Aurelia Ghezzi, già dirigente Università di Athens, ha chiesto il trasporto delle ceneri da Boston a Cortona

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Aurelia GhezziSul periodico Cortonese, tempo fa, è apparso un trafiletto in cui la figlia Silvia invitava gli amici della mamma al Ristorante Tonino per l’ultimo saluto alla dott.ssa Aurelia Ghezzi, scomparsa di recente a Boston. Figura familiare nella città toscana dagli anni Settanta al Duemila, come vice direttrice degli Studies Abroad Program, dei quali era stata cofondatrice per conto della University of Georgia di Athens. Insieme a John Keoe, artista e direttore dei corsi in Italia, di cui Aurelia era braccio destro e anche sinistro, erano considerati amici più che rappresentanti di una istituzione, nella cittadina in cui tutti ci si conosce e ci si tratta confidenzialmente. Affettuosità che i due avevano piacevolmente assimilato da nuovi residenti, avendovi acquistato ciascuno una casa per sé e le rispettive famiglie, segno evidente di trovarsi egregiamente. Così ben inseriti da vivere la loro vita, liberi da impegni di lavoro, tra la gente comune. Di Aurelia e del marito Bob, gli abitanti del quartiere che gravitano su porta Colonia ricordano accese e divertenti gare a bocce, che Aurelia vinceva sistematicamente, a dispetto del fatto che Bob, essendo libero dal lavoro, trascorreva molte ore del giorno allenandosi, giocando con altri sfaccendati.
Dal nulla, con difficoltà logistiche enormi, Aurelia e John (Jack per gli amici) realizzarono con successo corsi universitari per centinaia di studenti americani, necessitando di tutto: dalle aule ai laboratori, come quelli per la fusione del bronzo e la produzione artigianale della carta, per i quali si erano arrangiati, agli inizi, nei fondi e nel cortile esterno del complesso di Sant’Agostino.
Ad Aurelia non sfuggiva alcun dettaglio, curando tutto di persona. Qualsiasi cosa mancasse Lei lo approvvigionava, appoggiandosi a fornitori locali od ovunque reperibili, chiedendo, s’era il caso, aiuto al Comune e all’Azienda di Soggiorno. Adsit iniuria verbis, Aurelia era la “trottolina” risolutrice, non solo attaccandosi al telefono, ma scalpicciando per i lastricati cittadini, in saliscendi impegnativi. Difficilmente, nonostante le fatiche, perdeva calma e sorriso. Sorriso abbozzato, sul volto all’apparenza austero, ma convinto, sgorgando dal profondo di una natura positiva e gioviale. Non mi ha meravigliato che nel suo necrologio sono riportate le parole di Henry Scott-Holland: “La morte non conta. E’ la vita che abbiamo vissuto insieme con affetto che rimane, intoccabile, immutabile. Qualunque cosa eravamo uno per l’altro, lo saremo ancora…Ridiamo come abbiamo sempre riso…Divertiti, sorridi, pensa a me. Lascia che il mio nome sia sempre quella parola famigliare che è stata. Parla di me senza l’ombra del rimpianto… perché dovresti dimenticarmi solo perché non mi vedi? Va tutto bene”. Parole straordinarie in un testamento. Di una persona colta, e affettuosa verso chiunque l’ha incontrata. E che ha voluto che la figlia Silvia riportasse le sue ceneri a Cortona, dove chiaramente ha molto sorriso e lasciato tanta simpatia. Di cui ho anche ricordi personali. Come quando una decina di anni fa, scomparso un grande amico comune, Vittorio Scarabicchi, mi arrivò una e-mail commossa di Aurelia da Boston. Allora scoprii la forza dei ricordi di quanti sono scomparsi, e la dolce-amara nostalgia di condividere certi sentimenti, che in quel momento avevo messo nero su bianco, da oscuro Pereira di provincia. (Personaggio di Antonio Tabucchi, nel romanzo Sostiene Pereira, era un giornalista incaricato di scrivere necrologi, che, si badi bene, non è il mio pane anche se ne frequento ogni tanto la materia). Tra i cortonesi più bazzicati da Aurelia per lavoro, con cui aveva intessuto legami intimi, era stato senz’altro Vittorio.
Originaria di Milano, bibliotecaria al Museo della Scienza, Aurelia emigrò giovane in USA per insegnare Letteratura Comparata, prima di intraprendere l’avventura transatlantica di far conoscere agli studenti di Athens una piccola ma significativa Città nel Vecchio Mondo. A proposito del suo insegnamento, Letteratura Comparata, volli chiederle se conosceva lo scrittore Jack Kerouac, come suo giovanile estimatore. La risposta fu negativa. Per quanto, invece, io pensai Aurelia molto vicina allo spirito di quell’artista avendo scelto Bob come ultimo compagno di vita. Allegro, elegante, sempre pronto alla gozzoviglia o alla partita a bocce, il tempo per lui non era più denaro ma attimi in cui godersi la vita. Anche se aveva limiti linguistici nell’apprendere l’italiano, era di comunicativa facile e immediata così come legava facile in comitive goduriose. Una sera di quelle in cui tutti avevamo dato dentro a bere forte, Bob uscì con un’espressione che più cortonese non si può: “Ragazzi, so’ mézzo!” Era giunto il momento di stoppare le bevute per tornare a casa in piedi!
Nell’elogio funebre, Silvia (avvocato e dirigente aziendale nel ramo delle Risorse Umane, quelli che “tagliano le teste”, funzione che, però, Silvia ha detto sorridendo lascia svolgere ad altri) ha scritto: “Una fantastica mamma, nonna, zia, sorella e amica, mia madre, Aurelia, ha dato alla nostra famiglia una vita di amore, di serenità, di conoscenza ed esperienze”. Ed ha aggiunto: “La vita di mia madre è passata attraverso momenti di felicità e di difficoltà, di successi e di delusioni, ma lei si è sempre dimostrata una persona amorevole, forte e determinata”. Penso che tra le sue “delusioni” sia ascrivibile quella di essere stata protagonista alla pari del Prof. Keoe “Direttore”, ma di aver ricevuto minori riconoscimenti, in quanto “Vice-direttore”, per quel che oggi è il risultato anche del suo lavoro: la fondazione del campus universitario permanente della Università della Georgia, nei locali della ex Casa di Riposo Camilla Sernini e nell’ex istituto scolastico di Via delle Santucce, già Fondazione Cinaglia. E’ il destino dei numeri due, dove solo al numero uno vanno tutti i meriti. Tuttavia, non è retorica, resta di Aurelia la straordinaria stima in chi l’ha conosciuta anche per gli esiti pregevoli duraturi del suo lavoro a Cortona.
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Lo spassoso “Eptamerone Chianaiolo” di Claudio Santori, alta “cucina” letteraria in vernacolo

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Fab_024Di Claudio Santori, per poco tempo avuto come supplente al liceo, incantavano le  competenze trasmesse al limite del gioco, del divertimento letterario. Padrone di infinite fonti, sollecitava l’interesse anche su autori negletti, purché avessero qualcosa da dire a giovani studenti del ventesimo secolo. Ragionamenti colti ma non pedanti. Divulgatore appassionato, coinvolgeva nel piacere delle sue scoperte, sempre col sorriso, condividendo quel “cibo” prezioso attinto nelle migliori espressioni culturali latine e greche. Fonti e fondamento di un sapere universale, nei più disparati approcci filosofici, artistici e letterari . Questo era, nella mia esperienza, Claudio Santori.

Fino a questi giorni di Feste. Quando ho ricevuto, insieme agli Auguri, il suo “Eptamerone Chianaiolo”, Calosci-Cortona, del 2002, (a cui in seguito ha aggiunto, in tema di sapere classico: “Le notti aretine, i miei poeti”). L’eccellente critico “degustatore” della cultura greca – che avevo apprezzato – mi si è ripresentato in veste di “cuciniere” raffinato: avendo rielaborato antiche “ricette” greche, i Mimiambi di Eroda di Cos, in portentosi piatti vernacolari – conservandone la freschezza e sapidità originarie di ventitre secoli fa – tramutati in dialoghi ruspanti, attualizzati, e messi in bocca a popolani residenti tra  Rezzo e  la Chjèna.

L’“Eptamerone” di Santori, per quanto sia una raccolta di storie più ridotta, regge il paragone con l’insuperabile “Decameron” di Boccaccio (di cui, nel titolo, fa il verso) per la spassosità degli intrighi. Per di più, nel ricco apparato di note e commenti, svela i segreti della sua “cucina”: del felice transfert, di fatti e personaggi, da un mondo lontano nel tempo e nello spazio, dalle contrade greche alle nostre  piazze, chiese, luoghi di vita ordinaria. Dialoghi tradotti nella lingua che, fino a pochi decenni fa, era usuale nelle nostre campagne. La brevità dei testi e l’incisività dei dialoghi di Eroda da Cos, nel rappresentare scenette popolari maliziose, hanno consentito a Santori la ricostruzione di personaggi somiglianti, fruibili e sorprendenti, trasportati in tempi odierni, a riprova della continuità tra passato e presente. Le cose che facevano ridere secoli fa, mantengono ancor oggi la stessa vis comica e suscitano riflessioni analoghe al passato.

I sette “bozzetti rustici” rielaborati da Santori, dai contenuti chiari già nei titoli: La Ruffièna, El Magnaccia, El Maestro de scola, Le Donne che vano a la capella de la Madunnina del Conforto, La Gelosa, El Pispelone, El Calzolèo, hanno quel sapore ineguagliabile – attenendoci alla metafora culinaria – dei pranzi ammanniti durante le battiture nelle aie, come, ad esempio, i sedanini al sugo d’oca e l’oca al forno. Piatti realizzati con alimenti non pregiati ma dal sapore di un pranzo regale, sprigionando sensazioni piacevoli e durature, come quelle scaturite dalla lettura del libro di Santori, che ha osato, con successo, rinverdire in Chjèna antiche tresche greche.

Prendiamo, ad esempio, il mimiambo di Eroda “Le amiche intime” o “Le donne a colloquio segreto”, tradotto da Santori nel dialogo “El Pispelone”. Il cui titolo è già più esplicito, alludendo all’oggetto della discussione tra due amiche: dove hai acquistato quel baubone scarlatto? ovvero, … quel giocattolo in pelle per donne a forma di pispelone, cucito da un bravo calzolaio? Superfluo ricordare come tale oggetto, in tempi recenti, abbia sviluppato una vera e propria industria di Toys multicolori, multi materiali, e, diciamolo pure, dagli usi, sessualmente, promiscui!

In antico solleticato da Eroda,  è chiaro il divertimento del lettore fatto assistere a intriganti confessioni segrete. Santori non si limita – come dicevo – alla traduzione letterale. Innanzitutto, prepara  il lettore con dotte dissertazioni su certi usi e costumi in antico, illuminandoci anche sul lessico usato da Eroda, e da altri contemporanei, nel definire i pispeloni artificiali in questa o quella plaga greca. Divertimento che si aggiunge  alla trama, in cui entra in gioco la bravura  del calzolèo Annibele (le cui cuciture non paiono stringhe di cuoio ma di cotone) e la sua subdola politica commerciale che, senza farsi troppa pubblicità, indirettamente, tramite le clienti (la Filicina e la Miglia), aveva creato incontenibili aspettative di impossessarsi almeno di uno dei suoi portentosi bauboni scarlatti, o pispeloni che dir si voglia.

Il gioco e l’ironia stanno al fondo anche degli altri dialoghi curati da Claudio Santori. Nel modo puntuale, sardonico, colto, che ho descritto grosso modo per El Pispelone, soccorrendo il lettore più sprovveduto e ignaro del dialetto con un glossario finale. Non resta al lettore che accostarsi all’Eptamerone Chianaiolo di Santori nello spirito poetico di Lorenzo il Magnifico: “Chi vuol esser lieto sia: di doman non c’è certezza”, perché, tra le qualità migliori del Prof.,  insegnate, dirigente scolastico, scrittore, conferenziere, musicista, (per il quale è affatto appropriato definirlo culturalmente “impegnato”), c’è sempre la generosità nel coinvolgere gli altri nella sua gioia di vivere, che trae linfa dalla cultura come essenza vitale.

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L’agricoltura aretina nel secondo dopoguerra

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L’agricoltura Aretina dal dopoguerra agli anni Sessanta

La superficie agraria. (Dati Somea 1970).  Nel ‘62, l’agricoltura contribuisce al 13,8%  del reddito netto provinciale e allo 0,56% del nazionale. Morfologicamente il territorio è classificato: 40% montano e 60% collinare, senza pianura (in seguito l’ISTAT, modificando canoni, prevederà anche superfici pianeggianti). L’utilizzo varia in altitudine. In  montagna, il bosco occupa il 55% della superficie agroforestale, il seminativo il 39% , e il pascolo il 6%. In aree collinari, bosco al 20%, e al 16% in vallate. L’ISTAT ripartiva la provincia in cinque zone montane (Alta Valdichiana, Val Tiberina Superiore, Alto Valdarno Aretino, Chianti Aretino) in  spopolamento: per suoli poco produttivi, gravi carenze infrastrutturali, distanze dai centri abitati, scarsità di alternative economiche. L’agricoltura montana aveva piccole zone a coltura promiscua di vite, olivo e seminativo arborato. Nei territori collinari di origini alluvionali (Piano-colle del Valdarno Aretino, Piano-colle della Valdichiana, Bassa Valtiberina Aretina) presenti  seminativi nudi e arborati in basso, arborati nelle parti elevate. Struttura delle aziende agricole. Somea, per capire le tendenze compara dati censuari (del ’61, primo censimento agricolo nella storia italiana) a campioni (del ’67) rilevati in aziende sopra 20 ha., da cui emerge l’incremento delle superfici medie aziendali. Nel ’61, in Toscana, prevale la conduzione diretta: 136.689 aziende con superficie media di 4,38 ha.; i coltivatori diretti aretini sono 13.412, con superficie media di 5,59 ha.; nel ‘67, tali aziende salgono, poco, a 13.453 unità, mentre la superficie media sale a 6,39 ha. e la loro percentuale passa dal 46% al 53%, a fronte di un calo provinciale di aziende (-14,9%). Indicativo il dato sulle aziende mezzadrili: 12.150 nel ‘61, 8.117 nel ‘67, (-33%); dato evolutivo fin quasi alla dissoluzione mezzadrile, in seguito al divieto del ’65 a stipulare nuovi patti. La conduzione diretta a fattoria o di tipo capitalistico, con salariati e/o compartecipanti, occupava gran parte del territorio (111.667 ha.) pari al 39,1% della superficie agraria; la cui superficie media aziendale sale a 33,86 ha., nel ’67.  Altre conduzioni hanno scarso rilievo. Nell’Aretino prevalgono, nel ‘61, aziende inferiori a 10 ha. (22.184 su 29.158), con superfici frammentate in più corpi. Solo 10.979 aziende su 29.158, il 37,6%, erano d’un solo corpo, più frequenti in montagna e in Valdichiana. Strutture aziendali e natura dei terreni, ostacolando meccanizzazione e incrementi produttivi, davano esiti negativi sui redditi per addetto. Il patrimonio zootecnico. Nella stima del livello tecnico agricolo è determinante la consistenza zootecnica: molto variabile. Al decremento dei bovini, per la polverizzazione aziendale e  la loro sostituzione  con forza meccanica, dal ‘66 segue l’incremento della Chianina, razza selezionata dagli anni Trenta (Kovacevich 2004). I suini, in montagna e in valle, aumentano in stalle intensive col favore di mercati stabili e redditizi. Gli ovini, dal ‘51 al ‘61, dimezzano, tornando a crescere nel ‘66 con l’immigrazione di pastori sardi. Il calo ovino è legato all’esodo montano, specie in Valdichiana e Casentino, dove costituiva risorsa rilevante. Per gli equini, aumentano i capi da macello. Nonostante andamenti diversi e discontinui nelle zootecnie, il loro contributo al prodotto agricolo oscilla tra il 46,5%, nel ’61, e il 50%, nel ’67, sul totale della produzione agro-zoo-forestale. I lattoni – ceduti vivi –  non figurano tra la carne macellata. Dal ‘61 al ‘68, il latte bovino incrementa da 80.027 litri a 117.200; il latte ovino scende da 37.041 a 26.250 litri. La produzione agricola. Le coltivazioni si svolgono da 150 a 900 metri s. l. m., con varie produzioni. Salendo, traviamo vite, olivo, castagno e pascoli. Più in alto, pinete e abetaie. Fruttiferi poco diffusi (2% della superficie agraria), nonostante favorevoli condizioni ambientali; stesse considerazioni valgono per colture industriali, foraggere e ortaggi. La vite, presente in meno dell’1% della superficie agraria, raggiunge buoni livelli quali-quantitativi, superando il 28% della produzione vendibile agricola, nel ’67; positivo anche l’olivo, che incide sulla produzione vendibile per l’8%. Produzioni collinari, solo in parte meccanizzate e specializzate. Cereali stazionari, salvo grano e avena dai discreti incrementi, anche se il loro peso complessivo sul valore della produzione vendibile è calato. Somea, infine, suggerisce alcuni obiettivi ai committenti lo studio (Provincia e Camera di Commercio): L’allargamento delle piccole aziende in unità di maggiori dimensioni; L’accorpamento di aziende suddivise in appezzamenti distanti tra loro; Sviluppi nella cooperazione, assistenza tecnica, e credito agrario; Favorire le industrie di trasformazione dei prodotti agricoli; Razionalizzare il commercio dei prodotti. Tutto ciò in linea con i programmi unitari agricoli europei e nazionali.

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La modernizzazione dell’agricoltura Aretina (1950-‘80)

La svolta nelle campagne, dal  Piano Verde I e II . (Fabiani 2015, pp.179 e segg.) Nel  trentennio post-bellico, tra i più convulsi nelle campagne Aretine, incrociarono fenomeni eclatanti: l’esodo massiccio; aspri conflitti tra proprietari e mezzadri e una lunga crisi mezzadrile (Fabilli 1992); e l’avvio dell’integrazione agricola con il mercato economico europeo. Anche l’Aretino entrò nella “modernizzazione”, o “pacifica rivoluzione agricola”, cosiddetta da Alessandro Susini, Ispettore Provinciale dell’Agricoltura, stilando bilanci: Un decennio di realizzazioni per il rinnovamento dell’Agricoltura Aretina (dal ’61 al ’71); è il primo resoconto sul passaggio dell’agricoltura aretina dall’autarchia – eredità fascista (Fabiani 2015, pp. 131 e segg.) -,  al mercato globale, sotto un’imponente spinta finanziaria, col ruolo centrale nell’Ispettorato Agrario. Grazie a leggi straordinarie, la 454/1961, la 910/1966 (Piano Verde I e II) e norme collegate, in un decennio la produttività agricola aretina raddoppiò, a unità lavorative dimezzate, e iniziò a ridursi il gap con le più avanzate economie europee: crebbero i coltivatori diretti e le superfici poderali. Investimenti a fondo perduto e in conto capitale nei miglioramenti fondiari. Susini elenca gli investimenti nei miglioramenti fondiari, partendo dalle condizioni disastrose delle case (fatiscenti,  prive di elettricità, acqua e gabinetto); dalla quasi assente meccanizzazione; dall’uso irrisorio di antiparassitari e concimi chimici; da carenze di strade vicinali e poderali, di elettrificazioni, e di acquedotti; dai bassi  redditi nel settore. Essenziale era creare nuovi imprenditori agricoli, coltivatori diretti, sostenuti in ogni fase: dagli assetti aziendali, fino ai risvolti professionali nella produzione, gestione aziendale e tenuta dei conti.  Impianti zootecnici nuovi, nel periodo 1961-’71, ammessi a contributo: Stalle a stabulazione fissa e libera per 3.326 capi; Ovili e porcili per 5.288 capi; Silos e fienili per 74.464 mc.; Annessi rustici per 56.333 mq.; Spesa ammessa L. 1.549.846.000, contributi erogati L. 766.903.000. Per riattamento, ampliamento, razionalizzazione ricoveri animali: Impianti a stabulazione fissa e libera per 4.452 capi; Ovili e porcili per 1.068 capi; Silos e fienili per 8.082 mc.; Annessi rustici per 27.194 mq.; Spesa ammessa L. 1.262.850.000, concesse L. 627.425.000. Per provviste d’acqua potabile: Mediante allacciamenti 117; Da pozzi e cisterne 130; Spesa a contributo L. 64.287.000, concesse L. 32.096.000.  Irrigazione,  in alcune colture come tabacco e mais, fondamentale nell’incremento della produzione. Sfruttate tutte le fonti di rifornimento idrico reperibili in loco, c’era attesa per la diga di Montedoglio che seguirà un iter molto lungo dalla progettazione alla esecuzione, ad oggi, non del tutto concluso. Fino al ‘72, finanziamenti erogati per 64 impianti di aspersione e scorrimento, irrigati ha. 270; progetti ammessi a contributo L. 59.441.000, concesse L. 29.694.000. Opere infrastrutturali: acquedotti rurali e strade interpoderali,  prevedevano la misura del 50% di contributo, elevata al 60% e all’85%.  L’orografia aretina esigeva alti costi a intervento. Acquedotti rurali 32, abitanti servite 1.055; Elettrodotti  rurali 70 per1.409 abitanti; Strade vicinali e interpoderali nuove e riattate  84 per  Km. 86; Spesa a contributo L. 481.881.000,  concesse L. 346.803.000. La casa rurale. Argomento vitale e controverso, nell’applicare la legge si creavano discussioni tra tecnici e utenti. Delle circa 30.000 abitazioni rurali in provincia le più erano di vecchia costruzione, e motivo d’esodo; le case malsane ponevano il dilemma se suggerire restauri o, dati i costi eccessivi, nuove costruzioni. Finanziate, nel decennio, 329 nuove  case per  1.709 vani; ampliate e ristrutturate 1.155 per 4.530 vani; Ammesse a contributo per L. 2.511.410.000, concesse L. 1.250.704.000. Ristrutturazione arborea. Prevalendo le colture promiscue della vite, su 65.000 ettari, l’apice produttivo era avvenuto dopo la prima guerra mondiale, con punte annue di un milione di quintali di vino, ma era andato scadendo per vetustà e obsolescenza degli impianti. Con l’unico seguito di reimpianti,  su 300 ettari di promiscuo, grazie ai finanziamenti ( D.L.P. 31/1946) a favore della manodopera disoccupata. Dal ‘60, si era scesi a produrre 400.000 quintali annui di vino. “All’invecchiamento degli impianti arborei contribuirono lavorazioni profonde, carenze di manodopera e crisi mezzadrile, che ridussero le lavorazioni manuali delle ‘prode’ e resero meno tempestivi i trattamenti antiparassitari, la gelata del 1956, ecc.. La crisi del vitato promiscuo si rese evidente col diradamento dei testucchi o aceri, che facevano d’appoggio a 3-4 viti come da tradizione; nella maggior parte dei casi le viti si erano ridotte a 1-2 per albero marito e molto spesso esso risultava ormai vedovo!” Dal ’50, si era proceduto allo sradicamento di alberature. Prima, nelle aziende in cui ai mezzadri erano subentrati i salariati.  In seguito, il fenomeno si estese ai poderi a conduzione diretta, grazie ai contributi del Piano Verde I, del ‘62, con incentivi alla meccanizzazione e all’impianto di vigneti specializzati. Variazioni che determinano incrementi produttivi di vino ed erbacee, con la modifica del tradizionale paesaggio agrario: da campi poco estesi circondati da alberature promiscue, a larghi spicchi brulli di suolo coltivabile, affiancati a vigne  e frutteti intensivi.  La viticoltura si poneva nuovi obiettivi, delimitando la zona DOC Chianti (D.P.R. 930/1963) e in attesa della DOC Bianco Vergine della Valdichiana. Dati gli incentivi, a margine delle aree DOC sorsero tre cantine sociali (S. Giovanni Valdarno, Arezzo, Cortona) a favore dei cicli produttivi e del commercio vinicolo. Evoluzioni successive, verso produzioni qualitative, determinarono la scomparsa di parte degli stabilimenti enologici cooperativi,  essendo ridotta  la domanda di vino da pasto a favore di vini di più alta gamma. Gli impianti olivicoli seguirono evoluzioni simili a quelli enologici, su estensioni minori. Vigneti. Superficie nuovi impianti 1.195 ha. (1962-’71); Spesa impianti L. 1.135.830.000, contributi L. 470.525.000. Frutteti. Nuovi impianti 35 ha., spesa L. 25.222.000, contributi L. 9.757.000. Oliveti. Nuovi impianti 87 ha., spesa L. 22.240.000, contributi L. 9.844.000; Impianti esistenti, riordinati e infittiti in 638 ha., spesa L. 62.508.000, contributi  L. 22.416.000. Azione del credito agevolato nei miglioramenti fondiari. Il Piano Verde I e II prevedevano massicci crediti a lungo termine (30 anni) e a tasso agevolato (2-3%) per migliorie nei fondi rurali. (Su100 lire mutuate il coltivatore pagava annualmente meno di 5 lire, comprensive della restituzione di capitale e interessi). Così invitanti che, nel  decennio, l’Ispettorato Agrario ricevette 2.500 richieste. Fabbricati rurali di nuova costruzione. Nuove abitazioni, vani 219; Stalle a stabulazione fissa, capi 1.570; Porcili e ovili, capi 3.278; Silos e fienili, capi 101.291; Annessi rustici Mq. 32.948; Ammesse a mutuo L. 1.242.149.000. Fabbricati rurali riattati e ampliati.  Case riattate e ampliate, vani 2.411; Stalle a stabulazione fissa, capi 3.985; Porcili e ovili, capi 947; Silos e fienili Mc.7.700; Annessi rustici Mq. 31.698; Ammesse a mutuo L. 1.258.381.000. Provviste acqua potabile. Pozzi e cisterne 20; Allacciamenti 15; Ammesse a mutuo L. 9.281.000. Impianti irrigui: Per aspersione e scorrimento su 48 ha; Ammesse a mutuo L. 19.819.000. Acquedotti, elettrodotti, strade: Acquedotti rurali 6; Elettrodotti 5; Strade di nuova costruzione 15, riattate 3; Ammesse a mutuo L. 40.979.000. Miglioramenti vari, non compresi nelle voci, L. 262.180.000. Complessivamente nel periodo ‘62-‘71 (Piano Verde I e II), per miglioramenti vari, è stata ammessa a muto la somma complessiva di L. 2.837.493.000. Proprietà contadina, tema cruciale per superare il  conflitto tra mezzadri e proprietari sui patti agrari: chi ne voleva l’abolizione, chi l’espropriazione delle terre a favore dei contadini,  fino a concludersi nella proibizione della stipula di nuovi patti. Nel frattempo, la D C – forza di governo, erede del Partito Popolare –  adottò una strategia politica, istituzionale, e sindacale, tesa a occupare i maggiori spazi afferenti il mondo agricolo (Federconsorzi, Enti di Bonifica, Banche rurali, cooperative, ecc.),  egemonizzando l’attività sindacale con la Coldiretti, impegnata a incrementare la proprietà contadina e le dimensioni poderali (Consonni, Della Peruta, Ghisio, 1980).  Incentivi fiscali. Il primo (D.L. 114/1948) prevedeva una tassa fissa di registro sugli atti di trapasso di proprietà, e tassa fissa ipotecaria sugli acquisti di aziende coltivate direttamente, o nelle acquisizione di terreni da accorpare in azienda preesistente. In provincia di Arezzo furono concessi 7.127 pareri favorevoli ad agevolazioni fiscali, riferiti a 33.782 ha., acquistati da coltivatori diretti e mezzadri. La superficie agronomica interessata a transazioni proprietarie, equivalente a oltre un decimo di quella provinciale, proveniva: 3.121 ha. da aziende in estinzione; 18.136 ha. da  piccole aziende abbandonate dai mezzadri e proprietà di non addetti agricoli; 8.520 ha. da medie aziende; 901 ha. da grandi aziende; 1.193 ha. da enti pubblici. Per altre agevolazioni, come l’esenzione dalla tassa di successione, l’Ispettorato rilasciò un migliaio di certificati per ha. 5.000. Ridotta pure la tassa di registro nei contratti di acquisto terreni per i quali i conduttori si impegnavano a effettuare migliorie nel triennio dalla stipula del contratto (L. 1271/1964). Le richieste per migliorie fondiarie per 20.011 ha. furono autorizzate per 16.969 ha., pari a L. 1.212.312.000. Credito agevolato a lungo termine. Concessioni  stabilite con provvedimenti in sequenza, ad agevolazioni crescenti, per l’acquisto di proprietà e/o accorpamenti di porzioni. La L. 454/1961  prevedeva mutui trentennali al tasso del 2%. Nell’Aretino furono contratti 358 mutui per L. 772.405.000, con concorso statale negli interessi di L. 38.500.000. In seguito (L. 590/1965), si elevava l’ammortamento a quaranta anni abbassando il tasso all’1%; fu un successo eccezionale. Dall’applicazione della legge a metà ‘71, furono concessi 353 mutui per l’importo di L. 2.379.890.000 su 5.540 ha.  di terreni corredati di fabbricati e attrezzature dal valore venale di L. 2.788.210.000. Significativa la gamma degli acquirenti: 21 affittuari coltivatori diretti, 221 mezzadri, 11 salariati, 12 altri coltivatori. Il mezzadro era a una svolta: colui che intendeva farsi imprenditore agricolo ne aveva l’opportunità. Mantenendo il tasso all’1%, si ridusse a trent’anni l’ammortamento del mutuo,  in virtù della L. 817/1971; dall’agosto del ‘71 a metà ’72 furono emessi 27 nulla osta per L.249 milioni di mutui per l’acquisto di 453 ha. La massa monetaria di credito agevolato spinse in alto il valore dei terreni. Interventi contributivi. La L. 53/1956, integrata dal Piano Verde I, contribuiva, in conto capitale, all’acquisto di fondi destinati a nuove aziende e di arrotondare le esistenti nella misura massima del 10%. Nell’aretino, operante la legge, furono concesse 910 liquidazioni per L. 17.887.900 di contributo su 230.560.000 spesi. Meccanizzazione agricola. Dal ‘62 al ’71, le macchine agricole favorirono incrementi produttivi mai visti prima. Prestiti a breve termine. Quinquennali al tasso del 2%,  dal Piano Verde I, ammontarono a lire 3.200.000.000. Mentre, dal Piano Verde II, i prestiti agevolati al 2% ammontarono a L. 8.848.000.000, raggiungendo L. 12.480.000.000 per l’acquisto macchine agricole. Contributi in conto capitale. Date le ridotte capacità finanziarie dei coltivatori diretti, furono concessi contributi in conto capitale nella misura media del 25% dell’importo delle macchine acquistate, fino a un milione a macchina. Per effetto della L.454/1961 furono erogati L. 458 milioni di contributi, a cui si aggiunsero altri 75 milioni della L. 910/1966. Consistenza del parco macchine provinciale. Nel decennio, furono acquistate macchine motrici e operatrici per  L.12.621.000.000. Trattori: 1.431 nel ’61, e 4.758 nel ‘70, aumentati oltre il 300%; gli HP dei trattori nel ‘61 erano 51.250, 197.788 nel ’70, cresciuti del 385%, con propensione su trattori di maggiore potenza. Motocoltivatori: 89 nel ’61, 574 nel ‘70, più del 644%; HP erogati: 381 nel ’61, 6.280 nel ‘70,  più 600%, anche qui si puntava su macchine potenti. Motofalciatrici: 231 nel ‘61 e 1.991 nel ’70, un incremento dell’860%; HP erogati, nel ’61, 1.593, nel ’70, 19.714, più del 1.200%. Mietitrebbiatrici: 5 nel ’61, e 113 nel ’70, più 22 volte. Consumo carburante, utile a giudicare l’andamento dei consumi agevolati:  nel ’61, consumati q. li 3.941 di petrolio agricolo, e q. li 35.029 di gasolio, nessun consumo di benzina agevolata. Nel ’71,  petrolio consumato q. li 4.10, gasolio q. li 83.236, benzina agricola q. li 583; l’aumento del gasolio oltre il 100% indicava l’orientamento verso motori diesel.  Ditte iscritte all’U.M.A. (Utenti Motori Agricoli): 2.436 nel ’61, 5.522 nel ’70, più che raddoppiate. Zootecnia. La  riorganizzazione degli allevamenti bovini, suini e ovini, era orientata anch’essa a raggiungere standard europei,  pur nel quadro  provinciale di crisi produttiva, per l’esodo mezzadrile e per costi non rimunerativi del lavoro, specie sui bovini. L’Associazione Provinciale Allevatori Aretini (APAA) si affiancò all’Ispettorato Agrario per migliorare razze, e promuoverne il commercio con gare a premi, fiere, mercati. Il Piano Verde I e II, entro il ‘71, avevano consentito  erogazioni in conto capitale – in misura variabile tra il 25 e il 50% – per L. 476.515.000, somme destinate all’acquisto di: Chianine selezionate 71; bovine da latte (in parte d’importazione svizzera) 76; scrofe selezionate 597; verri selezionati 129; tori Chianini selezionati 74; tori selezionati da latte 9; pecore selezionate 1.969; arieti selezionati 23;  animali di bassa corte 1.000. Oltre a contributi per prove diagnostiche (tubercolina) su 17.000 bovini (secondo un piano straordinario che di fatto debellò la tubercolosi dalle stalle); per manifestazioni zootecniche;  per  guardie giurate e  controllori zootecnici dell’ APAA.  Ai contributi era affiancato il credito agevolato, che aveva consentito vari interventi. Mutui a lungo termine. Stalle  bovine nuove e riattate per capi 828; Porcili nuovi e riattati per capi 15.999; Ovili nuovi per capi 846; Pollai nuovi per capi 11.110; Sili e fienili nuovi e ampliati Mc. 604; Annessi rustici nuovi e riattati Mq. 36.811. Prestiti a breve termine (1-4 anni) a tasso agevolato (2%), fondi di rotazione sufficienti a soddisfare tutte le richieste degli agricoltori, per acquisto bestiame a incremento degli allevamenti. Piano Verde I e II e leggi collegate e L. 777/1957, consentirono nel periodo ‘57-‘71 l’erogazione di crediti per L. 2.575.511.360, per l’acquisto di 11.930 Bovini da allevamento e ingrasso; Ovini e caprini 3.219; Suini 469; Equini 6; Animali di bassa corte  4.000; Piccoli mezzi meccanici per la zootecnia, 175. Assistenza tecnica e divulgazione,per la formazione permanente degli operatori agricoli – transitandoli da competenze tradizionali alle nuove – impegnati con macchine, mezzi tecnici, piante e animali di cui conoscerne le funzioni biologiche essenziali: nutrizione, riproduzione, salute. Spese formative (1962-’71) L.109.725.000. Corsi presso il Centro di Addestramento Villa Godiola di un mese; lezioni teorico-pratiche a tempo pieno. Agli allievi, vitto, alloggio, libri, e insegnamenti gratuiti, 20 partecipanti a corso. L’allievo licenziato era specializzato: potatore di viti e olivi e meccanico agrario; 15 i corsi svolti per 300 allievi. (Susini notava: “purtroppo molti giovani addestrati abbandonano l’attività agricola” evento grave  per colture specializzate in crescita: vigne, oliveti, frutteti). Corsi di istruzione maschile. Lezioni di 7-10 giorni, di sera,  istruzioni pratiche su colture nuove e conduzioni agronomiche più redditizie; nel decennio, 96 corsi e 2.496 allievi. Corsi di istruzione femminili. Per trattenere le famiglie in agricoltura, l’“Economia domestica rurale” era finalizzata  al guadagno da orti e pollai gestiti con tecniche innovative; a cui erano aggiunte nozioni di puericultura, tenuta della casa, arte culinaria, conservazione di prodotti orticoli, ecc.. Tra gli effetti positivi dei corsi sull’economia aretina, per Susini, era stata la crescita della coniglicoltura, a soddisfare maggiori richieste alimentari, e pelli ai cappellifici. Tenuti 201 corsi a 4.824 allieve. Campi dimostrativi a colture erbacee, presso agricoltori disponibili, eseguite 200 dimostrazioni con colture erbacee di durata variabile da uno a tre anni, secondo tipologie di piante a ciclo annuale (cereali, colture industriali, erbai annuali, ecc.), e a ciclo pluriennale  (erbai poliennali, prati da vicenda, pascoli, prati-pascoli, ecc.), impegnando 100 ha. di terreno. Campi dimostrativi a colture arboree, di durata più lunga (3-6 anni), su superfici medie di mq. 5.000. Campi sperimentali 40, di cui 25 a vigneto, 10 a oliveto, 5 a frutteto. Attività pratiche con operai specializzati, rivolte a istruire potatori di viti, olivi, e fruttiferi; 240 giornate dimostrative. Visite domiciliari, curate dall’assistente di Economia domestica rurale, a casa delle allieve; totale: 404 visite. Concorsi e iniziative varie, per indurre produzioni agricole in forma competitiva interaziendale. Concorsi banditi: Per orti familiari (130 partecipanti); Per coniglicoltura (330 partecipanti); Per uso attrezzature avicunicole (110 partecipanti); Per  coltivazione rose (80 partecipanti); Per orto-floro-frutticoltura familiare (50 partecipanti); Per conservazione prodotti orticoli (50 partecipanti); Per  sistemazione adiacenze delle case coloniche. L’agricoltura aretina, applicando il Piano Verde I e II, si accodava agli standard europei. A partire dalla costruzione e riattamento di case rurali per 1.836 famiglie, tra il ‘62 e il ’71; interventi riparatori di ingiustizie ataviche e l’avvio drastico della riduzione di unità lavorative, stabilizzate negli anni Ottanta  a percentuali a una cifra, da circa il 70% di occupati agricoli nel secondo dopoguerra.

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L’agricoltura aretina negli anni Novanta

L’Europa e la modernizzazione dell’agricoltura. Dal ’67, la politica agraria europea è basata su tre principi: unità del mercato, preferenza comunitaria, solidarietà finanziaria. Nasce il Feoga (Fondo europeo di orientamento strutturale e garanzia prezzi) in aggiunta ai fondi dei due Piano Verde, a cui seguirà la legge Quadrifoglio. In sostanza, nel tempo, saranno perseguiti gli stessi obiettivi salvo variare l’intensità dei flussi su questo o quella categoria di incentivi,  annuali e periodici, a favore di proprietà,  colture, impianti, … fino al raggiungimento degli obiettivi prefissati, entro la capienza degli stanziamenti. Favoriti il riposo dei terreni per il controllo di produzioni e prezzi, i rinnovi di impianti fruttiferi,…. In definitiva, i fondi europei e nazionali hanno reso competitivo anche il sistema agricolo italiano sul mercato mondiale attraverso le Pac, strumento di modernizzazione dell’agricoltura europea (Fabiani 2015, pp. 258 e segg.). Alla fase quantitativa – l’Europa attestata tra le più forti economie agricole – furono affiancati indirizzi verso la qualità: dei prodotti, dell’ambiente, dell’agricoltura sposata al turismo. L’Aretino, in fase di modernizzazione, ha seguito indirizzi regionali, nazionali ed europei. Con la Regione a far da tramite, nel tradurre indirizzi comunitari in politiche attive. Esposta anche a fallimenti, come nel caso  del frigo-macello di Chiusi. Stabilito prioritario lo sviluppo agro zootecnico (anni Settanta), si  dotò il sistema d’un imponente mattatoio e stoccaggio carni, al fine di tutelare i prezzi. Costruiti 80.000 metri quadri di celle frigorifere, oggi ne è uscito il bando per la rottamazione. Sopravvissuti, invece, impianti intercomunali, dove, già alla macellazione dei capi, s’incontrano domanda e offerta,  risultando secondario lo stoccaggio carni. L’esempio svela le contraddizioni nella cooperazione agevolata agricola toscana e aretina, e il suo ruolo limitato nel tempo e per settori specifici. Essendo fallite numerose esperienze cooperative, sostenute dalla mano pubblica: stalle, frantoi, cantine, stufe per tabacco, molini, ecc. per cattiva conduzione e scarsa propensione degli agricoltori ad agire  in cooperativa; salvo esperienze positive, come sul commercio delle carni. Dai fallimenti, tuttavia, il sistema ha trovato strade nuove per affrontare il mercato.

Nuovi assetti  socio-economici nelle campagne aretine. Pietro Faralli, della Camera di Commercio, commentando il 5° Censimento dell’Agricoltura del 2000, confermava il legame tra settore primario e  territorio aretino: 22.890 aziende agricole, pari al 16% del totale regionale, registrano l’unico caso in Toscana di incremento rispetto al ‘90. Le 21.055 aziende a conduzione diretta con manodopera familiare, 888 con manodopera familiare prevalente, e 292 con manodopera extrafamiliare prevalente, fanno 22.232 coltivatori diretti, contro i 13.412 del ‘60. In totale, le aziende erano 29.158 nel ’60,  a esodo mezzadrile avanzato.  Il peso aretino resta rilevante in termini di superficie col 14,8% sul dato toscano, anche se, in questo caso, in confronto al ’90 presenta una flessione pronunciata (-11,2%) rispetto al dato regionale (-8,4%). Tende a diminuire l’utilizzo dei terreni, dai 137.827,37 ha. del ’70, agli 111.365,1 del 2000. Interessante il rapporto tra forme di conduzione e superfici in ha: nel ’60, i coltivatori diretti disponevano di 75.016,85 ha., a fronte dei 175.893,9 ha. nel 2000. Nel ’60 la superficie a conduzione con salariati era 111.687,09 ha. contro i 79.205,9 nel 2000, mentre la colonia parziaria (mezzadria), nel ’60, coltivava 112.658,20 ha. contro i 1.105,6 del 2000.  L’azienda tipo aretina misura 10 ettari e mezzo, poco meno della media toscana di 11,6 ha.; consistenza media vicino al raddoppio rispetto  al ’60. Le aziende aretine occupano il 74,4% della superficie totale disponibile, in regione ci si ferma al 71%. Pur non eccellendo per dimensione media, l’impresa aretina si caratterizza per struttura solida e diffusa. La microazienda al di sotto d’un ettaro rappresenta il 31,8% del totale contro il 45,4%  regionale, e alzando la soglia a 5 ha. si raggiunge in provincia al 70,6%, a fronte del 76,3% regionale. Il grosso della struttura produttiva locale si sviluppa pertanto nelle fasce dimensionali intermedie. Dato interessante, per l’Aretino, rivelando un buon potenziale alla ricerca di migliori risultati nella redditività aziendale, derivanti dal mix: di colture specialistiche (vino, olio, tabacco, ecc.), di agriturismo, di fattoria educativa, di zootecnia, …  E’ frequente che l’agricoltura sia una tra le attività familiari, come rimarchevole è la presenza di pensionati tornati ai campi dopo aver svolti altri lavori.

Prati e pascoli, in parallelo all’andamento critico degli allevamenti zootecnici, nel 2000 sono diminuiti dell’11,5% sul ’90; nel ’70 coprivano 24.616,79 ha., contro i 5.892,6 del 2000. Seminativi e colture legnose mostrano miglior andamento. Calo di aziende e superfici a cereali, il frumento tiene sul ‘90, con 18.799,4 ha., contro i 30.954,29 del ’70; essendo scemati gli incentivi Pac, allorché le aziende seguivano alle semine i flussi contributivi europei. Anche superfici a  foraggio sono in calo. All’interno delle legnose si assiste a fenomeni particolari: l’incremento dell’olivicoltura (11.470,9 ha. e 12.613  aziende nel 2000, contro i 9.871,74 ha. e le 5.057aziende del ’70), il decollo della frutticoltura (1.706 aziende e 2.973,1 ha. nel 2000, contro le 330 aziende del ’70 e i 509,30 ha.), e una viticoltura qualitativa dovuta a vini doc e docg (10.307 aziende per 7.040,7 ha. nel 2000). Il bosco flette, al calo delle superfici aziendali, e conferma il peso in provincia  – per morfologia del territorio collinare e montano – incidendo del 46,6%, a fronte del 40,2% regionale, (passando da 118.324,85 ha. di superficie boscata, nel ’70, a 112.184,5 ha. nel 2000). Zootecnia in crisi: nel numero di aziende (-20,3%), dai 1.158 allevatori nel ’90 ai 652 nel 2000; e nella consistenza dei capi bovini, dai 20.822 nel ’90 ai 16.289 nel 2000; nel ’60, i 54.255 bovini erano ancora rilevante forza lavoro.  Nel 2000, 12.232 aziende possiedono 17.108 trattori; nel ’70, 17.781 aziende possiedono 12.812 trattori; siamo così all’inversione dei numeri tra aziende e trattori. L’evoluzione irrigua copre 10.000 ha., a fronte d’una superficie irrigabile di17.000 ha. Date le lungaggini sulla distribuzione  delle acque di Montedoglio, i coltivatori hanno costruito invasi artificiali autonomi.  Contrazione – meno marcata del livello regionale – suinicola ed avicunicola. L’Aretino è leader regionale, mentre è seconda forza per  i capi bovini. I suini 78.282 nel 2000, 110.528 nel ’90; costanti nel tempo (salvo negli anni ’90), a partire dagli 82.870 del ’60. Rilevante il dato avicolo: 1.509.173 capi, nel ’90, e 1.043.925 nel 2000, primato aretino in Toscana. In flessione gli ovini. I pastori sardi risollevarono gli ovini negli anni Sessanta, mentre nelle ultime generazioni l’interesse sta calando; nel 2000, 34.371 capi, e 52.291 nel ’90; analoghi ai  52.270 del ’60. Nel 2000, impiegate oltre 2 milioni e 600 mila giornate lavorative; diminuite del 7,4% rispetto al ‘90. Le perdite si concentrano sulla manodopera extra-familiare e in quella familiare, mentre il lavoro dei conduttori registra un minimo incremento. La tenuta complessiva  è compatibile col calo dell’incidenza del settore primario sul prodotto locale lordo, e sottolinea il peso crescente di prestazioni lavorative espletate da soggetti non in condizioni professionali prevalenti di addetti agricoli. In definitiva, il 5° Censimento sottolinea il permanere delle radici agricole aretine, e l’avvio dello sviluppo di prodotti tipici, valore aggiunto territoriale, qualificandone ambizioni turistiche. L’agricoltura, si qualifica come riproduttrice di tipicità culturali e tradizionali locali, e insostituibile presidio a salvaguardia dell’integrità territoriale. Degna di nota la valorizzazione di esperienze derivanti da ampi strati della popolazione.

L’agricoltura aretina presidio nella tutela ambientale. Trasformazioni radicali  hanno inciso negativamente sulla salute ambientale, per cause chimiche e meccaniche, entrate in forza, a fine millennio, nelle aziende agricole di tutto il mondo, sulla falsariga statunitense,  da dove sono giunte gran parte delle novità, dopo la seconda guerra mondiale (Fabiani 2015, pp. 161 e segg.). L’impatto tecnologico –  sugli agricoltori incentivati da inusitate agevolazioni finanziarie – ha  travolto assetti ambientali in equilibrio. La meccanica ha consentito trasformazioni paesistiche dei fondovalle e anche di mezzacosta in ampie brulle quadrature. La chimica ha ridotto l’uso del letame e bottino –  concimi principali del passato, insieme al sovescio e all’alternanza di colture. La chimica ha  consentito l’abbattimento di erbe infestanti e l’incrementando produttivo per ettaro, ma ha inquinato  falde freatiche, ambienti, persone e animali, incidendo sulla loro salute. Agli esordi della chimica,  l’uso trascurato  di protezioni tra gli operatori e dosaggi inappropriati ebbero  conseguenze devastanti, persino mortali. Derivate da inquinamento chimico, sottovalutato e monitorato a fine anni Sessanta, furono riconosciute nuove malattie professionali in agricoltura, riduzioni di selvaggina, mortalità ingravescente negli agricoltori, polluzione idrica e alimentare. A cui si aggiunsero i liquami suini, versati in acque di falda e superficiali, degradando, pei fetori, la qualità della vita in prossimità degli allevamenti. Soluzioni al problema tardarono, anche a causa dei costi dei depuratori. Altro degrado era dovuto all’abbandono di migliaia di abitazioni rurali, comprese le eleganti fattorie leopoldine. Parte ridotte a rudere; parte recuperate dagli agricoltori per abitazioni e agriturismi; parte elette a prima casa da residenti non agricoltori; altre recuperate da turisti italiani e nord europei, ai quali va il merito di recuperi conservativi (anche a mo’ di risparmio) dell’edilizia rurale, a torto ritenuta di minor pregio di quella urbana, perciò facile oggetto di stravolgenti recuperi.  A fianco dei passi da gigante nelle migliorie – nella diffusione della proprietà terriera, nella riduzione della  fatica nel lavoro dei campi, nelle gestioni aziendali agevolate all’agricoltore fino all’e-commerce -, l’ambiente ha rischiato il baratro. Interverrà ancora l’Europa propositiva: con “risoluzioni”, “raccomandazioni”, “carte”, “convenzioni”, e incentivi economici, partendo dagli obiettivi del Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa (1961) dati a un comitato ad hoc, il Comitato Europeo per la salvaguardia della natura e delle risorse naturali (CDSN): “Favorire (…) la conservazione della natura e delle sue risorse, la tutela degli ambienti naturali, dei paesaggi, dei siti, in particolare di quelli che offrono particolari valori scientifici o che possiedono bellezze di eccezionale interesse, come pure la creazione di nuove riserve naturali, di parchi nazionale e euro internazionali”. Nell’intento di ripristinare o conservare habitat naturali. Anche nell’Aretino sono stati compiuti passi notevoli insieme agli agricoltori, agli inizi delle politiche ambientali quasi infastiditi se non contrari alla istituzione di aree a parco o riserva naturale, temendo eccessi vincolistici. Poi sono stati scoperti i vantaggi della tutela ambientale e delle buone pratiche agronomiche (come la lotta biologica integrata in funzione antiparassitaria). Imprese agricole importanti, di recente, in Valdichiana e Valtiberina stanno seguendo nuovi orientamenti nei modi di coltivare, piante medicinali (Aboca) o produzioni orticole, frutticole, leguminose di qualità  (Bonifiche Ferraresi), creando brand aziendali su produzioni  suggerite da ricerche genetiche avanzate, che consentono anche scarsi apporti chimici e  richiedono maggiore impiego di manodopera. Esperienze che si affiancano alle coltivazioni biologiche già adottate da numerose aziende. Altre aziende attuano il recupero energetico da biomasse, in alternativa ai combustibili fossili. L’agricoltura aretina, in definitiva, sta seguendo vecchie e nuove filiere produttive adeguandosi alle tendenze dei mercati, d’intesa con la ricerca scientifica e l’industria alimentare e turistica. Così come è cresciuto l’agriturismo, a partire  dagli anni Ottanta, dopo interventi normativi che hanno inquadrato meglio questa attività quale parte integrante del reddito agricolo, fornendo al turismo una elevata recettività quali – quantitativa, equivalente se non superiore al settore alberghiero anche nel numero dei posti letto.

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PROVINCIA AREZZO, PROVINCIA SIENA, COMUNITA’ MONTANA VALTIBERINA, REGIONE TOSCANA (Patrocinio), Atti del Convegno su irrigazione e riordino fondiario nel comprensorio irriguo di Montedoglio e nel quadro del Piano agro zootecnico della Valdichiana, Arezzo, 10 Marzo 1983, tipografia Giunta Regionale, 1984

REGIONE TOSCANA, GIUNTA REGIONALE, Linee programmatiche per lo sviluppo agricolo e forestale in Toscana, Firenze, Tipo-lito Nuova Grafica Fiorentina, 1977

REGIONE TOSCANA, GIUNTA REGIONALE, Programma regionale interventi in agricoltura 1982-1984 – Ulteriori indirizzi e direttive di attuazione delle LL. RR. 15/81 e 63/81, Ottobre 1981

URPT (Unione delle Province Toscane), Le condizioni per lo sviluppo dell’agricoltura toscana, Atti del Convegno, Firenze, Palazzo Riccardi  marzo 1967, Tipografia Amministrazione provinciale, Firenze

SUSINI, A., Un decennio di realizzazioni per il rinnovamento dell’Agricoltura Aretina, Arezzo, Tipografia Zelli & C., 1972

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La scomparsa di Enzo Rinaldini psicologo, edonista, animo poetico

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enzo psicologoA 85 anni, Enzo Rinaldini è deceduto nel comune di Tuoro sul Trasimeno dove si era trasferito da alcuni anni con la moglie Marta. Emigrati dal quartiere di via Roma verso una casa più agevole per l’età avanzata dei due coniugi, a Cortona, Enzo aveva mantenuto numerosi legami affettivi con amici e compagni di una lunga vita. Se gli amici non si facevano vivi, dopo un po’ era lui a cercarli.

Originario della piana cortonese, trascorse adolescenza e giovinezza tra s. Lorenzo e  Capezzine, dove frequentò l’Istituto agrario, prima studente e poi Censore, come  chiamavano i tutor scolastici.

La madre, severa ma tollerante, consentì al figlioletto unico di seguire una compagnia di girovaghi per una quindicina di giorni a spasso per l’Umbria. Affascinato dal loro vivere libero nomade, dentro un carro multicolore, nutriti di fantasie da saltimbanchi e circondati da animaletti esotici. Esperienza indimenticabile che aprì ad Enzo una finestra speciale su certi valori della vita.

La mamma, maestra esigente sui risultati degli studi, forse, con quel legame incombente, fu tra le cause che misero Enzo alla frusta fecendolo soffrire al punto da balbuziare. Handicap che, nella maturità, affrontò transitando da studi agrari a quelli  psicologici; un percorso culturale per giungere alle radici dell’imbarazzante disturbo.

A Firenze, negli anni Settanta, alle Cascine frequentò la prestigiosa Facoltà di Agraria – il cui livello di ricerca sulla comunicazione tra le piante ha raggiunto fama internazionale -, poi dirottò a Psicologia, coltivata per il resto della vita, divenendo stimato terapeuta in soccorso a menti disorientate dai mutamenti radicali intervenuti nella società contemporanea. A Venezia, seguì Salomon Resnik suo “supervisore” di scuola Freudiana.

Residente a Coverciano, condivise incontri amichevoli con giovani cortonesi impegnati a Firenze in studi universitari, trasmettendo loro il piacere di aver conosciuto un uomo affettuoso, colto e gentile, dal pensiero profondo quanto poco versato in cose pratiche. Massimo Castellani ricorda la volta in cui Enzo lo chiamò per farsi rimettere in sesto la libreria, di quelle che si auto compongono: aveva installato la base al vertice e viceversa, col conseguente crollo dell’intero impianto. Lo stesso ricorda la gita di Enzo col babbo in Costa  Azzurra: avendo i due lasciato la valigia semiaperta sul tettuccio della macchina, giunsero a destinazione senza panni di ricambio. O quella volta che gli si era fermata l’auto senza benzina, Enzo si  giustificò di aver travisato la spia rossa della riserva: pensava indicasse il pieno…

Rinaldini fu psicoterapeuta ricercato e benvoluto, e consigliere efficace per giovani in procinto di intraprendere la sua professione, molti di loro giunti al successo.

La psicanalisi per Rinaldini non riguardava solo la coscienza dei singoli, ma doveva contribuire a migliorare anche i rapporti tra individui. Organizzatore di convegni nazionali sulla materia preferita, fece convergere a Cortona molti incontri scientifici.  Animatore culturale, insieme a intellettuali cortonesi, quali  Giandomenico Briganti, Italo Monacchini, Roberto Borgni e altri, dettero vita al circolo cultuale la Sfinge, stampando un periodico in cui riversarono le loro opinioni. La rivista sopravvisse fino alla scomparsa del prof. Briganti,  supporto decisivo.

Figlio di genitori cristiani credenti, Enzo invece maturò convinzioni materialistiche, seguendo principi etici e politici egualitari, con nostalgie per la militanza nel PCI. Fino a volere sopra il proprio feretro una vecchia bandiera comunista tirata fuori dalla naftalina. La coerenza ideale, mantenuta fino all’ultimo, forse gli procurò sofferenze più d’ogni altra cosa in anni recenti, allorché, a causa delle divisioni politiche seguite allo scioglimento del PCI, gli si interruppero amicizie radicate.

Amante dei piaceri a tavola, del buon vino e del buon mangiare, come un ragazzino, cercava di svicolare agli affettuosi rimbrotti di Marta preoccupata per la sua salute.

Nell’Agosto 2017, aveva dato alle stampe un secondo libro di poesie, dal titolo: “L’albero del tempo”,  ispirato alla poesia omonima : “L’albero del tempo ci cresce dentro./Sentiamo l’attimo che nasce e la piccola/ illusione che ci porta,/ ma subito si spenge/ nell’attimo dopo./ Così di attimo in attimo,/ l’albero del nostro tempo/ si defoglia,/ e invano attende la primavera./ “Carpe diem”/ mentre ti passa/ tra le mani/ la luce del suo rubino”; quasi presago della fine incombente, Enzo aveva convertito in versi la luce assorbita nel mondo: sensazioni e nostalgie di amori per la vita e per le persone care anche scomparse. Caleidoscopio di sentimenti e immagini, capaci di riassumere i passaggi fondamentali nella vita di un uomo curioso e passionale.

Il suo latore testamentario, Fernando Ciufini, ricorda come nel loro ultimo incontro, quasi trasparisse in Enzo Rinaldini la consapevolezza della fine, a cui stava reagendo con mezzo sorriso sulle labbra. Soddisfatto di una vita vissuta nell’amore condiviso con Marta, in pace con gli uomini e la natura, avendo compiuto il suo cammino facendo del bene a quanti aveva incontrato. Con l’unico, evidente, rammarico di dover lasciare per sempre la compagna.

Fernando in viaggio all’estero, dispiaciuto, non ha potuto essere fino in fondo il suo esecutore testamentario, pur avendo da lontano fatto scendere da una soffitta il drappo rosso che Enzo gli aveva ordinato per le sue esequie civili. Sepolto nella tomba di famiglia, realizzata dal nonno nel cimitero di Cortona. A parenti e amici, raccolti per l’ultimo saluto alla salma, una voce femminile ha letto alcune poesie di Enzo, creando l’effimera sensazione di intima malinconica vicinanza al defunto. Non richiesto, è intervenuto un prete in virtù di norme concordatarie che lo consentono, ma la cui esigibilità andrebbe ben valutata, prima di risultare imposta.

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l’Ecuador delle meraviglie ambientali, dopo un precedente viaggio nella capitale Quito

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La sfida è stata impegnativa e avvincente, persuadere un appassionato del Venezuela – dove ha lavorato, vi è tornato in vacanza, e intende trascorrervi la prossima pensione – a visitare l’Ecuador, un Sudamerica diverso da quello a lui noto. E chi lo conosce, Fernando Ciufini (Nando), sa che se una cosa non gli piace non lo manda a dire.
Stavolta, desideravo percorrere l’Ecuador in lungo e in largo, in una settimana, senz’altra idea che godermelo, concedendomi pochi scatti fotografici per ricordo. Dopo che nel primo viaggio, tre anni fa (2014), solcai le vie e le piazze della capitale coloniale ispanica Quito (patrimonio Unesco dal 1978), per raccontare l’esperienza in un libro: Quito. Bellezze ambientali, storie e leggende (ora tradotto anche in castigliano), indossate le vesti da Gran turista del passato, armato di carta, penna, guida locale, macchina fotografica e una quantità di libri acquistati in loco.quito
Palazzo del Governo. QuitoMadonna del PanecilloStavolta le tappe del viaggio le abbiamo lasciate decidere agli amici che ci hanno accolto con generosità, in particolare Alessio Mazzocchi, fiorentino simpatico e iperattivo, da diciassette anni in “esilio volontario” a Quito, insegnante di lingua presso il Centro Culturale italiano.compagni di viaggio. ecuador 2017.5 Dove si rilascia il patentino di esperto in lingua italiana riconosciuto dall’Università di Siena. Alessio ha reso il clima di casa sua accogliente, allegro e spassoso, come nei Tre uomini in barca, di Jerome K. Jerome, in cui è narrata la risalita del Tamigi in compagnia di un cane, tra gag comiche e descrizioni dei paesaggi incontrati.
Grazie a una viabilità eccellente, nelle indicazioni stradali, nelle aree di sosta e nei fondi stradali invidiabili da molte strade italiane, senza risparmiarci ingozzate quotidiane di kilometri, in automobile, abbiamo realizzato un piccolo capolavoro, percorrendo, dal sabato al venerdì successivo, l’Ecuador: dagli altipiani andini alle province amazzoniche, fino agli arenili naturalistici dell’oceano Pacifico. Mancando, non per colpa nostra, un solo obiettivo prefissato: il Circuito di Qulitoa – il cui lago si dice abbia una profondità incommensurabile e le cui acque producono effetti speciali al variare della luminosità. Quel pomeriggio, immersi nella nebbia impenetrabile, ci contentammo d’un ristoro: banana arrosto e una tazza di cioccolata calda. Anche se nel tratto di strada abbiamo incontrato una matrimonio, con persone agghindate a festa nei tipici costumi andini, e le uniche persone sobrie erano sul palco dei suonatori, mentre persino l’aria era impregnata di vapori di birra!Donna nel caratteristico costume andino, ecuador 2015
Impressionante la luminosità del cielo e del paesaggio andino non coperto da nubi radenti le altissime vette vulcaniche, fino ai seimila metri di quota.paesaggio e cielo andini
Bagnos di santa Maria, la tappa seguente, ha mantenuto ciò che promette il nome: circondata da alte vette da cui scendono spettacolari cascate a velo di sposa, acque termali, e possenti salti d’acqua come il Pailon del Diablo,Pailon del diablo, cascata i cui vapori sono visibili a kilometri di distanza. Proseguendo, nelle province e località amazzoniche di Puyo, Tena e Shell, si è giunti al primo porto turistico ecuadoriano di Misahulli. scorcio di foresta pluviale secondariaSi può visitare un villaggio tipico ricostruito per i turisti, gestito da nativi, dove sono esposte specie vegetali medicinali Pita. Pianta medicinalee piccoli animali delle foreste: aquile, puma, pappagalli, scimmie bonsai piccolissime, tartarughe, ecc., aquila amazzonica-arpiaessendo in cattività, frastornati dal via vai dei curiosi. Con Nando ci siamo tranquillamente sottoposti al rito di “ripulitura” dai guai fisici, inscenato da uno scenografico sciamano. Lungo il corso del maestoso Rio Napo(?), cercatori scandagliavano i loro 3-4 grammi d’oro quotidiani. Oltre il folklore, è evidente, lì e altrove in tutto l’Ecuador, l’impegno delle autorità nel sostenere parchi, riserve, centri di riproduzione di specie vegetali e animali a rischio d’estinzione. E offrire opportunità di rafting, percorsi a piedi e in bicicletta per immergere il visitatore in una natura varia e rigogliosa.laguna di san Lorenzo
Il tempo ci ha assistito, piovendo poco e temperature miti, ovunque. In tutto il viaggio il maggior disagio è derivato dalla rarefazione dell’ossigeno alle alte quote, costringendoci a incedere lentamente e approfittare di soste rigeneratrici.
La tappa sulla via del mare, partendo da Bagnos è stata la più lunga e impegnativa, ma non priva di fascino. In strade con frequenti tornanti, dalle curve ben modellate per una guida agile e rapida. Costeggiando Quito a Ovest, in strade ripide che si gettano in baratri di nebbia e lussureggianti colline che compaiono dietro i tornati. Inerpicandosi sul pàramo (prateria andina d’alta quota) si osservano l’estinto Volcán Ataco (4483 m) e il Volcán Corazon (4788 m). Si traversano ampie valli sovrastate da picchi in gran parte di natura vulcanica, e strette gole fin nella valle del Rio Toachi. In una di queste, scolpito sulla roccia parietale da un operaio dei cantieri stradali, si presenta improvviso un mascherone del diavolo, intitolato “Poder Brutal”, nome che è un programma. Quando la strada per l’oceano ha scavalcato le gole, si aprono campagne floride ben coltivate, frequenti villaggi, fino a giungere alla dinamica ma incolore città, costruita negli ultimi decenni, elevata a provincia: Santo Domingo de los Colorados. Sviluppatasi velocemente come centro commerciale grazie all’agricoltura in espansione per coltivazioni intensive di banane, caffè, cacao, riso, mais, ecc.
La curiosità e il desiderio di acquistare un panama originale de paja toquilla, ci ha portato a Montecristi. Città costruita su un rilievo circondata dalla pianura, nel cui punto apicale è situato il museo in memoria del generale Eloy Alfaro Delgado, El Condor de America, originario di questa città, protagonista di una rivoluzione liberale radicale. Nominato Capo Supremo e poi Presidente Costituzionale, governò dal 1895 al 1901 e dal 1906 al 1911. A causa delle sue idee radicali e democratiche, scontratesi contro le oligarchie economiche, fu assassinato e dimenticato per tutto il XX secolo. Nel nuovo millennio le sue idee sembra abbiano ripreso campo nell’Ecuador politico, come testimoniato dal Centro museale a lui dedicato. E i due “rivoluzionari” cortonesi in vacanza, in cerca del panama originale, sono stati lieti di aver scoperto tale personaggio. Ovviamente, abbiamo acquistato il prezioso copricapo, in quel momento, dal doppio significato: estetico e politico.
All’imbrunire, in vista della costa, un poliziotto ci ha suggerito, alternativo alla caotica Manta, il villaggio marino di Santa Marianita, Spiaggia di santa Marianitaoggi appena abbozzato, ma già predisposto a un futuro massiccio sviluppo. (Non cercatelo sulle mappe, perché difficilmente lo trovereste… ancora per poco). Nella spiaggia sabbiosa desertica, larga e lunga, bivaccano varie specie di uccelli dediti alla pesca. Uccello pescatoreSpettacolo naturale “disturbato” da pochi surfisti. Però, temiamo che presto sarà travolto dal cemento.
Anche le guide migliori, come porta di ingresso al Sudamerica, indicano l’Ecuador, non vasto e ricco di ben quattordici biotipi naturalistici di straordinario impatto, che lo rendono un’esperienza unica: se alla natura si abbinano visite a splendide città post-coloniali ben conservate, ai folkloristici mercatini (Otavalo),Otavalo, mercato del sabato, ecuador 2017.3 e, dulcis in fundo, a un’escursione alle Galapagos. Isole che, stavolta, non sono rientrate nel nostro breve programma, ma non escludiamo lo sarà in un futuro che speriamo prossimo.
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Il comprensibile sconcerto dell’elettore in vista delle politiche di primavera

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L’astenuto in Italia non è più il pigro, il qualunquista, o il poveretto che non capendo un’acca di politica fa lo struzzo e il giorno delle elzioni diserta l’urna. Ma sta diventando un sentimento maggioritario che serpeggia tra l’elettorato un tempo definito di destra, di sinistra. e di centro, e che oggi, invece, non riconosce più ai partiti quelle caratteristiche che ne facevano soggetti identitari tanto forti da prevalere sovente su ogni altra passione individuale. Quasi una appartenenza tribale a cui l’attivista e, in misura minore, l’elettore si atteneva con passione, e, quando era necessario, giustificava anche le cazzate della sua parte come sacrosante ragioni di partito per non farsi infinocchiare o farsi mettere sotto scacco dagli avversari. Spesso le divergenze erano così forti da suscitare, più che discussioni, risse, non solo verbali. Sarà stata l’ebbrezza della partecipazione, o una partigianeria dovuta a radici convinte abbarbicate negli interessi materiali, culturali, etici, fatto sta che la politica era una cosa seria, molto seria, come d’altronde lo richiederebbe una civiltà matura.
Inutile sottolineare l’attuale degenerazione del quadro politico generale, nei suoi contenuti, nel livello di discussione pubblica nel teatrino mediatico e, la cosa forse più grave, nel pensiero unico dominante offerto (imposto e supinamente accettato) dai media direttamente ai politici di mestiere. Non esistendo più momenti di analisi dei fenomeni (i centri studi dei partiti, alcuni dei quali erano talmente sofisticati paragonabili a quelli universitari), e mancando dibattiti ideali interni a ciascuna corrente politica (oggi i dibattitti – sic!- si fanno in TV dove vanno i più fotogenici e quelli che sanno spiccicare frasi anche senza senso ma sparate a raffica, possibilmente in corretto italiano, cercando di sopraffare l’altro,…). Insomma, il cittadino comune, al di fuori dalle sempre più strette cerchie politiche, per farsi un’idea propria deve accontentarsi di brandelli estrapolati da inutili continue gazzarre televisive o, peggio ancora, ascolando telegiornali fotocopia l’uno dell’altro, o leggendo giornali dalla dubbia autonomia dai poteri forti, soprattutto finanziari ed economici. Tanto da dar fiato a chi, non più tanto a torto, parla di una democrazia fasulla condizionata, perciò non più definibile tale per mancanza di effettive idee offerte tra loro in contraddittorio, quanto più sincero, o verosimilmente sincero. E tale assenza non è di poco conto, considerando gli effettivi interessi dei cittadini posti in gioco su cui la politica ha un ruolo fondamentale. Basterebbe ricordare, a mo’ d’esempio, come è nato quel verminaio di guerre mediorientali partendo dalla guerra in Iraq, giustificata da una montagna di menzogne costruite dai maggiori leader mondiali dell’epoca: Colin Pawel all’Onu, con provette di acqua distillata spacciate per gas micidiali, o Tony Blair che, ex post, ha incolpato i servizi segreti britannici di avergli scritto il falso… Un giochetto da niente… i cui postumi sono ancora accesi, con centinaia di migliaia di morti innocenti tra le popolazioni civili. Già, oggi le guerre non sono più tra soldati, ma sono stermini di massa! Ricordiamo ancora come un paese come l’Italia, che ha nella sua Costituzione il divieto di risolvere i conflitti con la guerra, si trova implicata in un sacco di scacchieri di guerra avendoli gabellati da peace skipping! Che cavolo c’entri la pace con la guerra ancora non si è capito. O meglio si è capito: è in atto una guerra mondiale a tappe per motivi economici, com’è lo stesso Papa a ricordarcelo spesso, per quanto inascolato.
Nella mia appartata vita da pensionato, incontro continuamente un vasto campionario di cittadini, vecchi e giovani indistamente che, faticando a raccapezzarsi, non osano più mettere becco su questioni politiche, pur consapevoli del danno fatto a sé stessi. Lontano da tempo dall’agone politico, avendo militatato convintamente a sinistra finché la coscienza me l’ha consentito, ne sto distaccato, assistendo a quanta confusione ogni giorno viene aggiunta, dall’estrema destra alla sinistra estrema, nella vita politica italiana, a partire dai fatidici anni Novanta. Dal momento in cui è iniziato il carosello del cambio dei nomi ai partiti, pur di sopravvivere. Con obiettivi confusi dal punto di vista dell’interesse generale, ma con obiettivi assolutamente chiari nella volontà di permanenza al potere di un personale politico che ha accettato oligarchie di partito personalistiche pur di restare in sella fino a una ricca pensione. E anche oltre la pensione, pur di non perdere l’aggancio al potere. Come mi par di capire stiano studiando di fare quanti si stanno organizzando, alla sinistra del PD, nel partito Liberi e Uguali. Per non liquidare tale questione troppo laconicamente, definendola un tentativo di riallineamento al potere del personale politico emarginato nel PD dal rampante rignanese, sarebbe necessario un ragionamento partendo dai vari convulsi tentativi di rinominare i partiti succedutesi dagli anni Novanta in poi, ma lo lascio fare al lettore, tanto è lunga la sequela di sigle politiche e di nomi di dirigenti che hanno partecipato al balletto. Dichiarando me stesso “vittima”, come militante di una sinistra comunista organizzata, attrattiva, che non era stata certo responsabile del fallimento storico attribuibile in larga parte alla Unione Sovietica e alle sue classi dirigenti. Per di più, oggi, vedo con sospetto e disincanto che uno tra i leader della nascente Liberi e Uguali come Enrico Rossi (Presidente della Regione Toscana) scriva il suo richiamo ideale al Socialismo, dopo che, per quasi un ventennio, quei leader là si sono tenuti ben lontani da tale ispirazione, magari irridendo chi ancora riteneva valide le analisi storico-economiche marxiste sugli effetti del capitalismo mondiale sulla vita della maggioranza della popolazione nel mondo. La forbice sempre più impressionante tra i pochi ricchi e le moltitudini di poveri, e la falcidia dei diritti dei lavoratori, dei pensionati, degli ammalati, degli studenti, …sull’altare di profitti stellari spietati e senza più controllo da parte politica. A chi mi chiede come votare dico: aspettiamo la fine della campagna elettorale, sperando che la scena si illumini, con grande comprensione per chi si vorrà astenere.
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Santi Tiezzi, imprenditore di successo senza atteggiamenti da arricchito

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Ultimo incontro con Santino all’Elba. L’Isola per lui, tutto l’anno, era luogo di lavoro. Quella settimana d’estate si era concesso un po’ di riposo, dedicandosi anche alla bicicletta: una mountain bike nuova di zecca. Per amicizia, e non temendo il confronto con un ciclista goffo, m’invitò a seguirlo nell’escursione-collaudo della sua due ruote a pedali. Percorso suggestivo e breve: direzione Rio nell’Elba, da Porto Azzurro al Santuario oltre il cimitero, poco fuori dall’abitato; due kilometri in lievi saliscendi. Conversammo allegri, vacanzieri spensierati. Ogni tanto Santino lamentava doloretti: alla schiena, alle spalle, alle chiappe, ai muscoli delle gambe,… fastidi tipici di chi s’imbarca in bici avendo praticato solo sport sedentari: davanti alla TV o in tribuna allo stadio. Santino, stimato presidente della società di calcio Cortona Camucia – a Lui è dedicato lo stadio di Maestà del Sasso – era più portato a dinamizzare sportivamente le gambe altrui che le proprie, abituate a girellare per uffici e cantieri, impigrite sopra poltrone o sui sedili dell’automobile. Dopo la biciclettata, non ci rivedemmo più. Ripresi ogni anno a cambiare luoghi di vacanze, su pressioni familiari stanche della “solita” Elba. Delle vicende dolorose di Santino, ancor giovane gravemente malato, seppi a morte avvenuta.
La sua storia, umana e imprenditoriale, è comune alla generazione post bellica. Giovane, senza avere alle spalle un’impresa già avviata, riuscì a imporsi nelle attività imboccate arricchendosi, certo, ma senza ostentare il nuovo status. Legato a stili di vita morigerati, soprattutto mantenutosi “alla mano”, ascoltava chiunque, anche inevitabili rompiscatole. Esposti al pubblico, ci si imbatte in ogni sorta di individui, anche senza volerlo.
Self-made-man, Santino, diplomatosi geometra, aprì uno studio professionale e si costruì un’impresa edile. Sposata Concetta, brillante ragioniera bancaria, anch’essa contribuì alla crescita degli affari con le sue competenze finanziarie. A Concetta, scomparso il marito, è toccato l’onere, gestito con sapienza, della gravosa eredità imprenditoriale. Santi Tiezzi, Santino per gli amici, svolse gli impegni professionali con perizia e passione, curandoli a trecentosessanta gradi. Dall’acquisto dei terreni, alla progettazione, all’esecuzione dei lavori, alla vendita dei fabbricati, dedicando, a ogni fase, riscontri scrupolosi. Affarista serio, non abborracciava. Attento ai clienti, progettista per conto terzi e costruttore in proprio, cercava la soddisfazione dell’utenza sulla qualità dei manufatti, sulle rifiniture, assecondando le disponibilità economiche del cliente. Applicando criteri di buon senso, ottenne risultati notevoli. Pur non considerandosi benefattore, combinava al meglio il suo tornaconto col gradimento altrui, basandosi sulla parola che per lui era un contratto.
La concomitanza d’esser presidente del Cortona-Camucia calcio e i successi imprenditoriali in edilizia, l’esposero inevitabilmente al paragone col rampante Silvio Berlusconi, presidente del Milan e costruttore di Milano Due. Su cui Santino, per l’evidente confronto sproporzionato, faceva grasse risate. Pure in dimensione paesana, nel raffronto Santino faceva la sua bella figura. Avendo esteso le attività fuori dal Cortonese in altre località Toscane, fino all’approdo Elbano. Dov’era intervenuto la prima volta a sbrogliare la matassa a una cooperativa di utenti (di Castiglion Fiorentino?) intenzionati a costruirsi appartamenti al mare. Risolto il problema ai quasi compaesani, a Santino piacque seguitare a costruire case e negozi per conto proprio all’Elba, togliendosi tali e tante soddisfazioni da impiantarci un ramo di attività, oltre a quelle in terraferma. Almeno un giorno a settimana, l’avresti trovato a prender trafelato l’ultimo traghetto da Piombino per l’Elba, a sera inoltrata. Dopo giornate zeppe d’impegni.
Il segreto di Santino coi clienti e gli amministratori locali, con cui per forza doveva confrontarsi, era il classico “veniamoci incontro!”, associato a facile comunicativa, parole semplici, gesti e sorrisi che rivelavano un carattere determinato, e, al contempo, intelligente, aperto, competente, gioviale e rispettoso dei ruoli altrui.
Cocciuto e tenace perseguiva l’obiettivo, scavalcandolo di petto, o aggirandolo pazientemente. Difficilmente s’arrendeva. Se non per primo, copiando altri, Santino era capace di introdurre nella realizzazione degli edifici soluzioni che apparivano innovative nel ricavare da lotti edificabili il massimo delle volumetrie possibili, pur rispettando i limiti dei regolamenti edilizi. Allo stesso modo, non si scoraggiava davanti a richieste di amministratori civettuoli, come il sindaco di Porto Azzurro che chiese a Santino di costruire, al posto d’un tetto condominiale, una piscina, per valorizzare la sua città nelle foto aeree… La piscina fu fatta e resa funzionante, frequentata da un variegato pubblico. Tra cui, se ben ricordo, anche da un galeotto benestante in libera uscita dal famigerato carcere Elbano. Personaggi dai passati burrascosi era frequente incontrarli a spasso nell’Isola, in via di reinserimento, come il tizio che aveva accoppato moglie e suocera, non essendo ritenuto più socialmente pericoloso (fuori ad attenderlo non c’erano un’altra moglie e un’altra suocera…). Oltre alle costruzioni, Santino prese a gestire anche residenze per vacanzieri.
Ricordo tra i suoi acquirenti pure un discendente laterale degli zar Romanov.
Ma, portati da Santino, era facile imbattersi in nuovi Elbani, in prevalenza, aretini e cortonesi. Perciò la sera era facile incontrarsi tra conoscenti sul lungomare a sorbire un gelato, o, il giorno, stesi al sole in una delle tante spiagge dai variegati fascinosi arenili. Perciò, Santino ebbe il merito di far scoprire e apprezzare l’Elba a numerosi concittadini, e di costruire alloggi, locali commerciali e artigianali in gran quantità in mezza Toscana nell’epoca del più recente, e ultimo, boom edilizio.
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Alcune parole di commiato da Alfredino Bianchi, amici dalle scuole elementari

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Alfredo BianchiUcciso dall’infarto, finito in una profonda forra a cavallo d’un motociclo a quattro ruote, Alfredino cercava la vita non certo la morte, e, pur avendo sul collo la spada di Damocle di precedenti ischemie cardiache, non si era fatto intimorire. Amava la vita e condivideva con altri molte passioni, com’è successo anche nell’ultima tragica avventura col vecchio compagno di scuola Patrizio Sorchi, rimasto gravemente ferito nell’incidente di sabato passato. La moto a quattro ruote, i paesaggi del senese da traversare e fotografare nella loro naturale incantevole bellezza, niente di meglio per una giornata rilassante all’aria aperta. Quando ti dimettono dalla Unità Coronarica non ti fanno tante raccomandazioni sul futuro regime di vita da cardiopatico, né ti colpevolizzano con inutili ramanzine sulle cattive abitudini (fumo, alimentazione sbagliata, vita stressante,…) forse perché non ne hanno il tempo per le tante urgenze quotidiane da seguire, o forse perché ritengono che svolto il loro compito, al di là dei più saggi consigli, conta al “paziente” avere fortuna. Tanto culo!… Dopo un infarto la pompa cardiaca ha le sue belle cicatrici, nonostante le più sofisticate aggiustature mediche. Ed il “paziente” rimane solo a ragionare sul dilemma: vivere da “invalido”, o seguitare come prima con qualche accortezza in più?
Compagni di scuola da ragazzini, con Alfredo avevamo estrema confidenza pur frequentandoci saltuariamente, ma alla nostra età era inevitabile incontrarsi, essendo lui farmacista ed io discreto consumatore di medicine. Sui comuni trascorsi sanitari lo scambio di opinioni era sui farmaci e basta, mentre prevalevano le confidenze classiche tra maschi giunti a una certa età, ma ancora curiosi e vogliosi di vivere.
Ricostruimmo insieme, per scritto, un breve profilo del simpatico babbo Edo, farmacista pure lui, con la passione del gioco condivisa coi coetanei, come fossero ragazzi, inventandosi pure cineasti e attori di strampalate avventure, per inscenare scazzottate, scherzi, … e chi più ne ha più ne metta. Alfredino è stato allievo del babbo in molti tratti: negli interessi, nel carattere, nella simpatia spontanea,…. Come nella passione fotografica. Basta vedere sul suo profilo Facebook gli infiniti racconti di scampagnate all’aria aperta o zingarate con scanzonati come lui.
Disponibile verso il prossimo, lascia un vuoto affettivo enorme per le tante relazioni che aveva intessuto con chiunque l’avesse cercato. Catalizzatore di simpatie umane, aveva promosso una movida estiva sulla falsariga del vecchio Far West Camuciese in cui imperversavano la sera in piazza o al bar, suo padre Edo, il Pittiri, il Ghioghiolo,.., simpatiche maschere viventi, che la “regia” di Alfredino aveva sostituito con miti odierni, come il Bambara e i suoi sodali. Senza dimenticare il suo impegno nell’avere radunato più d’una volta i vecchi compagni delle elementari, con i quali è sicuro rimane la più tenace delle amicizie, pur senza tanto frequentarsi.
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Luciano Pellegrini, per necessità, da postino si era mutato in esperto di temi sanitari

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Da tempo, pensavo di raccontare qualcosa su Luciano Pellegrini. Con lui, oltre ad essere della stessa età, conoscersi fin da ragazzi frequentando gli stessi ambienti Camuciesi, incappammo in famiglia su intricati problemi di salute simili, … e ne avevo apprezzato – sottoscrivendo tra i primi la quota associativa – la fondazione della Onlus Amici di Francesca. La cui attività, nella sua evoluzione, risultava ben illustrata nelle pagine omonime mensili su L’Etruria, curate da Luciano.
Quando, improvviso, ho trovato un messaggio sul telefono del direttore Lucente che mi chiedeva l’invio di un altro dei miei personaggi mensili sulla rubrica Gente di Cortona, per riempire parte dello spazio che tradizionalmente nel periodico è coperto dalla rubrica Amici di Francesca, a causa di un impedimento di Luciano, che mi auguravo assolutamente momentaneo.
In tanti anni da conoscenti, sono stati episodici i nostri incontri o scambi telefonici, ma sempre in totale reciproca assonanza su temi pubblici e privati. Uno di quei legami non stretti ma duraturi, cordiali e franchi.
Nella Camucia degli anni Sessanta e Settanta, Luciano, scorrazzando in motociclo, era un ragazzone che si faceva notare: simpatico, gioviale, ironico, compagnone, statura imponente e sguardo singolare: tanto da meritare il nomignolo di “Occhione”. Come la gran parte della nostra gioventù di medio-bassa estrazione sociale, ambiva al posto fisso, che non tardò a conquistare: da postino. Costruì famiglia e casa, desideri accessibili in quei tempi di crescita economica. Percorsi di vita comuni alla gran parte di quella generazione.
Poi, inaspettata, gli capitò la tegola: la nascita di una figlia – Francesca – che per sopravvivere aveva bisogno di un’enorme disponibilità di tempo, denaro, e fortuna nel trovare centri specialistici adeguati. Uno di quei casi che segnano la vita del nascituro e della sua famiglia. Condizione aggravata dal viver lontani da centri sanitari d’avanguardia. Anzi, prima di tutto, situazione gravata dalla scarsa informazione su come orientarsi nel complicato mondo delle malattie rare: dove i genitori sono costretti ad entrare in percorsi infiniti e complicati, nei quali si possono ottenere successi più o meno risolutivi del problema, se assistiti dalla fortuna, coincidente con anime sapienti disposte ad orientarti verso strutture sanitarie di eccellenza.
Impegno, volontà, e determinazione non mancavano a Luciano. Fino ad ottenere, con pazienza, incoraggianti risultati per la salute della figlia.
Quella dolorosa esperienza, dal sentore di essere un tunnel infinito, che la gran parte delle famiglie induce all’isolamento affrontando in solitudine traversie complesse, a Luciano suggerì di far di necessità virtù, nella prospettiva di condividere le sue esperienze con altri, in situazioni simili. Anche se alle prese con patologie diverse.
La sua forza d’animo e l’intuizione di costituire la “Onlus Amici di Francesca”, trovò adesione e sostegno in tanta gente comune, in personalità del mondo medico, e nell’amministrazione sanitaria locale (se non erro, diretta da Giuseppe Ricci), che accolse Luciano nei suoi ranghi come dipendente; lasciandogli ampio margine operativo nel perseguire i suoi intenti: costituire un punto di riferimento informativo e, nei limiti del possibile, agevolare l’accesso di bambini con gravi handicap alle cure più appropriate, dovunque queste fossero disponibili. I risultati di quel lavorio continuo non finiranno in statistiche, ma di esso non possiamo non condividerne l’importanza civile negli intenti benefici.
In molti, fummo sorpresi da Luciano per la costanza nell’impegno e la capacità di tessere relazioni, utili alla sua causa con personalità di primaria intelligenza in campo medico e sanitario.
Domestichezza che, proprio nella rubrica Amici di Francesca, si era concretizzata in scritti di valore scientifico e divulgativo, interessanti anche per un pubblico vasto, non necessariamente alle prese con problemi di malattie rare.
Insomma, la pagina curata da Luciano risultava essere una vera e proprio campagna di educazione sanitaria permanente, attività a cui auspicavo tornasse presto.
Invece. Una settimana fa si è dovuto arrendere.
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La privatizzazione dello storico Ospedale di Cortona, esempio di cannibalismo amministrativo

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Far quadrare i conti vendendo il patrimonio non è solo del privato e delle aziende, di recente, è moda invalsa anche negli Enti pubblici: Stato, Regioni, Provincie, Comuni. (Anche questo è liberismo?!). Ma finché ci si disfa di immobili “inutili”, il cittadino è costretto a stringer le spalle pur perplesso, e farsene una ragione. (Il buon padre di famiglia insegnerebbe di non disfarsi del patrimonio se non in casi estremi). Nel caso dell’antico Ospedale Cortonese se ne sono invece disfatti, stando alla cronaca, con procedure simili all’urgenza (usate in caso di calamità naturali o di grave stato finanziario di un ente), quando quel bene era stato acquistato dalla USL (quindi dalla Regione) per destinarlo ad usi scolastici per i quali, ieri e oggi, la Provincia paga lauti affitti annuali.
Da tali contingenze non possono non sgorgare spontanei interrogativi e perplessità pesanti. Sulla colpevole decennale inerzia amministrativa comunale e provinciale, e sui rimpalli di responsabilità tra le due amministrazioni su chi avrebbe dovuto prendere l’iniziativa nel trovare un’utile destinazione al prestigioso e capiente immobile. Nel momento in cui a livello nazionale ed europeo sono stati promossi programmi di edilizia museale, sociosanitaria, scolastica, ecc. ecc., dei quali, almeno in un caso, avrebbe beneficiato pure il Comune acquisendo un edificio scolastico da ristrutturare. Perché non sono state cercate sovvenzioni per riattare un patrimonio prestigioso monumentale già in mano pubblica?
Ad attenuante, del fallimento politico-amministrativo, si porta la giustificazione che le Provincie hanno subìto un’avventata legislazione nell’ultimo triennio, intenzionata a sopprimerle mentre sono ancora lì, sopravvivendo con scarse risorse. Intanto, è noto a tutti, è cresciuto il disagio e lo sconcerto in rami importanti imprenditoriali (agricoli, turistici,…) per un permesso sballottati tra Comune, l’obbrobrio rappresentato dai resti Provinciali, e la Regione, subentrata alla Province, che sta rallentando i procedimenti, improvvisandosi gestrice di pratiche fuori dalla sua scala.
Prendiamo atto come, gli stessi attuali protagonisti del neoliberismo istituzionale nazionale e locale, in precedenza abbiano predicato il riformismo di Bassanini (personaggio ancora in auge, alla Cassa Depositi e Prestiti) che prevedeva il trasferimento dei servizi dello Stato ordinamento il più vicino possibile al cittadino.
Dovendo la Provincia, per sopravvivere, fare cannibalismo amministrativo, ha puntato al merollone per incassare quanti più soldi, avendo per alleato il malleabile Comune di Cortona, con questa giustificazione: cediamo l’Ospedale per far quadrare i bilanci, però il privato si impegna ad adeguarlo ad usi scolastici e universitari. Prospettiva così allettante che il Comune ha dato subito il suo placet.
Tempismo ed enormità dell’operazione, ricordano lo scherzo giocato a un tipo salito la prima volta in treno. Incuriosito dalla manovella del freno d’emergenza, chiese agli amici a cosa serviva. I birbanti dissero:” …è una leva così salda che è impossibile tirarla!” L’ingenuo curioso, non attendendo molto, tirò giù la leva. All’arresto del treno, al trafelato controllore che gridava: “Chi è stato?!” Orgoglioso, il bischeraccio rispose: “Sono stato io, e ci sono riuscito con un dito solo!…”
Almeno a loro chiediamo – al Comune e alla Provincia – se è chiara la credibilità del progetto e l’affidabilità del soggetto realizzatore tale ristrutturazione? Perché, se si risolvesse in una pura speculazione immobiliare, la cessione sarebbe gravissima, di una inopportunità lampante: un fallimento politico- amministrativo di portata storica. E Cortona, a proposito di cessioni di beni pubblici con esiti lontani dalle premesse, avrebbe già abbondantemente dato. Basti solo ricordare la strana cessione dell’area di Manzano a un privato intenzionato a costruire un campo di golf da diciotto buche e i relativi servizi… l’operazione ancora pare piuttosto lontana dallo scopo.
L’inadeguatezza di chi si è disfatto del vecchio Ospedale di Cortona risulta evidente solo guardandosi intorno, nell’ex area sanitaria Valdichiana Est, dove nessuno dei principali presidi ospedalieri è stato sottratto al pubblico. E tutti quanti ancora svolgono egregiamente altre funzioni. A partire dagli Ospedali, vecchio e nuovo, di Castiglion Fiorentino, a quello di Foiano e alla Struttura sanitaria di Lucignano.
Dove si è voluto, insomma, è stato possibile dare nuove funzioni pubbliche a immobili secolari ereditati dalle comunità locali, escludendo di disfarsene a cuor leggero. Tale senso civico è di fatto sostenuto pure dallo Stato con forza di legge, in quanto a favore degli enti pubblici, preposti alla conservazione del patrimonio storico e monumentale, è riconosciuto il privilegio di acquisirlo dai privati in caso di vendita o di cattiva conservazione, quando il patrimonio risulti culturalmente significativo.
E l’Ospedale secolare di Cortona non avrebbe avuto tale requisito?
Cascano le braccia vedendo, ad esempio, come a Siena l’ex ospedale Santa Maria della Scala, ristrutturato e adeguato, si sta imponendo tra i maggiori musei italiani se non d’Europa e del mondo.
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