GIUSEPPE IPPOLITI, vescovo “padre dei poveri e delle arti liberali”

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Perché i familiari scrissero sulla sua tomba: “Padre dei poveri e delle arti liberali”?

La sua passione per gli studi l’abbiamo già raccontata, così come la cura particolare nella formazione del clero diocesano. Giova ricordarne anche la  duttilità intellettuale e apertura alla società colta del tempo, che lo portò ad essere socio dell’Accademia Etrusca di Cortona, della quale fu Lucumone nel 1767. Intenditore di musica, curò questo aspetto liturgico, musicando e traducendo in italiano canti e orazioni tra le più praticate, come il Pater, l’Ave e il Miserere. Solo a Cortona emise più di 50 pastorali, editti e istruzioni, e pronunziò non meno di tre omelie all’anno. Perciò, riconoscerlo padre delle arti liberali fu più che meritato.

E padre dei poveri? Lo dimostrò materialmente, ed esponendosi in scritti veementi.

Due carestie consecutive, nel 1763 e tra il 1766-77, (che causarono la morte di ben 3000 cortonesi specialmente nelle campagne, mentre in città ospedale e opere pie riuscirono ad attenuare l’asprezza della fame), furono affrontate dall’Ippoliti con la massima apertura evangelica. Impegnò ogni suo bene, comprese le argenterie, per fornire il pane, due volte alla settimana, a quei sacerdoti che gli avevano indicato le necessità per i poveri della loro parrocchia. Ma l’intellettuale e uomo di fede andò oltre, pubblicando sotto la trasparente firma di un Parroco della Val di Chiana la Lettera parenetica, morale, economica di un parroco della Val di Chiana a tutti i possidenti comodi o ricchi, concernente i doveri loro rispetto ai contadini (Firenze 1772). Un sasso nello stagno. Coraggioso. Anche perché chi doveva coprirgli le spalle, il clero, in gran parte era “comodo” proprietario o beneficiario terriero. Ippoliti, risoluto, parteggiò contro i soprusi e le sopraffazioni a cui la parte più debole, ignorante e povera era sottoposta. (Ha ragione papa Bergoglio a dire che la difesa dei poveri appartiene prima dei marxisti alla Chiesa, ma con tanti limiti che lui stesso, ancor oggi, deve catechizzare i suoi seguaci per convincerli a seguirlo). Un testo chiaro, nella cui premessa c’è una dettagliata analisi statistica ed economica sugli effetti dell’applicazione dei contratti mezzadrili, dal 1762 al 1771. Dove rivela lo scopo prefissato: “difendere la causa dei lavoratori in faccia ai padroni”. Confutando le accuse rivolte dai proprietari ai contadini, fra cui la principale quella di rubare, sostiene che si tratta di un vizio imposto dall’estrema povertà (che i padroni stessi manterrebbero per meglio controllarli), che porta a piccoli furti alimentari di nessun rilievo nell’economia dei fondi. Testo illuminato. Anticipatore del superamento dei patti di mezzadria. Che ha dato luogo a vari studi e commenti: nel Dizionario biografico (Treccani) di Fagioli Vercellone, nella Critica alla mezzadria di un vescovo del ‘700, di Maria Rosa Caroselli, economista, allieva di Amintore Fanfani, ne Il Giansenismo nell’Italia del Settecento di Mario Rosa, e nella riedizione della Lettera Parenetica e delle Istruzioni ai contadini di Ivo Camerini.

Per ricchezza di spunti etici, economici, storici, antropologici la Lettera Parenetica è una fotografia reale di quel tempo, integrata dalle Istruzioni ai contadini, dopo il vespaio di polemiche sollevate contro Ippoliti. (Ispirate dagli agrari, in Novelle Letterarie). A suo tempo, ho dedicato un ampio spazio all’analisi dei due testi, in Chj lavora fa la gobba chj n’lavora fa la robba – la famiglia contadina tra Toscana e Umbria (Intermedia, 2013). Evidenziandone la valenza eterna, per chiunque volesse capire a fondo le effettive condizioni di vita e di relazione tra padroni e contadini; la religiosità; gli usi e i costumi padronali e contadini. Questi ultimi oggetto di una minuziosa descrizione dall’attento vescovo. Oltre a contenere suoi moniti e suggerimenti; un’infinità. Non banali, né noiosi. Comprensibili, anche se non tutti condivisibili. Come quando eccede in moralismi: al contadino traditore della vanga avrebbe applicato forti sanzioni pecuniarie! In ossequio a una visione statica della società, dove ognuno doveva mantenere il proprio mestiere.  Ma fondamentale è il suo senso di giustizia sociale. Come la necessità di dare al contadino la giusta quantità di cibo per farlo vivere dignitosamente; di non vessarlo di debiti con prestiti usurai; di impartirgli l’istruzione; di considerarlo un fratello e non alla stregua d’un animale; e così via. Seguendo insegnamenti evangelici, e quanto suggeriva l’esperienza d’un vescovo che dimostrò padronanza dei principi fondamentali morali, economici e di equità sociale. Sui quali Ippoliti fu antesignano purtroppo inascoltato, o, peggio, criticato. Ma vide lungo. Così come, duecento anni dopo, il Concilio Vaticano II recepì innovazioni applicate dall’Ippoliti (la liturgia celebrata nella lingua del popolo), così accadde per i patti mezzadrili (applicati in modo vessatorio, erano insostenibili dalla parte debole), che furono cancellati dall’ordinamento perché non più riformabili, anch’essi duecento anni dopo le sue denunce e inviti a più eque ripartizioni dei prodotti del lavoro nei campi.

La coscienza storica, tra i tanti meriti, ha anche difetti. Come quello di sottovalutare, quando non rimuovere, personalità scomode, originali, libere, dotate d’una visione dei fatti e del mondo in anticipo sui tempi. Quanto, in gran parte, è accaduto al vescovo Ippoliti. E mi sfugge in quale considerazione egli sia tenuto tra i suoi stessi confratelli odierni. Meritevole, se non altro, di nuovi studi e rivalutazione storiografica. (Non parlo di intestargli vicoli o piazze). E non ci meraviglieremo di trovare tra le sue affermazioni (da parte di un vescovo di quel tempo) “che sarebbe meglio un prete in meno e un cerusico in più”. Oggi che di cerusici siamo ben forniti, mentre, al contrario, i preti vengono attinti da luoghi “di missione”, non sempre pescando buoni pastori. Mentre, nel Settecento, le misere condizioni di vita, associate logicamente a tanti malanni, fecero uscire quell’auspicio provocatorio dalla bocca di quel grande vescovo generoso.

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