella sede della Provincia di Arezzo, dove subì massaggi dolorosi da parte di energici infermieri del manicomio schierati dai rossi. Si può dire che Augusto per le risse aveva l’effetto della carta moschicida, persino il giorno del suo primo esame a Firenze, a Scienze Politiche, giunse in aula con gli abiti in disordine, avendo, di fresco, affrontato una zuffa. Ma il peggio doveva ancora venire. Allorché nel gruppo di neofascisti aretini ci fu chi prese la strada della lotta politica violenta con l’uso di esplosivi. Tra Natale e Capodanno (1975),  esplosero alcune cariche dinamitarde lungo la ferrovia, da Terontola ad Arezzo. Senza vittime e pochi danni materiali. Ma, forse, fu quello l’abbocco per giovani inquieti atteso da chi dall’alto faceva politica alle loro spalle. Diventati utili per addossare loro colpe gigantesche, come la strage sul treno Italicus. La reazione omicida di Tuti, considerato tra gli ispiratori degli attentati, alla vista dei poliziotti venuti a perquisirgli casa, per Augusto Cauchi fu l’inizio d’una vita rocambolesca con la fuga in Francia, sotto copertura dei servizi segreti italiani, avendo promesso loro che di far trovare il fuggitivo Tuti. Alle promesse fatte al babbo dal generale Mino [compagno d’armi in Africa del giovane Loris Cauchi padre di Augusto, generale che, non molto tempo dopo, precipiterà in elicottero con lo stato maggiore dei carabinieri di cui era comandante generale. Tanto per dire i tempi che correvano…] , venuto a Camucia a tranquillizzare la famiglia: “Starà fuori poco, giusto il tempo per chiarirne l’estraneità al sodalizio con Tuti, poi tornerà a casa”, seguì, invece, un’interminabile latitanza. Numerosi tribunali aprirono nei confronti di Cauchi procedimenti gravi: dall’acquisto di armi per conto di Gelli, alla mancata strage sul treno a Vaiano, e una caterva di attentati dinamitardi. Il babbo spese oltre cento milioni di lire per difendere Augusto in sequele di processi. Nei quali fu assolto dall’accusa principale, ciononostante ebbe sedici anni di condanna per partecipazione a organizzazione terroristica, senza avergli trovato addosso armi. Se, com’era  da sospettare, Cauchi fosse stato in qualche modo legato ai servizi segreti dagli stessi era stato scaricato. Latitante, poggiò sulla solidarietà dell’Internazionale Nera, rivelatasi insidiosissima. Contigua ai servizi segreti di vari paesi (Spagna, Portogallo, Cile,…) accomunati dal fondamentale vincolo di subordine alla CIA. L’ultima fuga di Cauchi, infatti, fu il rocambolesco attraversamento delle Ande, a piedi e clandestino, in rotta dalla Brigata Informatica della DINA cilena. Fuga di cui non volle mai raccontarmi i dettagli, temendo ancora conseguenze a trenta anni di distanza!  Giunto in Argentina si dedicò a ciò che non avrebbe mai pensato di far prima: lavorare duramente per sopravvivere. Era finita l’epoca dell’avventura, del mercenarismo, della dedizione totale all’ideologia. Al nuovo stile di vita, di commercio al minuto, si adattò bene e con successo, costruendo famiglia e una piccola fortuna in soldi e proprietà di immobili remunerative. Però, ultimamente, non si era trattenuto dal riavvicinarsi al mondo dell’intelligence da cui si era volontariamente estromesso. Nel cerchio di amici fece entrare agenti (neofascisti) dei servizi segreti argentini, con cui pensava di godere in pace gli ultimi anni di vita. Invece, da quelle frequentazioni è esplosa l’ultima fatale infelicità: emarginato e minacciato di morte dagli stessi che aveva accolto in casa intorno a fumanti azados.

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