IPPOLITI, cortonese del Settecento antesignano del Concilio Vaticano II

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Tra i memorabili cortonesi consideriamo i nativi, gli adottivi e quelli di passaggio come Giuseppe Ippoliti. Il quale, nonostante la salute fragile, rivelò grande tempra morale, capacità organizzative e intellettuali straordinarie come vescovo di Cortona. Per 20 anni e 11 mesi. Nominato da Benedetto XIV, il 20 maggio del 1755 (a soli 38 anni), prese possesso della diocesi il 28 ottobre successivo.

Nato a Pistoia il 12 marzo 1718 da famiglia patrizia, dimostrò attitudine agli studi: prima in lettere e filosofia, con ottimi risultati; poi lettore di sacre scritture e di storia ecclesiastica, sulle quali completò il ciclo di studi per essere ordinato sacerdote (18 marzo 1741); infine ottenne la laurea in sacra teologia alla Sapienza di Roma. Poco dopo fu nominato Vescovo.

Apprezzato predicatore per le sue doti di “amabile mitezza”, dedito alla carità verso gli indigenti, specialmente negli ospedali, ben presto rivelò anche capacità organizzative ed edificatorie. Aiutato dalla ricca famiglia e capace di districarsi nel clima delle leggi granducali sulla mano morta (che portò al demanio pubblico consistenti patrimoni, compresi lasciti testamentari intestati alla Chiesa), riuscì a riappropriarsi di una pingue eredità per ricostruire quasi dalle fondamenta  la casa (che volle comoda e vasta) della Congregazione pistoiese dell’Oratorio di san Filippo Neri. Di cui fu anche preposto, per alcuni anni. A Cortona non fu da meno. Fatta ripavimentare la cattedrale, nel 1760 mise mano alla ricostruzione dalle fondamenta del seminario diocesano (anch’esso comodo e vasto), modello d’edilizia collegiale. Tra i più imponenti palazzi cortonesi. Completato in cinque anni, ma inaugurato nel 1772. Occasione nella quale scrisse la Pastorale per la riapertura del seminario. Resoconto sulle difficoltà finanziarie superate, e carta istituiva di nuove regole per il seminario di qualche originalità per i tempi. Da cui emerge l’Ippoliti riformatore: stabilita la centralità della parrocchia, nella vita sociale e religiosa, i parroci dovevano essere rigorosamente preparati nella dottrina morale.

In che consisteva l’innovazione? Lo spiega il prof. Mario Rosa, ne Il giansenismo nell’Italia del Settecento (Carocci): “il rafforzamento dell’istituzione parrocchiale quale centro di rinnovamento della vita religiosa individuale e collettiva, di fronte alla sua tradizionale debolezza rispetto alla pervasiva presenza, nelle realtà urbane e rurali italiane, degli ordini regolari delle confraternite: una rete che, a giudizio dei giansenisti, e di quanti presero a impegnarsi  nelle riforme, aveva frantumato e resa esteriore la pratica religiosa dei fedeli”. Anche Ippoliti ambì a una nuova vita parrocchiale, democratica e rigorista in senso morale. Le pratiche religiose per lui non dovevano essere di facciata da beghina – sciorinando giaculatorie e avemarie a pappagallo – ma basate sulla persuasione e sulla conoscenza delle sacre scritture e del catechismo di Bellarmino, e partecipate. Per concretizzare l’idea di partecipazione, tradusse in italiano, e in questa lingua fece cantare (testimonianze conservate a Pistoia), il Pater e l’Ave, fece stampare orazioni in volgare compreso il Miserere, raccomandando ai parroci di seguirlo nelle sue novità. Per quei tempi, fu un processo “rivoluzionario”. Duecento anni dopo, recepito dal Concilio Vaticano II come   regola universale: d’ora in avanti, canti e funzioni saranno celebrate nella lingua del popolo, non più spettatore, ma coinvolto nelle assemblee sacre.

Per gli storici rimangono sul personaggio due interrogativi a prima vista irrisolti. Per quale motivo Ippoliti abbandonò la Congregazione di san Filippo Neri passando al clero diocesano? E se appartenne o meno alla corrente giansenista?

Alla prima domanda sembrò non rispondere, quando scrisse solo di avere deciso l’abbandono della Congregazione  “dopo lunga riflessione”. Mentre – a mio avviso – la risposta stava nei fatti. Più che nelle Confraternite confidava nella rigorosa formazione dei parroci, centrali nella vita parrocchiale rinvigorita, rinnovata e democratica. Un’idea seguita pure dai giansenisti. Anche se, non tanto lui, quanto i suoi seguaci cercarono di dimostrare che Ippoliti col giansenismo non c’entrava, il suo successore nel vescovato a Pistoia, Scipione de’ Ricci (giansenista militante), disse  d’aver trovato in biblioteca, appartenuti a Ippoliti,  riviste e libri divulgativi sulla corrente giansenista. Tanto che lo storico Mario Rosa usa il termine “giansenisteggiante” per inquadrare la figura del vescovo cortonese. Come a dire: Ippoliti, senza aggregarsi ad alcuna corrente, seguì una linea dai connotati giansenisti. Un pragmatico, insomma. Che alle discussioni ideologiche preferì pratiche innovative, e, alla luce degli eventi, pure efficaci. Infatti (sempre a giudizio di M. Rosa), all’epoca dell’Ippoliti, quello di Cortona, con Arezzo e Siena, fu considerato tra i più prestigiosi seminari Toscani, anche col contributo di insegnanti Vincenziani. Dette, insomma, al suo collegio per religiosi una qualità che oggi diremo oxfordiana.

Come scrive nella sua biografia Guido Gregorio Fagioli Vercellone (Enciclopedia Treccani): “La sua linea di governo della diocesi fu un continuo tentativo di equilibrio tra severità e rilassatezza”, umana e intelligente. Se pensiamo che, invece, dopo il Concilio di Trento la chiesa romana fu percorsa da furibonde controversie tra riformatori e conservatori arcigni di tradizioni più o meno antiche. Cosicché Ippoliti appare, nel suo vescovato, originale anticipatore dei tempi, e pontiere tra opposte sponde: coniugando rigore morale, innovazione e tolleranza. E, in ossequio al vangelo, al centro della sua  missione pose poveri e diseredati. Stragrande maggioranza della popolazione. L’aspetto merita un approfondimento, che faremo in seguito. Poiché, anche su quel tema, il pur malaticcio uomo, fu un grande! Così spiegheremo  il dettaglio non secondario: la semplicità della collana e del crocifisso pettorale nella foto (concessa gentilmente dal MAEC), né d’oro, né di pietre preziose.

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