ANTONIO DI MAIO, camorrista al “soggiorno obbligato” nel territorio cortonese

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Da sindaco di Cortona, ogni giorno si presentavano vari problemi. Magari simili tra loro, ma spesso in nuove varianti e imprevisti. Dopo un po’, acquisivi la bussola per trovare una soluzione anche a questioni insolite. Come fu affrontare la decisione di un organo giudiziario napoletano che obbligava “al confino” a Mercatale (questa era esattamente la località scelta) del camorrista Antonio Di Maio.

La macchina comunale, all’arrivo dell’ordinanza, entrò in fibrillazione, ma la responsabilità maggiore cadde sul sindaco, il sottoscritto. Che avrebbe dovuto, in quattro e quattr’otto, procurargli una dimora, per un lungo periodo. Se ben ricordo, per circa tre anni. La prima reazione fu politica: com’era stato possibile individuare la pacifica comunità mercatalese a luogo di confino? Ponemmo il quesito a parlamentari, al prefetto e ad ogni altra autorità alla nostra portata. Oltretutto, le norme in materia stabilivano che i luoghi deputati al confino dovevano essere piccoli comuni, mi pare, inferiori a tremila abitanti. Ma anche questo motivo, che ci pareva decisivo per smontare quella decisione, fu respinto al mittente.

Finché – nel bel mezzo dell’arzigogolarci su questioni giuridiche e sulla inopportunità sociale nel turbare una collettività con tale intrusione – un pomeriggio fummo chiamati d’urgenza dal Maresciallo di Mercatale: il Di Maio era già in caserma. Il Comune dove aveva deciso di allocarlo?

La piazza antistante la caserma brulicava di gente, in gran parte curiosi frementi di indignazione, sollecitati alla rivolta da capipopolo locali; schiera rafforzata nella circostanza anche da personaggi sopraggiunti dal vicino comune di Lisciano Niccone. Tra cui ne ricordo uno, noto imprenditore, tra i più sguaiati e indignati nel lanciare invettive contro tutti. (Anni dopo, misteriosamente assassinato nelle sperdute isole Vanuatu in Oceano Pacifico. Ci sarà stata qualche attinenza tra quell’omicidio e il “nostro” camorrista? Non si sa. Qui non è il caso di dilungarsi, ma nel seguito del racconto si capirà il senso del mio interrogativo. Da lacunose notizie, lo sfortunato, laggiù, si occupava di costruzioni edilizie, mentre a Lisciano si occupava d’altro).

Al sopraggiungere del tramonto fu trovata la soluzione che, pur nello scontento generale, fu accettata come la meno peggio: entro pochi giorni il Comune avrebbe destinato a Di Maio un ex edificio scolastico, fuori dal paese; nel frattempo, un ristorante e una pensione l’avrebbero “parcheggiato”.

La trattativa fu pittoresca, e, per fortuna, proficua. Infatti, nella confusione generale della piazza, intervennero: il Camorrista e i suoi Compari – che l’avevano accompagnato in automobile -, il Maresciallo, i Consiglieri di Circoscrizione, i Titolari della pensione e del ristorante, il Prete, i Capipopolo,… Sindaco e Assessore .

Di Maio fece la sua parte conciliante. Convinto che da quella destinazione nessuna autorità l’avrebbe sottratto, fece del suo meglio nel palesare qualità umane.

Moretto, statura bassa, faccia serena, con un rotolo di bigliettoni che ogni tanto toglieva di tasca, a dimostrare ch’era in grado di sostenersi, non dico che alla fine si era conquistata la simpatia della piazza, comunque ne aveva sopite le asprezze.

Senza dubbio, fu lo spettacolo teatrale en plain aire tra i più intriganti a cui abbia mai partecipato bassa. Senza regia, numerosi personaggi, con l’unico canovaccio: trovare casa al camorrista confinato in un angolo di Toscana incuneato nel territorio umbro.

Ci congedammo lasciando acque forse torbide, per lo meno non più agitate, nel timore di qualche sorpresa. Avevamo dato la parola: in tempi rapidi l’edificio scolastico sarebbe stato reso disponibile, e così fu; come fu efficace l’Assessore ai servizi sociali che si offrì di intervenire per ogni evenienza … Le questioni si stavano appianando, asseriva l’Assessore, che trovavo sempre ottimista. Di Maio si dimostrava socievole. Specie gli arringa popolo, erano i suoi abituali compagni di interminabili partite a carte e bisbocce. Anche se coi locandieri non era stato tanto di manica larga, com’era lecito supporre, invece tra i “compagni di merende” conquistava amicizie. Stanco della vita di paese, lo stesso Assessore s’incaricava di portarlo a Cortona per qualche ora, col permesso del Maresciallo. Il Di Maio s’era sdebitato con l’Assessore invitandolo nella scuola-casa (sia pure coi servizi igienici adatti ai bambini, su cui Di Maio rideva divertito) per un pranzo luculliano. Un cuoco campano era giunto a cucinare una discreta quantità di pesce fresco del Tirreno.

Di Maio, dalla vita intrecciata con la criminalità organizzata, preoccupato per il futuro dei figli, immaginava per loro una vita svincolata dal malaffare. Al piccolo, insegnava la risposta alla domanda: che mestiere fa tuo padre? “O ferraro” Il fabbro.

Visto suo padre vivacchiare stentatamente, avendo da mantenere uno stuolo di figli, Di Maio un giorno era salito nell’ufficio del sindaco del suo paese e, pistola in mano, aveva chiesto la concessione del servizio di nettezza urbana. Senza fiatare, gli fu subito assegnato. Da lì iniziò il suo percorso da camorrista. Finito tragicamente, poco dopo il soggiorno a Mercatale. Convocato in tribunale come testimone, sapendo d’essere nel mirino d’una cosca, invece di usare la propria vettura chiese un passaggio ad un giovane studente. Furono ambedue abbattuti a colpi d’arma da fuoco.

Di Maio capiva presto tra i suoi interlocutori quali fossero le persone aliene al suo mondo e chi, al contrario, sarebbe stato un potenziale camorrista o persona disposta ad entrare in affari con la criminalità. Tanto che, conversando con una persona perbene, gli offrì un suggerimento: non accettare mai l’aiuto di una organizzazione criminale, perché i soldi non ti mancheranno, ma arriverà un giorno in cui qualcuno ti dirà: questa roba non è più tua, ma nostra!… Lasciando immaginare la fine di chi si fosse rifiutato a cedere…

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PIETRO ZUCCHINI, “PIETRONE”, sanguigno costruttore dal lessico fantasioso

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Layout 1Le strette di mano di Pietro erano inquietanti morse, possenti e callose. Lo sguardo diritto, impiantato nel suo massiccio sanguigno capoccione (con cui, per scommessa, ci spaccava un mattone!) poggiava sul collo tozzo d’un fisico tarchiato. Allenato fin da piccolo a carichi pesanti, prima in lavori rurali e poi in edilizia, sollevando pietre, ferro, cemento, mattoni, tavelle, sanitari, piastrelle,…, tutto in fretta e con destrezza.  Quella forza fisica esplosiva sorreggeva pari cocciutaggine nel cimare le costruzioni. Esempio classico di persona che sprizza energia da ogni poro.

Nel dopoguerra cortonese, molti s’impegnarono in edilizia. Sospinta da un boom  epocale, raccoglieva manodopera proveniente in gran parte dai lavori agricoli. Muratori si diventava facendo la gavetta partendo da manovali, a forza di braccia badile piccone e martello…  mescolando rena e cemento, tirando corde appese alla carrucola con cui si spostavano in alto i carichi di materiali. Esposti al vento, al freddo, al sole,…, indifferentemente, il lavoro doveva essere ultimato.

I ragazzi più svegli, rubando cogli occhi e seguendo i consigli di maestri muratori, salivano nella gerarchia professionale. Alcuni, come Pietro, divennero imprenditori, formandosi a una scuola faticosa e spesso inclemente, estrema, a cielo aperto.

La ditta di Pietro crebbe al punto d’impegnarsi con successo pure in opere pubbliche, come la costruzione di nuove scuole a Camucia. E non c’era da meravigliarsi se alcuni capomastri come lui, raggiunto il ruolo da titolari d’impresa, mantennero la passione politica nel PCI. Il partito era come una fede cementante, derivata anche dall’avversione al padronato e al fascismo, in certe zone rurali. Un fratello di Pietro, per contrasti simili, dové emigrare in Argentina.

Fede politica tradotta in attivismo, fino all’impegno in Consiglio comunale. Gli eletti in Comune – attore principale nella pianificazione urbanistica – svolgevano perciò ruoli decisionali nello sviluppo edilizio, materia viva per Pietro che seguiva con passione, specie se riferita a Terontola o a frazioni viciniori, di cui era tra i portavoce.

Altra caratteristica di Pietro era l’uso d’un linguaggio che a lui appariva forbito, però, involontariamente in più circostanze, l’avrebbe esposto a espressioni colorite e comiche. Come accadde nella riunione in cui il Sindaco fu invitato a Terontola per promuovere una nuova area di insediamenti produttivi, prossima all’uscita della superstrada Bettolle-Perugia. Ovvio, tra i presenti, i più interessati erano i proprietari terrieri. Quando l’architetto Danilo Grifoni, consulente comunale, intuì che tra costoro figurava anche Pietro, pensò di avviare un sondaggio, per farsi un’idea sulle potenzialità dell’area, porgendo la domanda: “Pietro, se il Comune rendesse il tuo terreno edificabile, che ci faresti?” Senz’esitazione, Pietro rispose: “Le orge!”

Dopo uno scoppio generalizzato di risa, fu chiarito che Pietro aveva intenzione di costruire un capannone per deposito materiali della sua impresa, restando negli astanti il mistero di come fosse  sfuggita quella fantasiosa associazione tra le orge e un deposito di attrezzi… ma, conoscendolo, non sorprendeva, casomai, divertiva.

Infatti, a Terontola, erano memorabili altre sue uscite spassose.

Durante una riunione di partito, Pietro, incaricato di giustificare l’assenza d’un fedele compagno del Farinaio, esordì: “Il compagno R…. è assente! perché caduto di bicicletta, causa cane, e ne avrà di gran lunga e sostanziale!…” Nell’altra occasione, in cui si valutava l’efficacia del Sindaco e della Giunta Comunale in carica, Pietro ebbe a dire: “Il Sindaco è una donnicciola!… Molto promettevole, ma poco realizzabile!” Non, certo, un giudizio lusinghiero.

Personaggi come Pietro furono protagonisti della nuova Cortona, l’attuale. Anche se poco scolarizzati e con esperienze limitate al lavoro nei campi, si adattarono al nuovo contesto economico molto più dinamico del passato, dando contributi di sagacia e determinazione, lasciandosi dietro scie di simpatici ricordi. Fu questo sostrato ex mezzadrile, studiato da sociologi ed economisti, tra i fondamenti del prodigioso sviluppo economico italiano postbellico, nel Centro e Nord Italia.

La mentalità familiare positiva, frugale, cooperativa e la determinazione tipica  contadina nel raggiungere obiettivi produttivi, riversandosi nelle molteplici attività manifatturiere, fecero sorgere quel “miracolo economico” di imprese che vennero a studiare da più parti del mondo, per capirne i meccanismi sottesi. Senza indulgere in banalità, potremmo dire che tra i tanti motti popolari che spiegano la mentalità contadina, c’era: “ Chi non ha testa, ha gambe!” Di riffe o di raffe, l’obiettivo andava raggiunto a qualsiasi prezzo, anche di sacrifici. A tal proposito, l’architetto Grifoni – incaricato dal Comune di seguire i lavori del nuovo plesso scolastico di Camucia – durante un sopraluogo in cantiere, raccontava l’impressione ch’ebbe dello straordinario spirito combattivo visto in faccia a Pietro Zucchini, allorché, lavorando alle fondazioni, impantanato da capo a piedi nel fango dell’area in quel momento molto umida, egli s’ergeva erculeo nel groviglio di avversità senza scoramento…i lavori sarebbero proceduti ad ogni costo!

Per la cronaca, la costruzione che Pietro intendeva destinare alle “orge”, attualmente, ospita un importante centro diagnostico medico. Ma fu chiaro fin dall’inizio che intendesse realizzare un immobile industriale, facendoci divertire un sacco. Mentre, paradossalmente, quel che ai tempi di Pietro fu costruito come edificio di culto religioso – alla Cima Gosparini, non lontano da Terontola -, che molti scherzosamente definirono il “lancia cristi”, per la presenza d’un fabbricato simile a un razzo in posizione di decollo (sarà stato una specie di campanile?), oggi pare accolga scambi di coppie, qualcosa molto simile alle orge.

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Il commento di Claudio Santori al libro “Tutti dormono sulla collina di Dardano”

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Innanzi tutto lasciatemi dire che sono sempre felice di trovarmi a Cortona dove mi sento a casa perché qui ho tanti amici e perché qui, proprio all’inizio della mia carriera, ho trascorso un periodo indimenticabile della mia vita insegnando latino e greco nel Liceo Classico che, già Benedetti, era appena passato fra le braccia del Petrarca di Arezzo. Qui mi sono barcamenato fra due personaggi ormai appartenenti alla leggenda: ad Arezzo don Martini e qui il suo vicario Oreste Cozzi Lepri dal quale ho imparato moltissime cose che si devono fare quando si dirige una scuola e anche qualcuna che non si dovrebbe fare per regolamento, ma che è imposta dal buon senso e dalle regole non scritte del saper stare al mondo!| E lasciatemi subito ringraziare Giuseppe Calosci, il più antico ed inossidabile degli amici cortonesi, col quale ho l’onore di collaborare ormai da una vita.

Quanto tenesse a questa manifestazione è dimostrato dalla locandina che ha stampato e mi ha inviato per corriere: c’è il mio nome a caratteri di scatola e sotto, molto più in piccolo ci sono i nomi degli autori. Un po’ come succede in certe locandine di spettacoli operistici: c’è scritto La Traviata di Giuseppe Verdi, piccolo piccolo, e sotto il nome del Pinco pallino direttore d’orchestra grosso come una casa. Ma così va il mondo.

Ed eccomi dunque a presentare due libri che, peraltro, stanno bene insieme perché sono due facce della stessa medaglia, e la medaglia in questione è Cortona con tutti i cortonesi, doc e meno doc, dentro. Ne è garante, fra le altre cose il giornale L’Etruria -un foglio che più cortonese non potrebbe essere- col quale entrambi gli autori hanno in comune la pubblicazione a puntate.   Due libri che scopertamente si rifanno a precedenti letterari mitici: il libro di Fabilli, Tutti dormono nella collina di Dardano all’Antologia di Spoon River e quello di Brini, con richiamo più sottile e meno individuabile a prima vista a James  Joyce: Gente di Cortona che fa venire subito in mente  il celeberrimo Gente di Dublino!

Del libro di Fabilli ho avuto l’onore di essere espressamente richiesto della prefazione, inoltre con l’Autore ho un consolidato feeling fin da quando lessi con interesse il suo affresco parietale Chi lavora fa la gobba e chi ‘n lavora fa la robba e lo presentai con entusiasmo nella Sala dei Grandi in Provincia. Allora mi ritrovai in piena sintonia perché lui parlava di contadini che conosceva bene dalla parte dei contadini, mentre io leggendo quelle pagine ritrovavo me stesso ragazzino e conoscitore io pure della vita dei contadini, ma stando dall’altra parte, da quella del padrone. Perché i mei avevano delle terre e il mio babbo una volta in pensione come maresciallo dei Carabinieri era divenuto a tutti gli effetti fattore: ricordo un nostro contadino,  persona di animo gentile che mi coccolava sempre e mi chiamava “signorino”, cosa che mi mandava in bestia, ma non potevo farci niente. Meno male che a un certo momento il babbo vendette tutto e così non fui più signorino! Proprio aprendo il suo libro sui cortonesi dormienti il Fabilli rammenta i suoi trascorsi:

“Dopo aver indugiato sulla storia Cortonese novecentesca, parteggiando per  contadini e mezzadri, ho tentato l’azzardo di tratteggiare personaggi del passato in forma narrativa. All’apparenza, compito più semplice passando dall’oggettività storica – quantomeno nelle intenzioni e nel metodo – alla libertà soggettiva del racconto”.

“Il ventaglio umano del passato impresso nel mio immaginario, sottoposto a un’operazione affettiva e liberatoria ha provocato il riaffiorare, allo stesso tempo, tipi “anonimi” insieme a quanti appartennero alla “mitologia” popolare, nel territorio dell’antica cittadina. Espressioni degli infiniti percorsi di vita: nobili, popolani, artisti, intellettuali, perdigiorno, artigiani, ubriaconi, preti,…iscritti nel mosaico antropologico  della Città e del suo vasto territorio, finché non si son dispersi nel nulla, accomunati dallo stesso destino”.

Ed ecco infatti che il libro, mettendo da parte ogni velleità storico-sociale, vira verso il bozzetto intinto di amarcord  mescolando biografie e storie vere spesso ai limiti del grottesco e divertenti sempre, quanto lo possono essere vizi, vizietti, tic e manie, ma anche buone azioni e sacrifici afferenti alla gente comune, quella con cui  -nella seconda metà del secolo scorso molto più di oggi- si veniva a contatto al bar, dal barbiere, al mercato e per la strada. A parte i soggetti, di cui dirò subito, il libro si legge tutto d’un fiato per lo stile, semplice, ma non semplicistico, a volte quasi telegrafico, asciutto, essenziale che a me -classicista per vocazione e per mestiere- ha ricordato la maniera degli antichi prosatori atticisti: frasi brevi, con punti fermi continui che riproducono efficacemente il ritmo, il colore e la spontaneità del parlato: notavo nella prefazione che, anche se opportunamente addomesticato, perfino un “moccolo”, che tratteggia il colore locale con un’efficacia impossibile a raggiungersi con gli strumenti del linguaggi letterario!

Ferruccio ne ha naturalmente piena consapevolezza, tanto è vero che scrive:

“Non è una rassegna di eroi, né di figure tragiche, ma di gente comune di cui racconto fatti ordinari, nel breve spazio di due cartelle dattiloscritte…La compressione in due cartelle per scelta editoriale (concordata col periodico L’Etruria intenzionato a pubblicare una figura al mese) m’ha obbligato all’esercizio di sintesi estrema”.

E aggiunge, a ribadire il concetto, in caso qualcuno non l’avesse capito:

“In questi frammenti esistenziali, condivisi in parte dall’umanità, il difetto dell’estrema sintesi è compensato da ciò che Hamlin Garland definì “veritismo”[1]. Un vero che auspico non generi ostilità a causa dell’intromissione nella vita di congiunti defunti, avvenuta – lo sottolineo – sempre con affetto”.

Non mi risulta che abbia ricevuto minacce o querele, a testimonianza del ben noto senso dell’umorismo tanto diffuso nelle Chiane, come dimostra un detto ricorrente dal Tegoleto al Chiucio: è meglio perdere un amico che una battuta!

L’amico Ferruccio, con questa sua ultima fatica, passa disinvoltamente dall’affresco parietale degli intriganti saggi a sfondo economico-sociale e storico al quadro a olio, anzi all’acquerello del bozzetto, come dicevo appunto proprio in apertura di questa chiacchierata, venendo così a far parte, sia pure col cappello in mano e a capo basso, della schiera ove sono, fra gli altri, il Fucini, il Panzacchi e perfino il più illustre dei suoi conterranei: Corrado Pavolini. Non si commetta l’errore di credere che scrivere bozzetti sia più facile che scriver saggi e romanzi perché il bozzetto esige la sintesi, la capacità di condensare un messaggio in poche righe che mantengano desto l’interesse: il Fabilli ha superato la prova alla grande partendo proprio dall’idea geniale: dare un contraltare -casereccio e in sedicesimo, ma non per questo meno intrigante- all’Antologia di Spoon River, uno dei libri che abbiamo tutti più letto e mitizzato fin dall’adolescenza!

Alla collina d’oltre oceano si sostituisce, con spiritosa ironia, la collina … di Dardano. Ora voi sapete tutti chi è Dardano: il mitico fondatore di Cortona. E il bello è che costui, dopo aver fondato Cortona, si recò sulla costa dell’Asia Minor e fondò un’altra città: nientemeno che Ilio, o Troia che dir si voglia, per cui a Cortona è venuto e rimasto l’altisonante titolo di “Mamma di Troia e nonna di Roma”! Mettere sotto la tutela di due mitologie, una classica e una moderna, il vissuto casereccio di tutti i giorni è un’idea assolutamente geniale che dà una pennellata di grottesco al ribobolo di personaggi dalle grandi mangiate e dalle grandi bevute, personaggi lavoratori e nulla facenti, innocui chiacchieroni e all’occorrenza  bestemmiatori.

Scrivevo nella prefazione al libro -e non saprei dir meglio qui ora- che nei camei di Fabilli il divertissement assoluto si mescola inestricabilmente alla vita vissuta con il suo intreccio di drammi e di farse nello sfondo di un mito incombente ed onnipresente: il vecchio P.C.I., icona, vademecum e terra promessa di tutti, ivi compreso lo scafato e disincantato Autore (che, non dimentichiamolo, di Cortona è stato sindaco).

E il bello è che i personaggi sono tutti (o quasi) assolutamente veri, annidati nella memoria dell’Autore con i loro gesti, tic, manie e frasario caratteristico. E non solo in quella dell’Autore, e qui viene il bello perché i lettori cortonesi troveranno nel libro un valore aggiunto quando vedranno uscire icasticamente dalle pagine personaggi che hanno conosciuto e che avevano archiviato; quando rivivranno sensazioni, pensieri e giudizi. Ma il divertimento è garantito anche per i non cortonesi perché i personaggi e le vicende di questa straordinaria “corte dei miracoli” sono di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

In quale città o paese non c’è -e non c’è stato-  un boss sui generis della cultura come l’ineffabile Oreste Cozzi Lepri che ebbi, come ripeto, insieme con il non meno ineffabile don Nicola Fruscoloni (che, sia detto en passant, mi attaccò il vizio mai più dismesso del mezzo toscano!) fra i  primi maestri di vita al tempo del mio apprendistato scolastico cortonese? E che dire di Alessandro, conte, sindaco e contadino?

“Schierato tra laici e progressisti, se pure temuto e rispettato, non era visto di buon occhio dagli altri agrari, in prevalenza, divisi tra nostalgici postfascisti, simpatizzanti democristiani o liberali. Quella scelta di campo indispettiva molti benpensanti, che la consideravano incongrua rispetto al blasone raccontato dalla lapide affissa nello splendido palazzo in Città, di proprietà familiare. Il suo casato risultava dalla fusione tra due rami nobiliari storicamente in contrasto: i Mastai Ferretti, parenti di papa Pio IX – quello della Legge delle guarentigie (1871), duro a cedere il potere temporale su Roma al nascente Stato Italiano – , e i Colonnesi, tra i quali l’avo Sciarra Colonna passò alla storia per lo “schiaffo di Anagni”, dato a un Papa”.

“Per Alessandro, anticlericale, la simpatia dichiarata era a favore del ramo Colonna. Tanto convinto che divenne di dominio pubblico il suo gesto clamoroso, in occasione dell’agonia di papa Giovanni XXIII. Erano i giorni in cui la televisione trasmetteva senza tregua notizie sulle condizioni del popolare Papa morente, e inevitabilmente, accendendo il televisore, ogni giorno, capitava al Conte di assistere alle solite scene trasmesse dal Vaticano. Finché, spazientito, prese la pistola e sparò al televisore mandandolo in mille pezzi! Non si trattò d’intolleranza verso l’uomo sofferente, bensì di ripulsa verso l’insistito spettacolo d’un evento comune a ogni mortale”.

E degli altri suoi involontari compagni di cordata? Un campionario di varia umanità, tanto varia da ingenerare qualche volta il maligno sospetto che ci sia stata qua e là l’inserzione di zeppe e ornamenti di fantasia, ma è cosa che l’Autore negherebbe anche con la pistola alla tempia! Che dire per esempio del caso del prete talmente rubizzo, diciamo così, da meritare il soprannome di don Biétela?

“Com’è naturale, l’efficienza sessuale provoca quotidiane “tentazioni”… Forse certi eroici prelati saranno riusciti a mortificare la carne, ma circolano un sacco di storie boccaccesche sulle incontinenze sessuali dei parroci passati e presenti, come non son da meno, del resto,  le scappatelle delle monache. Se ai bene pendentes aggiungiamo dimensioni dell’attrezzo correlato tali da far appellare il portatore: Don Biétela (da bietola: fittone brozzoloso), la miscela è sessualmente esplosiva. Don Biétela, bell’uomo, robusto, sportivo, appassionato di motociclette veloci tanto da esserci caduto, sbattendo il cranio su un colonnino di pietra. Rimasto in pericolo di vita, si salvò – si disse – grazie alla zucca d’acciaio. Il suo “sventra papere” era così famoso e ricercato tra le donne da indurre in tentazione persino una zitellona in odore di castità la quale, non avvezza a certe dimensioni del pene, ne rimase ferita in uno spicciativo intervento emorroidario praticatole da don Biétela. (Il fatto scandaloso destò le ire dello zio prete della vittima, decano del Capitolo diocesano). Quando l’infortunata giunse al pronto soccorso a riparare lo sbrego, i maligni misero in giro lo sberleffo: “Don Biétela s’è messo a fa’ concorrenza al professor Baldelli!”. Pure lui rettificava sfinteri anali, ma col bisturi e in anestesia.

L’incidente ampliò la fama di don Biétela, mentre l’infortunata perpetua, seguitò a servirlo… in perpetuo”.

E non poteva mancare Farfallino, di cui naturalmente si è occupato anche il Brini, un mito in terra di Cortona, il gazzettiere che riversò ne L’Etruria oltre mezzo secolo di cronache e saghe:

“Entrava  in scena quasi in punta di piedi, dardeggiando uno sguardo inconfondibile. Occhi vispi e intelligenti, dal taglio simile a un orientale. Abbracciava l’insieme, cercava i dettagli, si soffermava sul focus, quasi simultaneamente. La prima volta, lo vidi entrare nel presbiterio del Duomo di Cortona a cerimonia avviata. (Ragazzino partecipavo alle Messe solenni nel coro delle voci bianche). Qualcuno più grande disse che anche lui era stato seminarista.  Si soffermò giusto il tempo per mandare a mente quel che gli interessava, dileguandosi poi furtivo com’era entrato. Era Raimondo Bistacci, cronista cittadino.

Piccolo di statura, calvo, elegante, mezzo sigaro Toscano tra le dita, indossava il farfallino. Da qui il soprannome. A cui teneva talmente da intitolarci una rubrica: “Farfallino in giro per il territorio cortonese”, e usarlo come firma sotto certi articoli.

Ancor giovane, aveva ereditato il periodico L’Etruria, unico superstite cortonese di “altri 16 giornali che oggi dormono il sonno della morte”, scrisse spegnendo le 78 candeline di compleanno del “suo giornale”, nell’aprile del 1970. Mentre lui ne compiva 81. Mirabile a dirsi, anche quel numero celebrativo aveva lo stesso slancio degli anni migliori. Senza eredi, era preoccupato per il futuro della sua creatura a stampa, della quale era stato: Gerente, Direttore, Amministratore e Redattore. Sorta di missionario laico, a tempo pieno, dell’informazione. Avendole dedicato tutto quanto era nelle sue disponibilità: soldi, tempo, affetti,… Una vita – all’apparenza – grama, passata dietro al vecchio torchio, usando caratteri di piombo sciolti (i Bodoni) elegantissimi ma consunti, e a racimolar soldi (spesso scarsi) per l’acquisto della carta. Impegno che gli aveva reso popolarità e simpatie anche fuori dal cortonese, pure in ambienti colti. Gli avevano fatto visita Benedetto Croce, Curzio Malaparte, Enzo Tortora”.

Può aver enfatizzato qualcosa, ma a tutti i suoi tipi, tipetti e tipacci egli guarda con ironia, ma senza sarcasmo: anzi, direi, con affettuosa partecipazione. Ma anche commovendosi, e costringendo alla commozione anche il lettore più scaltrito e prevenuto, quando entra nel profondo dell’animo di personaggi umili, ma capaci di grandi sacrifici; coloriti nell’espressione, ma orgogliosi della dignità loro conferita dal lavoro e dalla coerenza degli ideali morali e politici!

Qui mi fermo, ma vi assicuro che la lettura del libro vi apporterà non solo divertimento del più schietto, ma anche motivo di riflessione sulla natura degli uomini che passano, come rammentano Omero e Mimnermo, come le foglie!

 

[1] Le frasi di Cesare Pavese, la definizione “veritismo” e i passaggi virgolettati sono tratti dalla prefazione di  Fernanda Pivano all’ Antologia di Spoon River, edizioni Einaudi, 1971.

RINO SCORCUCCHI, “Il POLLO”,  dette da bere vino agli assetati

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In una passeggiata domenicale, all’altezza di Bramasole, guardando in basso ci ho rivisto con la fantasia i “Polli” nella loro casa: Marsilio Scorcucchi, detto Rino, e il figlio Sergio. Dove, generosi e spontanei, m’avevano invitato a un pranzo allegro.

Quel soprannome “Pollo”, portato con nonchalance, fu trasmesso dal babbo di Rino.

Rubati in un pollaio sette  polli, gli stessi amici-ladri decisero di banchettarci. Mentre gli altri giocavano, il babbo di Rino s’incaricò di cucinarli. Ultimata la cottura, invitò i compari a tavola. Che, presi dal gioco, tergiversarono. Finiti i loro comodi, pronti a consumare il pasto, con grande sorpresa trovarono solo ossa spolpate! Così il babbo si guadagnò il soprannome “Pollo”, che trasmise agli eredi senza tassa successoria.

La qualità che colpiva subito di Rino era la giovialità, anche se avrebbe preferito indicare la sua migliore qualità nell’esser considerato un ‘compagno comunista’. Della specie rara sopravvissuta al crollo del Muro di Berlino. D’altronde, sentirsi questo o quello è la maschera che ognuno preferisce indossare; e va rispettata.

Da giovane attivista politico, aveva pure pagato con un processo. Durante un affollato comizio post-bellico, di quelli che calamitavano l’intero popolo (cortonese e italiano),  da sotto il palco d’un avversario politico lo disturbò (non ricordo di preciso) se con fischi o lanciando improperi, tipo: “vaffanculo” “buffone!” “vigliacco!” “sta’ zitto scemo!”… allora considerate offese gravi, che, oggi, farebbero ridere anche le forze dell’ordine. Venne fermato, e passò il classico brutto quarto d’ora. Rino era un passionale. Amava la vita, la  graziosa sposa e i figli, a cui aggiungeva l’altra famiglia politica: il Partito.

Di rado l’incontravi in abiti da festa, più spesso con quelli da lavoro.Artigiano edile e contadino nel podere di famiglia a Bramasole, piccola proprietà di mezza costa, dai terreni avari, ma coltivati con passione, specie la vigna e gli ulivi. L’abito da lavoro, normalmente, lo portava anche dopo cena, con gli amici alla partita a carte, o a prendere un caffè a…Terontola. Come quella volta che, insieme al solito ristretto giro di amici di zingarate, scesero in macchina (un’utilitaria, tipo la vecchia FIAT 600) alla stazione di Terontola. I bar di Cortona, a una certa ora, saranno stati chiusi? Ma, anche a Terontola, il bar era chiuso!

Anziché arrendersi, decisero di trasformare l’insuccesso temporaneo in una botta di vita: “Perché non andiamo a Roma a prendere il caffè?…” E così  fecero.

A Roma, sembrò loro poca cosa accontentarsi d’un caffè; qualcuno buttò là: “Che ne dite, andiamo a farci una mangiata di pesce a Napoli, dalla Zi’ Teresa?”. C’erano già stati, o circolava tra loro il mito di quel ristorante famoso ed elegante?

C’era un problema: Rino era vestito da lavoro. Non era il caso di rischiare tutti quei kilometri per esser cacciati fuori dalla porta per colpa d’un abito. La soluzione giunse da un parente romano di Rino, pure lui gioviale e appassionato di zingarate.

Rimediati abiti acconci, ebbero tutto il tempo di giungere a Napoli all’ora di pranzo per l’ambita pappata di pesce. Probabilmente la storia sarebbe rimasta nota alla stretta cerchia familiare, se non che, sulla via del ritorno, la vetturetta s’impuntò, costringendo l’allegra brigata a chiedere a buonanime cortonesi d’essere rimorchiati.

Produttore di buon vino, Rino non lo dispensava solo in famiglia.  Spontaneo e generoso com’era, se c’era sentore di festa o sagra (d’estate, i quartieri cortonesi  organizzano più d’una sagra: dalla bistecca al porcino, dalla lumaca alla ranocchia…) si presentava con una damigiana da cinque litri sottobraccio, offrendo vino senza spilorceria. Chiunque poteva berne a volontà. Generosità ripetuta spesso, incomprensibile per chi non fosse vissuto nella Cortona post-bellica di Rino, allorché fame e miseria dilagavano. E la carestia colpiva duro su quanti potremmo definire sbevazzoni, disposti a ogni sorta di sacrificio per un bicchier di vino. Come chi, per il mezzo litro, si faceva svenare donando sangue in ospedale, anche oltre i limiti temporali prescritti dai medici tra una donazione all’altra.

Memorabile fu l’episodio dell’urgente bisogno di sangue in sala operatoria, diretta all’epoca dal prof. Baldelli, che di corsa sguinzagliò il personale dovunque fosse possibile trovare sangue compatibile per una trasfusione diretta da donatore a paziente. In una bettola di via Dardano fu trovato un “volontario”, già alticcio. Ma la priorità era soccorrere l’esangue, che risvegliato cominciò a dare i numeri, peggio del donatore! Al contrario, Rino distribuiva gratis l’ambrosia dei poveri per il semplice gusto di star insieme in allegria. Stesso spirito con cui prendeva parte ai periodici scambi gemellari con la città di Chateau-Chinon. Dalla partenza in pullman al ritorno era un susseguirsi di battute, scherzi, gare a chi reggeva di più l’alcol. Ricordo alcuni del meraviglioso manipolo che ogni quattro anni tentavano di prosciugare le cantine della cittadina del Morvan, portando un uragano di simpatia… Da soli, Nando e Tenebrone, un pomeriggio al Torreone, “seccarono” una damigiana di vino! (Non saprei quanti litri fossero, basterebbe chiederlo a Elsa, figlia di Nando, che ancora ne ride divertita). L’ultima volta incontrai Rino, prima della sua ultima dipartita, sulle scale di casa d’un “compagno”, mentre usciva portando sottobraccio la solita damigianetta sgocciolata. Era accompagnato dal Vacca (Alfiero Palazzoli), che si mise in spalla a mo’ di violino il prosciutto che aveva in mano, dicendo: “Abbiamo fatto un piccolo concerto!…”, per palati fini, pensai. I prosciutti del Vacca abbinati al vino del “Pollo” erano musica celestiale.  Laborioso e allegro, Rino, avendo onorato nel miglior modo il precetto : “Dar da bere agli assetati” ed avendo afferrato le cose fondamentali della vita, di certo, se c’è, è in Paradiso

ITALO PETRUCCI, ufficiale, sindacalista, sindaco,… gentiluomo

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Non è superfluo ricordare che qui non descrivo biografie, ma sprazzi di ricordi.

Italo Petrucci si diplomò Perito Agrario presso il Vegni di Capezzine. Rinomato per formazione di fattori e sottofattori al servizio dei latifondisti, tra i cui allievi prevalevano idee politiche destrorse e moderate. Salvo rare eccezioni, come quella di Italo e dell’altro comunista e confinato dai fascisti Santi Bistarelli (nel dopoguerra sindaco di Tuoro sul Trasimeno). Italo fu sindaco di Cortona, per un decennio, negli anni Sessanta. Successione “scomoda” al popolare Gino Morelli, scomparso prima del tempo, stimato amministratore pur dal moderato Farfallino, direttore dell’Etruria. (Di Morelli si diceva fosse così avveduto da controllare, sul far del giorno, il lavoro degli spazzini nei vicoli cortonesi. Circostanza – secondo i maligni – motivata da giri clandestini per avventure galanti).

Le competenze professionali su questioni agricole favorirono la carriera di Italo, impegnato in difesa dei mezzadri, da dirigente di partito e sindacalista. Incarichi non nettamente distinguibili, allora, non incompatibili. Negli aspri contrasti del dopoguerra, fu prezioso sostenitore delle cause dei più deboli, mezzadri e braccianti, aggiungendo alle competenze professionali il prestigio d’essere stato un ex ufficiale dell’esercito. Di fronte a lui, le forze dell’ordine incaricate di reprimere le proteste avevano occhi di riguardo, persuase dalle sue maniere garbate e dagli argomenti; determinato ma rispettoso verso gli interlocutori. Italo, in più occasioni, fu decisivo durante scioperi e manifestazioni di protesta a tutela dei contestatori, riuscendo a rabbonire la piazza e ottenere concessioni a favore della stessa. Esiti che raccontava fiero. Come rinverdiva le peripezie da ufficiale gentiluomo, sballottato in situazioni tristi o galanti. Bell’uomo, longilineo, elegante, dai baffetti malandrini, capace di fare il baciamano alle signore in perfetto stile, ricordava divertito le pozioni miracolose somministrategli da una dottoressa rumena(?) che l’avrebbe rimesso in sesto dopo un deperimento fisico grave con terapie portentose, superiori al mitico Gerovital…

Bontà, intelligenza ed eleganza di Italo a contatto con certe rudezze, degli scherzi di compagni burloni, dettero luogo a divertenti storie da lui sopportate con bonomia.

Da sindaco comunista, certi bricconi gli insinuarono il dubbio che per la sua carriera sarebbe stato deleterio offrire smancerie ai regnati del Belgio, in visita in città. Ma come avrebbe potuto negarsi alla regina Fabiola, devota di Santa Margherita, in pellegrinaggio per  ricevere la grazia di avere un figlio? (Grazia che non ottenne). A causa di quelle dicerie ricattatorie, in quei giorni Italo si destreggiò, da slalomista in mezzo ai paletti, seguendo quanto l’etichetta gli suggeriva, dispensando ossequi e baciamani alla regina, deludendo gli anticomunisti pronti a criticare eventuali gesti del sindaco irriguardosi versi i reali belgi, che non ci furono.

Un altro scherzo attendeva il buon Italo, ordito da compagni cazzari.

Era l’epoca dei golpe, veri o presunti, che tenevano in allarme i partiti, specie di estrema sinistra.  Durante l’allerta, s’invitavano gli attivisti a non dormire in casa, onde evitare facili catture poliziesche, nell’eventualità d’un golpe. Nottetempo, un gruppo sparuto si presentò al domicilio di Italo, invitandolo a dileguarsi subito! L’ordine veniva dal Centro. I dirigenti di spicco come lui avrebbero dovuto in fretta e furia scappar di casa, e rifugiarsi in montagna. Ma il mite sindaco, contrario a lasciare il tepore domestico, argutamente rispose: “Che fretta c’è?!… ho un’uscita secondaria,  caso mai, scapperò da lì…”  Lo stesso perentorio invito burlesco fu rivolto a un dirigente politico della Valdesse, che rispose: “La mamma non sta bene!… devo accudirla, verrò domani in montagna!”. Invece abboccò un Assessore, ligio ai diktat del Partito, dando luogo a una scena pre-Fantozziana: in fretta, saturò la piccola Bianchina con un grosso materasso arrotolato, una doppietta (avendo occhiali simili a culi di bicchiere, cosa avrebbe centrato?!) e una grossa radio a valvole (dove avrebbe attinto la corrente elettrica?!) pronto alla fuga!… finchè gli fu svelata la burla.

Fuor di facezie, riassumere le situazioni affrontate dal sindaco Petrucci sarebbe interessante, ma vasto. Limitiamoci ad alcuni titoli. Favorì il gemellaggio con la città di François Mitterrand. Mentre la crisi mezzadrile – conclusa in un mare di vertenze aziendali, fino alla soppressione di quel contratto – provocava  rivolgimenti sociali epocali a Cortona. Oltre diecimila abitanti emigrarono nei poli industriali toscani. In loco, ebbero vita breve esperienze imprenditoriali d’una qualche consistenza, durando solo la rete artigianale di microimprese diffuse nel territorio. Ex mezzadri si aggiunsero al novero dei coltivatori diretti, agevolati nell’acquisto di fondi, mezzi, sementi, carburanti,.. A seguito del boom di nascite negli anni Cinquanta, fu necessario costruire nuove scuole elementari. Il Comune, anche assumendo direttamente, fronteggiò per quanto possibile una crisi occupazionale devastante. In Città fu rafforzata l’Azienda di Soggiorno nell’intento di sviluppare il turismo, dopo che il Comune aveva posto il vincolo di inedificabilità sul cono collinare… Senza dimenticare le tensioni politiche da guerra fredda, per cui,  attraverso il controllo sugli atti da parte della  Prefettura, si rendeva difficile la vita al Comune rosso limitandone l’autonomia di spesa.  In tal contesto, non mancò a livello locale la partecipazione al dibattito sui temi di politica nazionale e internazionale. Basti ricordare, a favore del disarmo nucleare,  l’imponente marcia della pace da Camucia a Cortona (sul modello della Perugia – Assisi) promossa da Petrucci, sospinto da Aldo Capitini e da numerosi intellettuali giunti a Cortona in quella circostanza.

Pure impegnato nel PCI, Italo fu accolto tra i membri dell’Accademia Etrusca.

Del sindaco gentiluomo rimasero, tra i dipendenti comunali, certi pettegolezzi sulle sue vere o presunte manie. Italo teneva alla privacy negli incontri in ufficio, perciò aveva installato una serratura apribile solo dall’interno, intesa a bloccare gli intrusi in caso di ricevimenti particolari… Amava il suo cane, al punto che telefonando a casa non mancava di farselo passare  per vezzeggiarlo un po’… Fu anche candidato al parlamento, avendo come competitore il sindacalista CGIL Bitossi. I compagni lo convinsero del successo, argomentando che: “Bitossi è gobbo e malfermo di salute! Anche se vincesse lui, gli subentreresti subito!… presto andrà al Creatore!” frasi che Italo ripeteva a chi gli avesse chiesto previsioni sull’esito del voto. Ottimista, pare si  fosse premunito pure rinnovando il guardaroba, adatto al parlamento. Se nonché fu “trombato” a vantaggio di Bitossi. Costui – sapute le chiacchiere sparse sulla sua salute – si vendicò, durante un incontro occasionale, apostrofandolo: “Italo, tie’!…” unito al gesto teatrale dell’ombrello.  Ma il flemmatico Italo incassava il buono e il cattivo con spirito sportivo.

Concluso il mandato di sindaco, seguitò con passione l’impegno politico dedicandosi all’Alleanza Contadina, sindacato che raccoglieva ex mezzadri schierati a sinistra, e riservando più tempo agli affetti della sua vita: la moglie Giuliana e la figlia Fabrizia.   www.ferrucciofabilli.it

I dolori dei “giovani” Bassolino, Cofferati, D’Alema… interessano ancora la sinistra?

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Avendo rinunciato all’impegno politico, da una decina d’anni, m’ero proposto di parlare di politica in presenza di vere “novità” o in situazioni dannose per il “popolo”, da romantico d’una sinistra che non c’è più. Astenendomi dal giudicare dibattiti interni ai partiti residuali che in qualche maniera si richiamano alla sinistra,  autoreferenziandosi, perché magari eredi di elettorati, sedi, soldi, quadri dirigenti, simboli, ecc. ecc..

Quando, però, come oggi, sentendo assurgere certa gente a interpreti d’un pensiero politico che sono stati loro stessi ad affossare, ti senti quasi costretto a dir loro: basta! Avete preso, e seguitate a prendere in giro…di quale sinistra parlate?

Non sono Renziano. Conosco un certo modo di comportarsi dei politici alla fiorentina, conosco la loro boria, per non dire altro: più intelligenti, più capaci, ecc. ecc.; oltretutto Renzi è un democristiano di quelli che non mi piacciono, mentre ce n’erano davvero in gamba. Ma, considerando che certi miei amici, compagni di base di lungo corso, ebbero subito simpatia per Renzi, intenzionato a rottamare i soliti noti, volli vedere se fosse riuscito nell’intento; sperando pure che, agendo,facesse pure qualcosa di sinistra.(Non ci credevo tanto, ma ridotti alla canna del gas ci si attacca ad ogni flebile speranza).

Cosa hanno rappresentato i vari Bassolino, Cofferati, D’Alema, Bersani e giù giù tanti altri ex PCI, PDS, DS, PD? Mi limiterò a poche cose, per non annoiare. Innanzi tutto, scomparso Berlinguer, han fatto fuori brutalmente il successore Alessandro Natta, con il classico colpo di palazzo: era “la vecchia politica”, sostituendolo con Achille Occhetto. Al quale fu consentito di cambiare nome al PCI, ma – arrivato in questi giorni ai suoi ottanta anni – ha dichiarato la sua delusione di non aver fatto uscire il nuovo partito a “sinistra”, bensì, conviene lui stesso, fece nascere un’altra cosa… Tuttavia, considerandolo inaffidabile, capace cioè di tentare di riportare a sinistra il neonato PDS, fecero un altro colpo di palazzo, estromettendolo. E, da lì, uscì allo scoperto un duopolio che sarebbe durato diversi anni: D’Alema e Veltroni, benedetti dal grande vecchio Napolitano, vero ideatore e vincitore della partita del “cambiamento”: avendo favorito, con i “miglioristi”, la trasformazione del partito comunista in qualcosa di nuovo e diverso anche dai socialisti, da partito anticapitalista, o comunque critico verso il liberismo, a partito filoamericano, e filo liberista, nel senso più stretto possibile. Dopo aver lui stesso criticato (quanto convinto, non si sa?) sia come si stava affrontando la moneta unica, sia il trattato di Maastricht, che, ieri come oggi, fu ben chiaro: si trattò della capitolazione comunista e socialista europea al neoliberismo, sortendo quegli effetti che oggi sono sotto gli occhi di tutti: milioni di disoccupati in più, riduzione dei diritti nel lavoro, nell’accesso agli studi, alla sicurezza sociale, alla cura della salute, e ingaggiando la lotta ai “privilegi”… dei poveri! In favore della finanza e delle multinazionali e di una burocrazia ottusa che si è dedicata in larga parte a regolamentare come deve essere fatto il formaggio o la cioccolata, non più seguendo tradizioni o inventive artigianali, ma standard industriali (le multinazionali – Nestlé Monsanto ecc. ecc. – ringraziano). Tanto per esemplificarne lungimiranza e vantaggi per consumatori e produttori.

Da Maastricht in poi, chi ha notato la differenza tra sinistra e destra, in Italia ed in Europa? Tanto ché il quesito, s’era ancora possibile parlare di quelle categorie politiche, nei mass media fu trattata come roba non da Novecento, ma come disputa addirittura da Ottocento, da primordi  delle ideologie e della industrializzazione.

Bene. Sugli svantaggi per i cittadini europei non è il caso di soffermarsi, insieme, ovvio, ad alcuni vantaggi che, però, messi sui piatti della bilancia non vedono proprio un equilibrio, ma, come molti economisti ammettono, la comunità europea, così come s’è organizzata, non avrà vita lunga potendo implodere da un momento all’altro (anche per cause esterne, come gli attuali enormi flussi  migratori) e avendo fatto tali e tanti danni, tra cui mettere la Germania al timone…quel che non le era riuscito con ben due guerre mondiali!

Ma torniamo a bomba, sui nostri fenomeni politici che si lagnano di Renzi. Il quale, per loro disgrazia, ne ha presto imparato i trucchi per l’ascesa e il consolidamento al potere. Gli stessi trucchi usati in passato dai sedicenti portatori dei veri ideali di sinistra; ideali dei quali, come dimostrato, non si sono fatti certo paladini, se, pure un commediografo come Nanni Moretti, ebbe a dire: “D’Alema, dì qualcosa di sinistra!” Che gli scappi detta ora, che sente il potere sfuggirgli di mano, mi sembra un po’ tardi, ma, soprattutto ha dell’incredibile. Oggi, infatti, sul Corriere della Sera ha sostenuto che l’elettorato di sinistra si asterrebbe dal voto perché  non si riconosce nel neonato partito della Nazione, e altre affermazioni riguardanti l’arroganza tenuta dai Renziani verso i vecchi dirigenti riconducibili al PCI. Ma non era stato D’Alema stesso, nella famosa commissione Bicamerale, ad avviare con la destra quel che il magistrato milanese Colombo ha definito la realizzazione del progetto della P2 per l’Italia? I suoi successori, nel PD, sembrerebbe non stiano facendo altro che quello…ma di questo lui non parla. Così come, purtroppo, non  affronta i nodi che hanno allontanato, da anni, gli elettori dalla politica.

Un tempo, la sinistra, era abituata ad analizzare certi fenomeni, siccome sta lì il tema dei temi: forse che i motivi principali del disamore verso la politica non andrebbero ricercati nel non aver risolto la questione morale di Berlingueriana memoria? Anzi, la sinistra ha messo tasselli importanti perché la degenerazione politica franasse ancor più, avendo stabilito per i dirigenti pubblici la fedeltà non alla Nazione, come stabilito nella Costituzione, ma la fedeltà a chi in quel momento amministra, con tutto quel che comporta di bieco opportunismo ed inefficienza. Ed è sotto gli occhi di tutti, come l’obiettivo della conquista del potere sia così spesso ridotto a connubi di questioni personali, di affari, di lobbies,… quando il potere non è addirittura obiettivo del malaffare, che, anch’esso, con le piccole o con le grandi organizzazioni criminali, s’intromette nella politica senza pudore. Ecco dove è finita l’eredità Berlingueriana, nel perseguire il suo contrario: la questione immorale.

Perciò, penso, solo quando sentiranno  qualcuno dire cose veramente di “sinistra” (cioè al centro di tutto gli interessi popolari veri, delle persone, possibilmente mirati ad alleviare le sofferenze degli ultimi, sforbiciando privilegi assurdi, non consentiti neppure nei paesi dei nostri partners “occidentali”) gli elettori, forse, potrebbero tornare a interessarsi di politica. Stando così le cose, invece, quei pochi ancora che seguono la politica saranno unicamente attratti dalle idee di qualcosa di nuovo (senza badare troppo ai contenuti) e, solo ad esso, si attaccheranno. Dunque, addio ai vecchi tromboni della politica. Non hanno più chance. Come usava dire un tempo: si sono dati da soli la zappa sui piedi! O anche: chiudono la stalla quando i buoi sono scappati.

EDO BIANCHI, farmacista, cultura enciclopedica e fantasia da ragazzo per il gioco

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PRIMA_COVER_TUTTI DORMONO copiaFu battezzato Alfredo, ma essendo figlio di Alfredo all’anagrafe lo ridussero in Edo. Il padre aveva aperto una farmacia a Camucia nel 1925, in via Regina Elena, pur non essendo laureato, nominando direttrice una farmacista, finché non giunse Edo col  titolo di studio giusto a sancire l’unità aziendale tra proprietà e direzione della Farmacia… Alfredo Bianchi.

Edo il farmacista, vorace studioso capace di spaziare nei campi più disparati del sapere, coltivava le passioni con grande meticolosità: ad esempio, quando fu attratto dalla prestidigitazione si faceva mandare pubblicazioni dall’America (Las Vegas), dall’Inghilterra e dalla Francia, per apprendere direttamente i trucchi più innovativi, essendo capace di leggere e capire sia l’inglese che il francese. Per il gusto di sapere, ma anche di stupire e insegnare ai numerosi e fedeli amici gli ultimi giochi appresi.

Dietro un fisico da intellettuale, dalla classica pancetta, nascondeva lo spirito atletico del giocatore di calcio. Ogni giorno, dopo pranzo finché non riapriva la farmacia, trasformava il sagrato della chiesa, dietro casa sua, in campo di calcio in una sfida continua con l’antagonista fisso: lo scarpaio Giando (Giandomenico Ciculi). Siccome gli piaceva vincere sempre, e ci riusciva, prendeva nella squadra da lui capitanata i migliori ragazzi che si presentavano a tirar di calcio. Ragazzi che magari già militavano nella locale squadra del pallone. Tra i più assidui ricordiamo: Rossano Romizi, Camillo Ghezzi, il Bufalini, Bartolozzo e il figlio Alfredino, che spesso era stretto tra due fuochi: il babbo Edo che lo incitava  a tirar calci al pallone e la mamma che dalla finestra lo richiamava: “Alfredino, vieni a fare i compiti!”. Il babbo trattava il figlio da fratello, portandolo sempre con sé nel tempo libero dal lavoro e dalla scuola. La mamma invece era propensa a tenerlo discosto dal padre, specialmente quando l’uomo si abbandonava alle intemperanze verbali, per qualche contrarietà di gioco, spargendo in aria rosari di bestemmie! Che, nel piazzale della chiesa, immancabilmente fiorivano ad ogni istante sulla bocca dell’assatanato sportivo farmacista. A quell’andazzo di blasfemia giaculatoria dovettero mettersi l’animo in pace pure i preti don Brunetto e don Aldo, era il farmacista…come rimproverarlo! Oltretutto sua moglie era la stacanovista tra i fedeli partecipanti ai riti religiosi, e sempre pronta a segnarsi con la croce a ogni bestemmia del marito che le giungeva alle orecchie. Anche se, a onor del vero, Edo non era amorale o anticristiano, ma il moccolo gli veniva spontaneo come fosse un’interiezione, da toscanaccio. (Secondo il sociologo Vittorio Dini tale mania giaculatoria, tipica toscana, sarebbe derivata da una tradizione precristiana, allorché nei pagus i contadini usavano recarsi nei crocicchi campestri – dove si pensava stazionassero gli spiriti – a incitarli, anche con male parole, affinché proteggessero la famiglia, le coltivazioni e gli animali domestici).

La consuetudine delle partitelle postprandiali finirono per un dispetto di Giando, stanco di perder sempre, sgambettò Edo sul marciapiede, al quale, cadendo rovinosamente, gli si ammaccò un ginocchio invalidandolo e facendogli perdere la voglia di giocare. Tuttavia l’incidente non guastò l’amicizia tra i due, che condivisero nell’arco della vita gran parte dei loro hobbies. Prendiamo il modellismo. Edo, nel 1972, aveva acquistato i pezzi per ricostruire la mitica nave Victory di Orazio Nelson, che nei dopocena ricompose diligentemente, facendosi predisporre il cordame dalla moglie di Giando. Lo stesso amichevole sodalizio, allargato a un gruppo di amici che si era consolidato nel tempo, si dedicò alla costruzione di modelli di auto, aerei,… giocattoli telecomandati; Alfredino non dava una mano, ma ne approfittava come giocatore. I modellini semoventi che più attizzavano Edo erano gli aerei per il suo gran desiderio di volare, senza per altro potersi togliere, in tutta la vita, la soddisfazione di quell’esperienza, almeno una volta. Fu una dei pochi desideri insoddisfatti del farmacista. E anche i modellini volanti creati da Lui, il più delle volte, a sperimentarli era Mauro Zucchini, avendo più tempo da perdere.

Nel tempo era maturato a Edo un pallino intrigante: la fotografia e la cinematografia, dotandosi dei migliori strumenti in commercio, compresa l’attrezzatura per lo sviluppo con cui nottetempo in farmacia armeggiava anche per la meraviglia del figlio che assisteva alla trasformazione dei negativi in immagini stampate. Ancor più impegnativa fu l’esperienza cinematografica, dov’erano coinvolti il solito Giando, lo Zucchini, Rolando Cangeloni, Ivo Broccolini, personaggi che oltre a dare il loro apporto tecnico e creativo, s’impegnarono anche a insegnare ad altri amatori l’arte della ripresa, della sceneggiatura, dell’allestimento della colonna sonora… Si era creato insomma un gruppo di cineamatori quasi professionali che si cimentarono in numerosi lungo e cortometraggi, in cui furono coinvolti loro stessi come attori, affiancati da protagonisti occasionali in parti, spesso, consone  alle rispettive attitudini quotidiane: come il giocatore di pallone Rossano Romizi o lo stracciarolo Aldo Cardosi, presenti nel lungometraggio intitolato “Il falso Michelangelo” – giunto secondo al premio Viareggio. In cui il collante della storia è un biglietto da diecimila lire con il Michelangelo in una facciata, ma di quelli falsi emessi dalla Kraft per pubblicità. La scena inizia con un Camuciese emigrato che torna dopo anni al paese d’origine facendo visita a un amico che, durante una passeggiata insieme, raccoglie da terra la famigerata banconota e se la mette nel portafogli. L’amico ritornato, frustato dalla esclusione da un qualche beneficio derivante dalla banconota, aggredisce il compare maltrattandolo. Mentre  tra i due si sta chiarendo che era uno scherzo, la banconota prende il volo e cade nei pressi del giovane calciatore Rossano che, palleggiando, sognava di comprarsi un paio di scarpette chiodate nuove. Con quella manna piovuta dal cielo il ragazzo va dallo scarpaio Giando per realizzare il suo sogno,  e che, durante la prova delle scarpe – in dissolvenza -, si vede giocatore con la maglia amaranto dell’Arezzo. Ma al pagamento gli viene contestata la falsità delle diecimila, gettandolo nello scoramento, e, mesto, si reca al bar del Baffo. Dove, imbronciato, prima si nega agli inviti dei coetanei a giocare al bigliardino, poi accetta, gettando per strada la moneta falsa. Passando di lì il raccatta robe Aldo Cardosi – dello stesso mestiere nella vita reale –  non fa a tempo a impossessarsi del Michelangelo falso che viene investito da una autovettura davanti alla farmacia del Bianchi. L’incidente però si risolve senza danni per Aldo che convinto trattarsi di un miracolo, avvenuto sotto lo sguardo della statua di Cristo Re collocata sul frontale della vicina chiesa, deposita la moneta come elemosina nel santuario. Il film si chiude con il gobbetto Aldo che s’allontana caracollando lentamente in dissolvenza. (Superfluo dire che la dissolvenza ancora fosse capacità tecnica da professionisti).

Edo, ammiratore della cinematografia francese propensa al surrealismo, rivela questa vicinanza già nel titolo del corto: “La foglia morta”. Dalla trama semplicissima. Nel viale della stazione di Camucia (l’unico alberato sui due lati) c’è un assembramento circolare di persone che  guardano in basso. Finché sopraggiunge un medico in Ape, che entra nel cerchio, si abbassa, e dopo un po’ rialzandosi fa cenni col capo che non c’è più nulla da fare: è la prima foglia morta d’autunno, che appare lentamente in primo piano.

Nel gruppo di cineamatori – invertendosi anche i ruoli: Edo e Giando, in particolare, si mutavano una volta da registi e l’altra da compositori di colonne sonore – c’era un certo eclettismo nei generi: dalla commedia, al comico, al western,…dove tutti si intromettevano nelle scene come protagonisti di scazzottate, accoltellamenti, sparatorie,…ragazzi attempati in vena di giochi pazzerelli col pretesto del cinema. Edo amava la spiritosaggine. Consumato barzellettiere, raccoglieva pure spunti dalla realtà, trascrivendoli nei suoi appunti. Come quello dell’allevatore che gli chiese “una pasticca per far tornare la troia al verro”, o l’altro che voleva “una aspirina fosforescente” o di chi gli glorificava un felice incontro con una donna speciale: “E’ una puttana, ma seria, seria!…”. Avendo il dono di ispirar fiducia, spesso gli toccava il ruolo di confidente su questioni personali, quelle che, ovvio, non trascriveva nei diari.

Uguale fiducia non l’ebbe dal Vescovo, che gli negò il beneplacito di partecipare alla trasmissione televisiva Campanile Sera.  (Gioco a quiz in cui erano in lizza due città). Per il Vescovo era pericoloso far rappresentare Cortona da quel pozzo di sapere, purtroppo però bestemmiatore compulsivo. Che fu lasciato a patire, attaccato al telefono presso il Ristorante Tonino, mentre comunicava le risposte tutte corrette alla piazza, che non seppe trasmetterle altrettanto correttamente al concorrente che alla fine del gioco azzeccò una sola domanda! Ovviamente travolto da una gragnola di bestemmie e vaffanculo, non solo di Edo, per la figuraccia di Cortona in visione nazionale.

Il farmacista trasmetteva il suo sapere enciclopedico non da saccente, bensì gentilmente: “incantava con le sue parole”, affermava il prete di colore Jean Marie. Che spesso gli faceva visita a domicilio quando non poteva più muoversi da casa a causa di ginocchia malandate. O come testimoniava la sua collaboratrice domestica, una donna di estrazione culturale non elevata, che ebbe a dire: “Ho imparato da Edo in poco tempo tante di quelle cose, più di quante ne avevo apprese in tutta la vita!”

E, finché si era potuto muovere, aveva dispensato la sua conoscenza, mescolandola con ironia (e qualche moccolo d’interiezione), agli avventori della sua farmacia, o in piazza o nei bar senza la boria dei sapienti. Un modo di contribuire alla crescita dello spirito critico e della curiosità di gente magari più presa dall’agire che dallo studio, andando a braccetto (idealmente s’intende) con l’altro nouveau philosophe camuciese il Pittiri, anch’egli impegnato a insegnare a chiunque il pensiero libero.

Figlio di un socialista, Edo si professava radicale ante litteram, una sorta di liberal all’anglosassone, affiancato dal Pittiri un sui generis anarco- comunista. Ambedue popolari nella nascente cittadina di Camucia, perché attenti e coinvolti nella vita comune della gente. Edo aveva pure versato un contributo alla costruzione della locale Casa del Popolo (lasciata ignominiosamente in degrado), e, pur non essendo iscritto ad alcun partito, capace di un attivismo politico e culturale prezioso e raro.

 

 

 

 

Un invito alla lettura di un’opera dall’insolita cornice – Un racconto tratteggiato di volti  

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PRIMA_COVER_TUTTI DORMONO copia (1)Inizia così, intorno a un focolare questa storia, dove Ferruccio ci allieta di piccoli aneddoti che, l’uno dopo l’altro, tratteggiano l’indole di Cortona e del suo territorio.

Un luogo, la grande storia si esprime in siffatta maniera in questa serata che scorre piacevole e calda. Sentirsi a casa, e sentirsi appartenere ad un tempo ed un luogo anche sconosciuti ma che avvolgono la tua vita.

Fioriscono i racconti in questo libro fatto di fatti, di ritratti acquerellati che tracciano le sembianze di persone che, come ovunque, caratterizzano e si fanno portavoce di un’identità, di un modo tutto tipico, di radici culturali, di trame e rami familiari, sociali che si estendono fin nel futuro.

La tensione narrativa è racchiusa nei personaggi che si svelano, e disvelano lo sguardo e la fisionomia di una città che, come “Ademaro, dongiovanni discreto e romantico”, seduce elegantemente chi vi si avvicina.

Uno squisito stile quello dell’autore, figlio e profeta di questo luogo e in quest’impresa; dove ogni singolo dettaglio è espressione di ricerca e gusto di un uomo appassionato e attento che, con lieve ironia, allieta i presenti e accarezza mordente chi si lascia toccare da ciò che la sua penna imprime sulla carta.

Esilarante e delicato – lo ha definito Lorenzo, in uno scambio di battute che ci porta con avidità a scoprire quanti più succulenti particolari di una cronaca, di una novella che tocca le corde della curiosità e muove il sorriso.

Il cuore pulsa dove sente la vita – e “Tutti dormono sulla collina di Dardano”, con in copertina l’immagine di una veduta dall’alto che, di Cortona, pone in primo piano il cimitero, paradossalmente rappresenta bene uno spirito, lo spirito di persone, che lì si acquietano ma non muoiono.

Non si spengono, così come la loro memoria che corre tra i fili di un quotidiano narrarsi; lui, che tiene sveglio e tignoso, con la battuta sempre pronta, quel carattere tanto bestiale e così poeticamente dionisiaco da raccontare il volto e la dignità speciale di uomini e donne con così tanto gusto e rispetto per la vita.

È geniale come questo animo critico, attento al cambiamento, scevro dai moralismi dei tempi, castrati, bacchettoni e ipocriti ci libera, con il gioco accogliente e scoppiettante del fuoco, di ogni fardello e ci invita a sorseggiare quel banchetto offerto in questo splendido casale della campagna toscana.

E l’atmosfera conviviale che mi sovviene è la stessa che ripercorro con la lettura di questi attori: tratteggiati con tatto e discrezione, fatti “di radici profonde e un duro carattere per reggere tanto gusto per la vita”, ordinati e dipinti con “labbra strette e amare che avevano baciati tanti uomini e non per amore, un’immagine diversa dalla solita bocca di rosa”, ma con “un sorriso felice che non ha mai fatto pesare la fatica e che a ricordarlo fa tremare il cuore”.

Un’esperienza che spero possa ripetersi, iniziata con la presentazione di un’opera capace di rappresentare lo spirito di corpo di questo paese e superare l’estraneità in questo incantevole spazio che, in un’amichevole alleanza tra chi la cultura la ama e chi la cultura la crea, fedelmente ha saputo riproporre il “topos” la vera natura e l’autentica personalità di luoghi e persone che sanno al pari incantare e prendersi gioco umilmente di sé.

Ebbra e densa i sapori intensi la cornice, come l’opera in questa serata organizzata dalla Libreria “Le Storie” di Federica Marri, intorno al focolare dell’agriturismo di Chiara Vinciarelli in via della Stella, venerdì 12 febbraio.

Silvia Rossi

FRANCOIS MITTERRAND, grande statista europeo legato a Cortona  

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A venti anni dalla scomparsa di François Mitterrand è giusto ricordarlo tra i più apprezzati statisti europei e tra i migliori presidenti della Repubblica Francese. Come testimoniarono il consenso popolare, che lo tenne ai vertici politici ben 14 anni; le opere pubbliche meravigliose realizzate a Parigi e in Francia sotto la sua presidenza; e il suo contributo determinante alla costruzione della Europa nuova. A cui gli Stati avrebbero ceduto parti consistenti  della loro sovranità, nella speranza di pace interna e  arricchimento ( economico, sociale, culturale) espandendo  diritti e opportunità. (Anche se oggi siamo ai ripensamenti, per crisi di fiducia: non tanto sulle remote premesse europeiste, quanto sulla loro attuazione pratica).  E sapere che, l’illustre concittadino onorario, tenesse Cortona tra le città italiane più amate, insieme a Firenze e Roma, era gratificante. Affetti, i suoi, estesi a persone, istituzioni, arte e storia locale. Un politico particolare per cultura e determinazione, di cui conservo libri regalati dallo stesso.

A partire dal collage di immagini e articoli di giornale sul 10 maggio 1981, nell’ occasione dei festeggiamenti per la sua prima elezione a Presidente della Repubblica. Ci sono i discorsi tenuti negli anni della militanza socialista, insieme ai saggi che, a ogni uscita, suscitavano discussioni, non solo nella sua area politica e in Francia, ma in tutta Europa. Chi ha buona memoria, nella mia generazione, li ricorderà: “Ma part de verité” [La mia parte di verità], sui controversi rapporti con altri partiti di sinistra, nello sforzo unitario ch’ebbe pure  momentanei successi; fino ad attrarre, al suo partito, dirigenti e militanti comunisti  (affascinati dalla sua leadership). Inoltre, ci sono i suoi obiettivi di governo in : “Ici et maintenant” [Qui e ora], “La paille et le grain” [La paglia e il grano], “L’abeille et l’architecte” [L’ape e l’architetto].

Presagiva l’idea di un’Europa Unita, anche a livello monetario, al fine di impedire che un marco forte riportasse l’Europa a situazioni prebelliche; idea che certi gli hanno rimproverato. L’operazione Euro – a lui successiva –  ha avuto tra gli effetti indesiderati di rafforzare  l’economia tedesca. Ma da Mitterrand ad oggi è passata acqua sotto i ponti, e sarebbe semplicistico addossare alle vecchie generazioni errori successivi, riguardo strategie deleterie per cittadini e imprese. Senza l’intento di scagionarlo da eventuali errori di valutazione (contenuti, ad esempio, nel Trattato di Maastricht). Non ne avrei neppure le competenze. Di sicuro, senza indulgere a nostalgie anacronistiche, era di pasta diversa, più sostanziosa, meno sfuggente di tanti successori. (Non a caso si circondava delle migliori teste pensanti, fronteggiandole alla pari). Come quando, in pubblico, prendendo  per mano il Capo Tedesco, Kohl, sancì la fine di un capitolo tragico nella storia europea, aprendone uno nuovo, improntato alla libertà e alla solidarietà tra popoli.

Sempre dagli scritti, resta il messaggio da molti abiurato o messo in soffitta: la validità dell’idea socialista anche in società avanzate, nelle quali diseguaglianze di opportunità , povertà e disoccupazione sono assillanti, pure in contesti, all’apparenza, opulenti. Con differenze abissali tra chi ha tutto e chi niente. E chi sta in mezzo teme il peggio. Egli credeva – idea comune ai socialisti veri – nella centralità del “controllo dei mezzi di produzione” da parte dello Stato (singolo o associato), non imprenditore (salvo casi particolari, o in produzioni strategiche), ma Stato regolatore. (All’opposto di quanto sta accadendo, da un bel po’, dov’è l’economia a dettare le regole alla politica). D’altronde, alcuni spunti sarebbero già previsti, ad esempio, nella Costituzione Italiana: le imprese perseguano scopi sociali e perciò vanno tutelate. O ragionamenti, sullo stesso tenore, riferiti alla tutela del risparmio, anch’essi  presenti in Costituzione…(Qui però è meglio stendere un velo pietoso, visti i nuovi scenari, per cui, in caso di fallimenti bancari, a pagare saranno i risparmiatori, se pur esclusi dalle decisioni prese dai vertici!). Almeno gli eredi del socialismo – chi per il nome chi per lo schieramento – dovrebbero ricordarne il valore di certi principi nell’azione quotidiana di governo. Mentre desta meraviglia come, all’unisono, espressioni politiche di interessi diversi se non contrapposti assecondino politiche iper-liberiste, come nel caso del sistema bancario. Sarebbe ragionevole aspettarsi, invece, dagli eredi della sinistra la valorizzazione e non la distruzione dell’Europa sociale, proponendone il modello al resto del mondo. Com’era negli intenti di Mitterrand: porre al centro politico la dignità delle persone, non l’asservimento al dio denaro.

Non dimentichiamo il fascino ch’egli esercitò anche al di qua delle Alpi, dove non si stava perseguendo “l’unità della sinistra”. Al contrario. Era in atto, tra comunisti e socialisti, una competizione catastrofica conclusasi nella scomparsa degli uni, i socialisti, e nella trasformazione – per tentativi abborracciati poveri di idee e prospettive – del partito comunista. Tantoché, l’adesione al PSE (coalizione socialista europea) del maggior partito della sinistra italiana è stata fatta per atto d’imperio del segretario del PD, Renzi.  Un ex democristiano!…

Pure una vicenda cortonese illuminò sulla miopia regnante tra i dirigenti del Pci, circa l’idea di una sinistra europea nuova e unita. Allorché Mitterrand invitò al comizio conclusivo della sua campagna elettorale (vincente) una delegazione cortonese (dimostrando garbo per la Città gemellata al suo Comune, Chateau Chinon, sodalizio di cui era stato promotore), ci fu il diktat dell’allora responsabile esteri comunista, Napolitano, che negò il nulla osta alla partecipazione del sindaco: “ per non irritare i comunisti francesi” si disse. Ma costoro non erano in procinto di allearsi con Mitterrand?!… Tale era il disordine in testa a quei dirigenti, mai del tutto superato.

Tuttavia la delegazione cortonese partì, accolta con onore, ospite nello stesso aereo di Mitterrand, al ritorno dal comizio. Di quella spedizione, ricordiamo le battute tra lo Statista francese e Franco Tonelli: “Come va Franco?” “Mica tanto bene!” fu la risposta d’un cortonese desideroso di più flutes di champagne, che non mancarono!

Ricordare i numerosi gesti dell’attenzione personale di Mitterrand  verso  cortonesi sarebbe una lista infinita…fiori in albergo alla figlia del sindaco Petrucci in viaggio di nozze… sempre fiori e le migliori cure per un Assessore cortonese ricoverato in un ospedale parigino…numerose volte gruppi di cortonesi furono ospiti all’Eliseo, in situazioni particolari e in occasione del 14 Luglio… Italo Petrucci, Ferdinando Magini, Franco Tonelli, Tito Barbini, Italo Monacchini, Ilio Pasqui, il sottoscritto, Spartaco Mennini, Emanuela Vesci, Spartaco Veltroni,…  e mi fermo qui, perchè sarebbe impossibile ricordare quanti ebbero più occasioni di incontrarlo e parlarci su fatti personali o sull’attualità. Mitterrand fu generoso di amicizie cordiali! Come non mancarono le sue visite a Cortona, da Sindaco e da Presidente, anche senza impegni particolari. Pure ospite a casa di privati cittadini.

Tra gli ultimi ricordi ho la visita al Museo del Settennato (poi raddoppiato) a Chateau Chinon. Dove sono conservati i doni a Mitterrand, ricevuti da altri Capi di Stato  (abbiamo presente la figura cacina dei governati italiani nei Paesi Arabi, mentre si accapigliavano per un Rolex?!).  Come ricordo il ricevimento all’Eliseo, prima della sua rielezione. Nell’occasione, forse già malato, alla domanda se si fosse ricandidato lasciò nel dubbio…discrezione e modestia erano anch’essi segno di una personalità  che sapeva il fatto suo. Glielo si leggeva nello sguardo. Mentre confidò sorpresa ed emozione  guardando, in TV,  milioni di persone ai funerali di Berlinguer.  E lui stesso era tra i pochi leader capaci di suscitare altrettante manifestazioni di affetto.

E’ vero, non sono sopite le polemiche nei suoi riguardi circa un qualche suo coinvolgimento col governo di Vichy, com’è altrettanto noto il suo impegno nella Resistenza e nella ricostruzione francese postbellica, attestati dalla sua nomina a Ministro, giovanissimo. Tra gli incarichi ebbe il Ministero delle Colonie, altro spunto polemico. Tuttavia bisogna dar atto che la sua lungimiranza lo portò a sposare posizioni sempre vicine ai sentimenti popolari. Sia da artefice nella ricostruzione della Francia democratica, sia nel Partito Socialista, che risollevò da frazionismi inconcludenti. E, riguardo alle ex Colonie, basta andare al Museo del Settennato a Chateau Chinon per vedere la considerazione tributatagli dai Capi di Stato Africani post coloniali. Ciò detto, non escludiamo suoi errori politici (su cui indagheranno gli storici), però statisti di qualità si vedono nella loro evoluzione ideale, e nei successi ottenuti. E Mitterrand ottenne il massimo. Oltretutto, fu soprannominato “Le Florentin”, che non è offensivo per noi italiani. Se, infatti, è esistito un intellettuale che lesse, meglio di tutti, i risvolti della politica più reconditi fu proprio il fiorentino Nicolò Machiavelli, nel “Principe”.

Un ultimo apprezzamento, sulla sua vita privata. C’è un detto: “Cesare si giudica dalla donna che ha accanto”, e la sua sposa, Danielle, fu ammirevole, oltre che buona amica di Cortona. Dai molteplici interessi culturali e politici, affiancando il marito, e dando il proprio sostegno a favore cause di popoli oppressi, fino alla fine dei suoi giorni. Anche attraverso la Fondazione F. Mitterrand. Allo stesso tempo, tollerò i capricci sentimentali di François, accettandone pure il riconoscimento della figlia Mazarine, frutto d’una relazione extraconiugale.

E non tralascerei l’uscita dall’Eliseo di Mitterrand, quando i socialisti avrebbero voluto regalargli un’utilitaria per gli spostamenti, egli la rifiutò. Avrebbe utilizzato i mezzi pubblici come qualunque cittadino. Farci la chiosa è facile, di fronte a sprechi faraonici perpetrati dagli alti papaveri politici italiani, una volta pensionati. Tanto che, da laici, “populisti” e socialisti non pentiti, verrebbe da dire: “Papa Bergoglio ci vorrebbe anche al di qua del Tevere!” a rimettere i piedi per terra agli scialacquatori di Stato. E, forse che, non ridarebbe senso alla politica seguirne gli accalorati e precisi messaggi sociali di questo Papa?!.. che se la ride all’accusa d’esser comunista.

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DON DOMENICO RICCI, economo scrupoloso e dispensiere del buon umore

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Grazie anche alle cure di don Domenico venne realizzato l’imponente mosaico del san Marco di Gino Severini, collocato nella chiesa urbana dedicata al Santo, rivolto verso la Valdichiana e il Trasimeno. Potessimo chiedere al Parroco, don Domenico Ricci, al Vescovo, Giuseppe Franciolini, e all’Artista, Gino Severini, avremmo nota la trafila che portò al compimento dello splendido ritratto dell’Evangelista assiso e del leone accucciato. Ognuno mise del suo. Franciolini, mecenate e fine intellettuale, ne fu ideatore e sponsor. Innamorato di Cortona, volle celebrare s. Marco, a cui la tradizione affiancava un leone, presente nello scudo araldico cittadino. Molti Municipi hanno un leone, non sempre riferito a s. Marco, bensì emblema di forza e coraggio. A Franciolini piacque associare l’Evangelista alla stessa fiera presente nello stemma cittadino. Oltretutto, la Liberazione d’Italia e la fine della guerra coincisero nel giorno dedicato al Santo: il 25 aprile. Mentre al genio artistico di Severini si deve l’opera grandiosa, nella tecnica musiva della Via Crucis adiacente, e sua stessa creatura. Ai cordoni della borsa e al controllo quotidiano in cantiere pensò don Domenico. In quel momento, pure economo del seminario intento a provvedere al sostentamento d’una sessantina di collegiali.

Basso di statura, grassoccio, capelli radi e stempiato, due gote bianche e rosse da buongustaio gli incorniciavano un sorriso del buon umore che di rado l’abbandonava.

Come insegnante in quinta elementare fu ideale – mia àncora di salvezza, in fuga dalle grinfie d’un arcigno maestro nozionista Camuciese – nella microscopica classe di tre alunni: me, Ermanno e Alvaro; coccolati e lasciati spesso soli per star dietro alle sue molteplici incombenze. Qui Quo Qua (scolari scansafatiche), ogni volta che  don Domenico lasciava soli, sbrigati i pochi compiti assegnati in classe si dibattevano in interminabili partite di calcio, usando per pallone una cimosa. La piccola classe a quel punto si trasformava nella più fracassona del piano, disturbando le altre impegnate nello studio. Non solo, i tre diventarono pure ladri di merendine.

L’economo, don Domenico, aveva stivato in un angolo dell’aula pacchi misteriosi, dove all’esterno si leggeva solo la sigla POA (Pontificia Opera Assistenza) e uno scudo raffigurante la bandiera USA, paese donatore. Un giorno, qualcuno inseguendo la palla-cimosa con un calcio forò uno scatolone da cui uscì fuori una pasta! Di quelle secche quadrate, usate la mattina nel caffelatte… Dapprima titubanti, alla fine furfanti, il primo scatolone andò presto a svuotarsi. C’erano da attendere i rimproveri del Maestro. Che non vennero. Anzi. Scoperto il vuoto, non fece altro che gettarlo nella spazzatura. E Qui Quo Qua seguitarono a scovare paste secche dalla ricca scorta…

Paterno verso i seminaristi, don Domenico era un parroco amato dai fedeli del suo quartiere popolare. E per le capacità oratorie, spesso, veniva invitato da altri sacerdoti a tener prediche in particolari ricorrenze. (Da chierichetti, alle viste d’un predicatore, capivamo l’eccezionalità della festa, sottolineata da effluvi appetitosi provenienti dalla canonica). La sua voce squillante si notava anche nei canti alle Messe solenni in Cattedrale, dove sedeva nello stallo da canonico se non impegnato tra i celebranti. Dotato di un’oratoria semplice e argomentata, condita di metafore e racconti pure ironici tratti dalla vita comune, incantava l’uditorio illustrando precetti religiosi.

Noi seminaristi godevamo della sua compagnia specie durante le vacanze estive a Sant’Egidio, dove alloggiava in una casetta adiacente al corpo centrale dell’Eremo. Sedotti dalla sua specialità: le barzellette! in genere, riferite a fessacchiotti o colleghi preti, viventi o trapassati. Storielle “non sporche”, uniche ammesse in quell’ambiente.

Come nel caso d’un prete ghiotto di soldi. La gente stanca della bramosia, all’accatto dell’elemosine, riempì la sacca di fave secche. Il pretonzolo dispettoso, la domenica successiva, si vendicò. Bollita una ciotola d’olio, alla benedizione,  vi asperse i fedeli, declamando: “Popolo mio, matto e spirtatooo, pe’ le fave ce vo’ l’oliooo!..”

Un’altra. Un predicatore dal pulpito, dopo un avvio caloroso, d’abitudine, proseguiva da seduto una lagna oratoria, pronunciando sempre la stessa frase: “E ora passiamo dall’altra parte!” Sennonché un giorno, un burlone lo fece davvero passare dall’altra parte: scansandogli la seggiola, finì gambe all’aria rotolando giù dal pulpito!…  E ancora. Durante la predica domenicale, per tener desto l’uditorio, il prete domandò: “Conoscete Tobia?” intenzionato a raccontarne le gesta bibliche. Quando un  popolano, senza esitazione, rispose: “Certo che l’conosco!… Tobia e ‘l su’ Tobiolo, stanno alla Piumacceta!”  E ancora. Un campagnolo sprovveduto, in visita in Città, volle pranzare in trattoria. Analfabeta, non intenzionato a svelarsi, mise il dito sul menù indicando un piatto di fagioli, ch’era il suo desinare quotidiano!… Vedendo a fianco un tipo che, consumata una bistecca, ordinando al cameriere: “Replica!” gliene fu servita un’altra altrettanto succosa, pensando d’aver capito tutto, a sua volta ordinò al cameriere: “Replica!” Ma – disdetta – a lui fu servito un altro piatto di fagioli!… E ancora. Don Chiericoni, detto don Rombo, noto per aver cacciato a cazzotti fascisti malintenzionati, ordinò al sacrestano di accudirgli la mula, suo mezzo di trasporto. Invece di acquistarci biada per la mula, i soldi il sacrista se li beveva, gonfiando la bestia con la pompa da biciclette. Don Rombo era tranquillo, la mula non deperiva. Finché un giorno, necessitandogli la cavalcatura, salito in groppa, una colossale scorreggia (da lì il soprannome don Rombo?) svelò le malefatte dell’assistente sbevazzone… L’ultima. Un prete durante le funzioni religiose non volendo esser disturbato dalla perpetua, ne accettava messaggi tramite uno spioncino nascosto. Quel giorno, imprevisto, fu donato al prete un bel pollo spennato, che la perpetua mise sulla fessura per ricevere ordini sulla cottura. Il prelato, senza interrompere gli uffici sacri, improvvisò un canto: “Bene fecisti Catarinella mittere pullum in finestrella! Mezzo lesso e mezzo arrosto per eumdem Cristo domino nostro!…”

Per le infinite facezie, tra i più bei regali ricevuti da don Domenico, mi piace pensarlo in cielo sopra una nuvoletta sorridente mentre è intento a far sganasciare dalle risate.

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